La notizia è questa: “Per la prima volta, nei primi otto mesi dell’anno, il numero delle cremazioni a Milano supera quello delle sepolture”.
Ed ecco che Emanuele Severino, considerando che, non solo a Milano, ma in tutto il “Nord la volontà di far cremare il proprio cadavere sta crescendo molto più rapidamente che al Sud”, si dà a elencare i motivi che potrebbero – secondo lui – spiegare il fenomeno: 1) forse perché “convinti dell’esteriorità delle forme tradizionali dell’inumazione e sparendo nel fuoco si aspira ad essere presenti in modo più autentico nella coscienza dei vivi”; 2) “forse perché i vivi li si è amati poco e quindi non interessa nemmeno quel loro più o meno apparente rimpianto che è più visibile nell’inumazione che nella cremazione”; 3) forse perché così “ci si vendica della vita che, quel poco che ha dato, lo ha dato male e lo ha tolto presto; e allora non le si vuole lasciar nulla, si vuole incenerire e annientare perfino il proprio cadavere”; 4) o forse, cosa invero più probabile, perché è un “segno dei tempi. Segno della desacralizzazione crescente”.
Il sottinteso che sta alla base della volontà di far cremare il proprio cadavere – aggiunge infatti – è la “inesistenza della resurrezione della carne. Poiché non c’è resurrezione, il cadavere può diventar cenere e nulla. E poiché il cadavere può diventare cenere non c’è resurrezione” (Corriere della sera, 3 ottobre 2004).
Ebbene, come spiegare a Severino (per il quale ogni occasione è buona per tirare in ballo il nichilismo) che una cosa è la forma (extrasensibile) del corpo fisico, altra la sostanza (sensibile) che la riempie, e che la cremazione e l’inumazione, distruggendo più o meno rapidamente la seconda, ma lasciando intatta la prima, non hanno nulla a che fare con la “resurrezione della carne”: con la resurrezione, ossia, di quell’unica e originaria forma umana (o fantòma) che, per effetto della caduta, si è ad esempio divisa in quella maschile e in quella femminile, o in quelle delle varie razze?
Fatto si è che un incendio e un terremoto possono distruggere un palazzo, ma non il suo progetto (la sua idea). Tant’è che grazie a questo un edificio può essere non solo ricostruito, ma anche trasformato e magari restituito al suo splendore originario.
In ogni caso, chiunque sia indeciso tra cremazione o inumazione potrà presto avvalersi di un’ulteriore opportunità.
Sullo stesso quotidiano (in un articolo titolato: Basta un gene e la mela diventa “umana”), Massimo Spampani scrive infatti: “Non più solo fredde pietre tombali o ricordi volubili, ma un albero vivente, un essere che si riproduce e che fruttifica, per perpetuare la memoria di chi ci è caro, e perché no, di noi stessi (…) Un albero transgenico che nel suo Dna contenga un tratto del Dna umano di chi si vuol ricordare”. Per la precisione, una “sequenza “silente” di Dna umano”, che, non codificando proteine, non abbia “effetti sul codice che determina la forma di un organismo”.
“L’idea – prosegue – è venuta a Georg Tremmel e Shiho Fukuhara, due laureati dell’Interaction Design Department del Royal College of Art di Londra, che hanno fondato la società Biopresence con lo scopo di far diventare gli alberi “tombe transgeniche”. Stravaganza o meno, il progetto ha trovato la collaborazione di Joe Davis, un biologo ricercatore al Massachusetts Institute of Technology, e ottenuto anche un cospicuo finanziamento (35.000 sterline) dal Britain’s National Endowment for science Technology and the Art (Nesta), un ente pubblico che incoraggia ricerche d’avanguardia e promuove nuovi talenti, innovazioni e creatività. Il progetto si propone di modificare geneticamente l’albero delle mele Granny Smiths, mangiare le quali assumerebbe quindi un profondo significato simbolico”.
E pensare che Adamo ed Eva, contravvenendo al volere di Dio, mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male anche per evitare che finissimo un giorno col cibarci di queste mele.
04/10/2004
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