Le opere scientifiche di Goethe (6)

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Stasera, prima di riprendere la lettura, vorrei proporvi alcune riflessioni. Abbiamo detto, la volta scorsa, che il “goetheanismo” (ritenuto da Steiner una moderna “universitas litterarum” che “prepara il terreno per l’accoglimento della scienza dello spirito”) è stato un “movimento culturale” caratterizzato da “un’atmosfera animica, una tensione ideale o un humus spirituale, alimentato, in sommo grado, da un profondo elemento umano”: da un qualcosa che alimenta dunque ben poco la cultura del presente e, in special modo, quella scientifica.
Abbiamo ripetutamente sottolineato, a questo proposito, che una cosa sono i dati raccolti dalla ricerca scientifica, altra le teorie che vengono imbastite mettendoli in rapporto tra loro.
Chi segue la scienza dello spirito dovrebbe sempre accogliere i primi, ma non mancare mai di esaminare attentamente le seconde per verificare se siano o meno ipotecate da preconcetti o pregiudizi di carattere filosofico, se non addirittura da interessi di natura politica o economica.
Allorché ci si dichiara ad esempio sicuri – come fa Rita Levi Montalcini – che non si tarderà a scoprire, grazie ai progressi delle scienze neurologiche e cognitive, “l’essenza della specie umana” (la Repubblica, 10 ottobre 2000), si dà per scontato che una “essenza” possa avere natura sensibile o subsensibile. Ma che cosa direbbe la stessa Montalcini se qualcuno sostenesse, poniamo, che non si tarderà a scoprire, grazie ai progressi dell’acustica, l’essenza dei colori? Prima di quella della specie umana, non sarebbe perciò meglio ricercare l’essenza dell’essenza? Non sarebbe infatti consigliabile avere una qualche idea di quello che si sta cercando, soprattutto quando si tratta – come in questo caso – di farsi un’idea dell’idea?
Andando appunto alla ricerca dell’essenza delle piante e degli animali, Goethe ha scoperto – come abbiamo detto – il “tipo”.
Ma la realtà del “tipo”, in quanto essenziale, è qualitativa; e qui casca l’asino, perché oggi si hanno occhi per la quantità, ma non per la qualità; si è addirittura convinti – e lo si dichiara – che la realtà qualitativa non può e non deve riguardare la scienza: quella scienza che, riducendo tutto al quantitativo, finisce però col dare sempre e soltanto numeri.
L’abbiamo già detto: l’essenza non è una parola, bensì una realtà. Non basta perciò pronunciarne il nome o figurarsela astrattamente: occorre percepirla.
Sappiamo che la prima tappa del “sentiero della conoscenza” è rappresentata dallo “studio”. Lo studio apre la strada, ma, per passare dal semplice pensare (dal pensare astratto) al pensare-percepire (al pensare concreto), bisogna poi integrarlo con l’esercizio o la disciplina interiore. Solo così si può infatti sviluppare quella coscienza immaginativa che – come testimonia Goethe – è, a un tempo, un pensare-vedere o un vedere-pensare.
Quanto mai significativo, al riguardo, è il seguente e noto episodio, così riferito da Steiner: “Goethe aveva elaborato in sé la rappresentazione di una forma plastico-ideale, quale si può palesare ad uno spirito in grado di avvolgere con lo sguardo la molteplicità delle figure vegetali e di notare il loro elemento comune. Schiller considerò l’immagine di questa entità che dovrebbe vivere non in una singola pianta ma in tutte, e disse, scuotendo con disapprovazione il capo: “Questa non è esperienza, questa è un’idea”. A Goethe sembrò che quelle parole venissero da un mondo estraneo. Egli sapeva, consapevolmente, di aver ottenuto la sua figura simbolica attraverso lo stesso genere di percezione spontanea per cui si giunge alla rappresentazione di una cosa che si può vedere con gli occhi e afferrare con le mani. Nella pianta simbolica o primordiale, vedeva un essere tanto oggettivo quanto la pianta singola. E riteneva di doverla non a un’arbitraria speculazione, ma a un’osservazione spregiudicata e imparziale. Perciò non poté replicare che questo: “Mi può far molto piacere se ho idee senza saperlo e le vedo persino con gli occhi” (R.Steiner: La concezione goethiana del mondo – Tilopa, Roma 1991, pp. 17-18).
In ogni caso, anche per quel che riguarda la scoperta dell’”osso intermascellare”, Steiner si mostra interessato, più che alla scoperta in sé, al modo in cui Goethe è giunto a farla: ovvero, al ragionamento che l’ha preparata e permessa.
Procedere seguendo un ragionamento (un processo di pensiero) è cosa infatti ben diversa dal procedere alla cieca, attraverso tentativi ed errori.
E quale è stato, in questo caso, il ragionamento di Goethe? All’incirca il seguente: “Se alla base dell’evoluzione degli organismi c’è il processo della metamorfosi, e quindi un’essenziale continuità, anche nell’uomo ci deve essere quell’osso intermascellare presente in tutti gli animali”.
Si è messo quindi a cercarlo, e lo ha trovato.
Come sapete, la scienza, osservando e studiando i fenomeni, formula delle ipotesi, che la verifica sperimentale può poi promuovere o bocciare.
All’inizio e alla fine del suo procedimento ci sono dunque due fatti d’esperienza: il fatto naturale (detto, da Goethe, “fenomeno empirico”) e quello sperimentale (detto, da Goethe, “fenomeno scientifico”); e in mezzo che c’è? C’è l’ipotesi: ossia, non un fatto, bensì un processo di pensiero che può avere quale esito l’idea A, l’idea B, l’idea C, ecc..
Ebbene, che cosa penseremmo di un processo di pensiero che approdasse sempre all’idea A (“fissa” nella testa dello scienziato), e mai a quella B, o a quella C, ecc. (animante oggettivamente il fenomeno)?
Lo giudicheremmo, come minimo, monotono o monocorde, e per ciò stesso incapace di misurarsi con la varietà, la ricchezza e la fantasia della realtà (“le ipotesi – dice infatti Goethe – sono ninnenanne con cui il maestro addormenta i suoi alunni” – Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p.138). E avremmo ragione di farlo, poiché quello dell’ipotesi è proprio il momento in cui si palesa la “nobilitate” (la moralità) dello scienziato: in cui si palesa, cioè, se lo scienziato ama o non ama la realtà più di se stesso.
Ma oggi c’è forse un processo di pensiero che approda invariabilmente all’idea A? Certo che c’è: è appunto quello (materialistico) che non fa che ridurre la qualità alla quantità.

Risposta a una domanda
Vede, del processo della conoscenza fanno parte tanto l’induzione, che va dal singolare (dal percetto) all’universale (al concetto), quanto la deduzione, che va, viceversa, dall’universale (dal concetto) al singolare (al percetto).
Oggi, però, si dà scarso valore al processo deduttivo, perché si è abituati alla deduzione filosofica o logica (che va da concetto a concetto) e non a quella scientifica (che va dal concetto al percetto).
Che cosa usa fare infatti il filosofo? Partendo da uno o più principi (o da una o più categorie), usa dedurre tutta una serie di cose che ne discendono, sì, logicamente, ma che non è detto che corrispondano per ciò stesso alla realtà. Dal punto di vista della scienza dello spirito, questo modo di procedere è caratteristico dell’”anima razionale o affettiva”, più attenta infatti al concetto (al contenuto del pensiero) che non, come l’”anima cosciente”, al percetto (al contenuto della percezione).
Osserva a questo proposito Steiner: “Chi si chiede “quale rapporto c’è tra idea e mondo sensibile al di fuori dell’uomo” pone male la domanda, perché al di fuori dell’uomo un mondo sensibile (natura) privo d’idee non esiste. Solo l’uomo, per sé, può separare l’idea dal mondo dei sensi, e così rappresentarsi una natura senza idee” (R.Steiner: La concezione goethiana del mondo, p. 23).
Proprio osservando la natura, Goethe “induce” infatti l’universale (il tipo) osservando il singolare (la pianta o l’animale) e “deduce” il singolare osservando l’universale. Egli sa perciò vedere le idee nella natura e la natura nelle idee, mentre il filosofo vede le idee fuori della natura e lo scienziato (materialista) vede la natura fuori delle idee.
Si tratta dunque di passare dal realismo delle cose al realismo delle idee; per farlo, occorre tuttavia attraversare l’oscura selva di una cultura, quale quella contemporanea, che addirittura si compiace di aver dissolto tanto la realtà del soggetto quanto quella dell’oggetto.
Della prima dissoluzione, si è incaricata la psicologia, della seconda, la fisica. La psicologia ha aperto infatti le porte agli istinti, agli impulsi, alle istanze affettive, emotive o archetipiche, chiudendole al contempo all’Io, mentre la fisica le ha aperte alle particelle subatomiche, chiudendole al contempo agli oggetti, così come li percepiscono i sensi (“Per se stesso – asserisce invece Goethe – e in quanto si serve dei suoi sensi integri l’uomo è il maggiore e il più preciso strumento di fisica che possa esistere”; i sensi infatti “non ingannano; inganna il giudizio” – Massime e riflessioni, pp. 160 e 227).
Si riesce a sapere, in tal modo, che “accadono” dei fatti o degli eventi, ma non chi li faccia accadere né a chi accadano; si ritiene infatti che il soggetto e l’oggetto siano “indeterminabili”, e che sia perciò possibile conoscere solo la loro “interazione”.
Già, ma chi osserva tale interazione, interagisce o no col fenomeno? Qui, delle due, l’una: o interagisce con l’interazione, e ciò vuol dire allora che anche tale fenomeno è indeterminabile; o non interagisce con l’interazione, e ciò vuol dire allora che tale fenomeno, essendo determinabile, non esclude la possibilità di una conoscenza oggettiva.
E’ molto importante tenere presente queste cose perché quasi tutti quelli che cadono dalla “padella” (arimanica) del realismo ingenuo (del realismo delle cose) finiscono in genere nella “brace” (luciferica) del relativismo (o di quello che John R. Searle chiama “antirealismo”).
Ricordate, ad esempio, quel che dice Boncinelli degli esseri viventi? “Gli esseri viventi – dice – sono essenzialmente dei motori – meccanici, termici, chimici o elettrochimici – che prendono dall’ambiente circostante energia di buona qualità e gliela restituiscono degradata. Il saldo attivo di questa trasformazione viene utilizzato per sostenere la loro incessante attività, il grosso della quale è finalizzato a mantenersi vivi, una certa porzione a moltiplicarsi e un’altra porzione a trasformare, più o meno sensibilmente, l’ambiente circostante” (E.Boncinelli: Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p. 9).
Orbene, se Arimane “veglia” su quanti si accontentano di utilizzare parte di tale “saldo attivo” per mangiare e dormire (“mantenersi vivi”), riprodursi (“moltiplicarsi”) e lavorare (“trasformare più o meno sensibilmente l’ambiente circostante”), Lucifero attende invece al varco quanti, non accontentandosi di tutto ciò, sognano una vita o un mondo migliore, non sapendo o volendo però pensarli in modo migliore (sviluppando, cioè, la loro coscienza).
Tanto i primi (con soddisfazione) che i secondi (con rammarico) sono comunque convinti che il solo modo di fare scienza sia quello oggi in vigore, poiché non si rendono conto ch’è da tempo in atto, nella vita culturale, una minacciosa regressione dall’”anima cosciente” all’”anima razionale o affettiva” (se non, addirittura, all’”anima senziente”) o, il che è lo stesso, dalla scienza (galileiana) alla metafisica scientistica e materialistica.
Proprio la fisica e la psicologia, ad esempio, si sono spinte, rispettivamente, al di là del sensibile e al di là della coscienza, illudendosi di avere con ciò raggiunto un qualcosa di superiore (esemplare, per quanto riguarda la prima, è Il Tao della fisica di Fritjof Capra – Adelphi, Milano 1994), mentre, per il modo acritico in cui si sono mosse, sono di fatto discese nel subsensibile e nel subcosciente.
L’equivoco – ne converrete – non è da poco.
In realtà, la conoscenza scientifica del mondo naturale avrebbe dovuto preparare la conoscenza scientifica di quello spirituale. Esaurita tale fase propedeutica (verso la fine del XIX secolo), la scienza non si è però rivolta al soprasensibile, bensì al subsensibile, penetrando in questa sfera senza avere la più pallida idea della qualità delle forze che vi albergano e operano.
Come si quantificava o matematizzava il sensibile, si è continuato infatti a quantificare o matematizzare il subsensibile (tanto da varare una meccanica “quantistica”), senza nemmeno domandarsi se un siffatto modo di procedere, sperimentato con (relativo) successo nella conoscenza del primo, fosse idoneo a comprendere la realtà del secondo.
Qual è infatti la qualità della quantità? Ecco un interrogativo al quale potrebbe rispondere solo una scienza dello spirito (o degli spiriti).
E’ però tempo di tornare al nostro testo e di riprendere il discorso sull’osso intermascellare.

Scrive Steiner: “Goethe, col suo indirizzo spirituale, non poteva pensare se non che un osso intermascellare doveva esserci anche nell’uomo. Si trattava solo di dimostrarlo empiricamente, cercando quale aspetto esso prenda nell’uomo e fino a che punto si inserisca nella totalità dell’organismo. Questa dimostrazione gli riuscì solo nella primavera del 1784, in collaborazione con Loder (Justus Christian Loder, anatomista e professore a Jena – nda), col quale comparava in Jena teschi umani e animali. Goethe annunciò la cosa il 27 marzo, tanto alla signora von Stein quanto a Herder” (pp. 33-34).

Ciò che Steiner chiama qui “indirizzo spirituale”, potremmo chiamarlo anche “idea-guida”.
Pensate per esempio al labirinto in cui dimorava il Minotauro. Come riuscì a venirne fuori Teseo? Lo sanno tutti: grazie al filo donatogli da Arianna. Ma appunto questa, in immagine, è la funzione dell’idea-guida: quella di garantire, cioè, una luminosa continuità al pensare, e quindi – come si usa dire – al “filo” del ragionamento o del discorso.
L’idea-guida, in sé, potrebbe essere invece rappresentata da quella stella o cometa che guidò i Re Magi alla culla del bambino Gesù.
Fate però attenzione: l’idea-guida va attivamente, lucidamente e criticamente conquistata. Un conto, infatti, è un’idea che possediamo e dalla quale ci facciamo consapevolmente e liberamente guidare, altro un’idea che ci possiede e trascina, rendendoci dogmatici, fanatici e intolleranti.
Prima di concludere, torniamo però, per un attimo, al “filo”.
Quando facciamo l’esercizio della concentrazione, svolgiamo una serie più o meno lunga di rappresentazioni. Ma che cosa conferisce loro ordine e coerenza? Proprio quel filo del ragionamento che dipaniamo ispirati dall’idea-guida o, nel caso specifico, dal tema dell’esercizio (il bottone, la spilla, la matita, ecc.).
In virtù di questo esercizio, ci è dato dunque realizzare che la natura delle rappresentazioni è discreta, mentre quella del ragionamento è continua (come quella – già lo sappiamo – del flusso del tempo, della vita, del pensare o della memoria).
Ma ha forse qualcosa a che fare, questo, con la scoperta dell’osso intermascellare? Ebbene, ascoltate quanto dice qui Steiner:

“Goethe non pensava mai l’organismo come una struttura morta e rigida, ma continuamente fluente dalle sue intime forze formative (…) La scoperta dell’osso intermascellare è quindi solamente una conseguenza di quelle grandi concezioni. Essa doveva rimanere incomprensibile per coloro che non le avevano, ché veniva loro tolta in tal modo l’unica caratteristica storico-naturale atta a far distinguere l’uomo dagli animali. Non avevano la più pallida idea di quei pensieri che fervevano in Goethe, sugli elementi che, distribuiti negli animali, si riuniscono in armonia nella figura umana una, e così, nonostante l’identità di ogni particolare, fondano la differenza nella totalità che assegna all’uomo il suo alto grado nella serie degli esseri. Il loro modo di osservare non era un confronto ideale, ma estrinseco, per il quale non esisteva nell’uomo l’osso intermascellare. Il vedere con gli occhi dello spirito, che Goethe esigeva, era per loro oggetto di ben poca comprensione, e ciò determinava la differenza di giudizio tra loro e Goethe” (p. 35).

Non solo, ma ne La concezione goethiana del mondo aggiunge: “Quando Goethe la osserva, la natura stessa porta le idee verso di lui (…) Egli deve lasciar scorrere attraverso di sé, perennemente, il fiume degli eventi del mondo. Sentirà allora che il mondo delle idee è la potenza creatrice attiva della natura, e non altro. E non si tratterrà a meditare al di sopra delle cose e sulle cose, ma vorrà penetrare nelle loro profondità per estrarne quello che in esse vive e agisce” (p. 37).

Roma, 10 ottobre 2000

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Di Lucio Russo
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