Le opere scientifiche di Goethe (38)

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Affronteremo stasera l’undicesimo capitolo, intitolato: Goethe e la matematica, ma credo che cominceremo anche il dodicesimo, dal momento che si tratta di due capitoli assai brevi.

Scrive Steiner: “Goethe ha espresso la sua ammirazione per la matematica in modo così risoluto, che non è assolutamente lecito affermare ch’egli tenesse in dispregio questa scienza. Al contrario, egli vorrebbe che tutta la scienza della natura fosse compenetrata dalla rigorosità ch’è propria alla matematica. “La prudenza che sta nel dedurre da ogni singolo fatto solamente quello che immediatamente lo segue, la dobbiamo apprendere dai matematici; e anche là dove non ci serviamo del calcolo, dobbiamo sempre procedere così come se fossimo obbligati a renderne conto al più severo dei geometri”. “Mi sono sentito accusare d’essere un avversario, un nemico della matematica, mentre nessuno potrebbe tenerla in maggior pregio di me”” (p. 169).

Ma perché Goethe tiene in così grande considerazione la matematica? Perché “non è – come si dice – un’opinione”: perché è ossia impersonale, obiettiva e rigorosa.
Di fronte al fatto che due più due fa quattro si tacitano infatti tutte le simpatie e antipatie, nonché tutti i punti di vista personali, filosofici o ideologici.
Si tratta quindi di un prezioso “salvagente” cui soprattutto gli scienziati si aggrappano per rimanere sul piano (spirituale) dell’oggettività e non essere inghiottiti dal mare magnum (psichico) della soggettività.
Per questo aspetto, la matematica è in effetti una grande educatrice dello spirito.
Ce ne renderemo ancor più conto, se ci ricorderemo che le scienze naturali rappresentano per l’uomo un mezzo, e non un fine: un mezzo in virtù del quale egli impara a superare la propria natura inferiore (la propria soggettività), per poter così affrontare la conoscenza di se stesso (“Nosce te ipsum”), che non è soltanto materiale, bensì anche, e in primo luogo, spirituale.
Tutto l’impegno nobilmente profuso nella ricerca scientifico-naturale rappresenta dunque una sorta di “allenamento” che l’uomo svolge, in modo per lo più inconsapevole, in vista della ricerca scientifico-spirituale.
Non a caso, nel primo dei due passi riportati da Steiner, l’accento di Goethe cade sulla “prudenza”: ovvero, su una qualità dell’anima che implica giudizio, misura, riflessione e ponderatezza.
Una volta apprese dalla matematica queste qualità si può però anche prescindere dalla matematica stessa o, più precisamente, dal calcolo.
E’ impossibile infatti far scienza se si prescinde dallo spirito della matematica, mentre è possibile farla senza calcolare o computare.
Osserva al riguardo Goethe: “I matematici son gente strana; grazie alle grandi cose da essi compiute, si sono eretti a corporazione universale, e non ammettono più nulla al mondo se non ciò che è nel loro campo e si può trattare col loro metodo. Un matematico insigne ebbe a dire, a proposito di una teoria fisica che veniva raccomandata alla sua attenzione: “Ma non si può ridurre proprio niente al calcolo?”” (Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 239).
Ma per quale ragione a questo “matematico insigne” stava tanto a cuore il calcolo? Per la semplice ragione che reificava lo spirito della matematica, proiettandolo (inconsciamente) sul calcolo, alla stessa stregua di quanti – come abbiamo già visto – reificano lo spirito della scienza, proiettandolo sul metodo (se non addirittura sulle tecniche o sui protocolli).
Dice Goethe: “Che si possa ridurre e scartare un fenomeno con il calcolo, o con le parole, è un’idea sbagliata”. Come ben sapete, è proprio però “con il calcolo (il famoso numero di Avogrado – nda), o con le parole” che molti membri dell’odierna “comunità scientifica” vorrebbero ad esempio ridurre e scartare il fenomeno “omeopatico”.
Ricordate che cosa ha detto Steiner? Che “Goethe è il Copernico e il Keplero del mondo organico” (p. 70). Egli ha infatti operato, nell’ambito della realtà organica, col medesimo rigore con il quale un matematico opera nell’ambito di quella inorganica.

Scrive Steiner: “Goethe sapeva che le vie alla verità sono infinite, e che ciascuno può percorrere quella che è conforme alle sue facoltà, e arrivare alla meta (…) “L’uomo più mediocre può essere completo, quando si muova entro i limiti delle sue qualità e facoltà; mentre doti eccellenti possono venir oscurate, neutralizzate e distrutte, quando manchi quell’equilibrio richiesto dalle circostanze”” (p. 170).

Nel caso specifico, potremmo perciò dire, a mo’ di battuta, che “doti eccellenti possono venir oscurate, neutralizzate e distrutte, quando manchi” la misura di ciò ch’è misurabile e di ciò che non lo è. Dice Goethe: “Come se non esistesse altro che quello che si può dimostrare matematicamente! E’ come se uno potesse essere tanto pazzo da non credere all’amore della sua bella, soltanto perchè essa non è in grado di dimostrarglielo matematicamente! Matematicamente potrà dimostrargli la sua dote, non il suo amore!” (G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol. I, p. 193).

Scrive Steiner: “Oggetto della matematica è la grandezza; è ciò che ammette un “più” o un “meno”. Ma la grandezza non è qualcosa che esista di per sé. Nella vasta cerchia dell’esperienza umana non c’è un oggetto che sia pura grandezza. Accanto ad altri caratteri, ogni oggetto ne ha certuni che sono determinabili a mezzo di numeri. Poiché la matematica si occupa di grandezze, essa non ha per oggetto nessuna cosa dell’esperienza che sia in sé completa, bensì di ogni cosa soltanto quello che si può misurare o contare; e scevera dalle cose tutto quanto può essere sottoposto a queste operazioni. Così ottiene un mondo di astrazioni entro le quali poi lavora (…) E’ dunque decisamente un errore il credere di poter afferrare, con giudizi matematici, la natura intera nel suo complesso. La natura non è solo quantità, è anche qualità; e la matematica ha a che fare solo col quanto. La trattazione matematica, e l’altra che guarda puramente al qualitativo, devono darsi la mano, e collaborare; allora s’incontreranno nell’oggetto, del quale ciascuna comprende un lato” (p. 171).

Fatto sta che una cosa è dire: “Compŭto, ergo sum”, altra dire: “Sum, ergo compŭto”. Nel primo caso, per potersi sentire con la necessaria continuità un Io, non si può infatti smettere di computare; nel secondo, ci si può invece concedere la libertà di farlo, laddove è essenziale o utile (nella sfera della quantità), e di non farlo, laddove è inessenziale o inutile (nella sfera della qualità).
Come si vede, chi dice (inconsciamente): “Compŭto, ergo sum” non si preoccupa tanto del mondo quanto di se stesso; vuoi che si trovi alle prese con un minerale, vuoi con un vegetale, vuoi con un animale, vuoi con un essere umano, non potrà quindi far altro che computare, per potersi sentire un Io (e magari uno “scienziato”).
Dal punto di vista animico, ciò equivale però a una “parèsi”: ovvero, a una grave limitazione della libera motilità assicurata dal “Sum, ergo compŭto”.
Pensate, ad esempio, alla cosiddetta “ingegneria genetica”. Che con una mentalità ingegneristica ci si dia alla costruzione di ponti o gallerie è più che comprensibile, ma che con la stessa ci si dia a costruire invece organismi (geneticamente modificati) lo è molto meno. E perché allora lo si fa? E’ semplice: perché non si sa fare nient’altro o, per meglio dire, perchè si sa pensare soltanto in quel modo, e da quel modo si ricava la sensazione o il sentimento dell’Io.
Dobbiamo pertanto esser grati a quanti, con mentalità ingegneristica, realizzano le cosiddette “grandi opere”, ma non a quanti, con la stessa mentalità, affrontano, sul piano teorico e pratico, i problemi della vita, dell’anima e dello spirito.
Dice Steiner: “Oggetto della matematica è la grandezza”. Ma che cos’è la “grandezza”? E’ – come spiega Hegel – una “qualità senza qualità”.
Avete presente quell’indovinello che chiede se pesa più un chilo di paglia o un chilo di ferro? Ebbene, non fa leva appunto sul fatto che la vistosa differenza qualitativa tra il ferro e la paglia può indurre qualcuno a scotomizzare l’uguaglianza del loro peso? E non dimostra (suo malgrado) che l’uguaglianza quantitativa si dà proprio perché non si tiene in alcun conto la differenza qualitativa?
Quando si giunge alla quantità – afferma infatti Hegel – l’essenza (la qualità) diviene insignificante. (“La quantità è il puro essere, in cui la determinazione è posta non più come una con l’essere stesso, ma come superata o indifferente” – Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari 1989, p. 115).
Un fiore, ad esempio, è “come superato o indifferente” allorché, reciso, è “non più come uno” con l’essere della pianta, così come il corpo (fisico) dell’animale o dell’uomo è “come superato o indifferente” allorché, cadavere, è “non più come uno” con il suo essere: allorché si trova cioè separato o estraniato dalla sua ragion d’essere.
Il che sta dunque a significare che la sfera della quantità è quella stessa della morte. (“Nel suo vero significato – osserva infatti Steiner – la morte non è null’altro che il carattere impresso a determinate sostanzialità, le quali ora non si trovano nella loro giusta sede, le quali ora sono escluse dalla loro vera sede. Anche quando nell’uomo subentra la morte, si tratta sempre del medesimo processo. Perché se guardiamo il cadavere, se guardiamo a quanto dell’uomo morto permane nel mondo della maja, vi troviamo contenuta solo una sostanzialità che, al momento della morte, viene esclusa dall’esistenza dell’io, del corpo astrale e del corpo eterico, viene estraniata dalla sede che, sola, le conferirebbe il suo vero senso. Infatti il corpo fisico dell’uomo non ha senso alcuno senza il corpo eterico, senza il corpo astrale e l’io” (R.Steiner: La realtà spirituale della Terra in AntroposofiaRivista mensile di Scienza dello Spirito, anno XXXVIII, N° 1-3, gennaio-marzo 1983, p. 9).
E’ singolare, perciò, che ci si dia oggi tanto da fare per “certificare” o “marchiare” la qualità: è singolare, ossia, vedere l’”uomo senza qualità” (Musil) affannosamente e maldestramente alle prese con una realtà della quale non ha la benché minima coscienza scientifica. Per poterla avere dovrebbe infatti sviluppare la coscienza ispirativa, che si trova al di là, non solo dell’ordinaria coscienza rappresentativa, ma anche di quella immaginativa.
Il che implica, innanzitutto, il superamento di quel pregiudizio che, sulla scia della celebre e arbitraria distinzione di Locke (1632-1704) tra le “qualità primarie” e quelle “secondarie”, ci porta a credere che la quantità sia oggettiva e la qualità soggettiva.
Non illudiamoci, la qualità è in primo luogo anima, e nessuno potrà perciò restituire qualità alla vita del mondo e di se stesso finché non restituirà a entrambi l’anima.
Teniamo peraltro presente che la qualità comprende la quantità (e può pertanto metterla al proprio servizio), mentre la quantità non comprende la qualità (e tende quindi ad abbassarla o ridurla al proprio livello).

Eccoci così arrivati al dodicesimo capitolo, intitolato: Il principio fondamentale geologico di Goethe.

Scrive Steiner: “Spesso Goethe viene cercato là dove non è assolutamente da trovarsi. Ciò è accaduto, tra l’altro, nei giudizi sulle indagini geologiche del poeta (…) Qui egli dovrebbe sopra tutto venir giudicato secondo la sua propria massima: “Nelle opere dell’uomo, come in quelle della natura, sono degni di attenzione specialmente gli intenti”, e “lo spirito secondo il quale operiamo è la cosa suprema”. Per noi è esemplare, non ciò ch’egli raggiunse, ma il modo come lavorò per raggiungerlo. Non si tratta di un’opinione da insegnare, ma di un metodo da comunicare. La prima dipende dai mezzi scientifici del tempo, e può essere superata; il secondo è proceduto dalle grandi disposizioni spirituali di Goethe e resiste anche quando gli strumenti scientifici si perfezionino e l’esperienza si allarghi” (p. 173).

Come si vede, è questa l’ennesima dimostrazione che il “come” è più importante del “cosa”, poiché è il “come” a rivelare il “chi”: ossia “lo spirito secondo il quale operiamo”.
“Non si tratta – dice Steiner – di un’opinione da insegnare, ma di un metodo da comunicare”. L’opinione è infatti un “pensato”, mentre il metodo è un “pensare”, un processo o un atto dinamico e qualitativo: il sapere accumula o capitalizza la prima, mentre il conoscere si nutre del secondo. (Il Capitale intellettuale [Intellectual Capital]: è questo l’emblematico titolo di un recente libro di T.A.Stewart – Ponte alle Grazie, Milano 1999).
Inutile ricordare, ancora una volta, che ciò vale anche, e a maggior ragione, per l’antroposofia. Questa non è infatti un sapere o una dottrina da apprendere, bensì un metodo o – come dice Steiner – una “via” della conoscenza nella quale è appunto il “come”, valendo più del “cosa”, a guidarci al “chi”: ossia, allo spirito che la anima.
Vedete, potremmo imparare a memoria tutte le conferenze di Steiner e non fare un solo passo che ci avvicini allo spirito che parla attraverso la sua opera; ma se non ci avviciniamo a tale spirito, tale spirito non si avvicina a noi.
Sapete, quando qualcuno mi dice che Tizio o Caio “conosce l’antroposofia”, uso sempre rispondere: “Resta da vedere, però, se l’antroposofia conosce lui”. La conosce infatti davvero soltanto colui che è da Lei conosciuto. (Si consulti S.O.Prokofieff: L’Essere Antroposofia – Arcobaleno, Oriago di Mira (Ve) 1996 – ndr).
Ma qual è lo spirito che anima la scienza dello spirito? Quello stesso che si trova al centro del noto gruppo ligneo scolpito da Steiner, e da lui significativamente indicato come il “Rappresentante dell’umanità” (come l””Ecce homo”).
Pensate che Steiner è arrivato addirittura a dire che l’antroposofia, ove venisse espiantata dal suo spirito, potrebbe diventare pericolosa. E perché? Ma è chiaro: perché non sarebbe più l’antroposofia, in quanto nel corpo del suo insegnamento, si sarebbe appunto impiantato un altro spirito.
Ma torniamo a noi.

Scrive Steiner: “Goethe fu condotto alla geologia dagli incarichi del suo ufficio relativi alle miniere di Ilmenau (…) In mezzo al relativo lavoro pratico nacque in lui il bisogno scientifico di scoprire le leggi di quei fenomeni ch’era messo in grado di osservare da vicino (…) Qui emerge subito una peculiarità insita profondamente nella natura di Goethe. Egli ha un bisogno essenzialmente diverso da quello di molti scienziati. Mentre per questi ultimi l’importante sta sopra tutto nella conoscenza del particolare, e una costruzione ideale, un sistema, li interessa generalmente solo in quanto ne ricevono aiuto nell’osservazione dei particolari, per Goethe il singolo fenomeno è solo un punto di passaggio verso una vasta comprensione generale dell’esistenza. Nel saggio sulla Natura si legge: “Essa vive in innumerevoli creature, e la madre dov’è?”” (pp. 173-174).
Dov’è cioè quella Natura, ossia quell’Uno, che si presenta a noi ora in veste minerale, ora in veste vegetale, ora in veste animale?
Dice Steiner che già allora molti scienziati non si ponevano un interrogativo del genere, in quanto interessati soprattutto alla conoscenza del particolare; figuriamoci, quindi, se potrebbero porselo adesso che sono passati, non solo dal particolare al microscopico o all’infinitamente piccolo, ma anche a gestire tale vocazione “minimalistica” con i computer, e quindi in chiave unicamente “computazionale”.
Ci è ormai difficile immaginare, in effetti, di quale “aura” fosse circonfuso il lavoro dei rari scienziati di un tempo, dal momento che, con l’avvento (dopo la seconda guerra mondiale) della cosiddetta “Big Science”, mentre il numero dei ricercatori o degli scienziati si è andato via via ingrandendo, l’”aura” che ne pervade l’attività si è andata via via rimpicciolendo e ingrigendo (risentendo, con ogni probabilità, della “materia grigia” di cui questi ricercatori e scienziati, da buoni “cefalocentristi”, esclusivamente si servono).

Continua comunque Steiner: “Lo stesso anelito a riconoscere, non solo ciò che esiste immediatamente, ma i fondamenti più profondi dell’esistente, lo troviamo anche nel Faust: “Scorgi operare ogni linfa, ogni seme”. Così anche ciò ch’egli osserva sopra e sotto la superficie della terra gli diventa un mezzo per penetrare nell’enigma della formazione del mondo. Ciò ch’egli scrive il 28 dicembre 1789 alla Duchessa Luisa: “Le opere della natura sono sempre come una parola pronunziata da Dio”” (p. 174).

Per intendere tale “parola”, non è però sufficiente farne lo “spelling”. Un conto, infatti, è lo “spelling”, grazie al quale si isolano le singole consonanti e vocali, poniamo, della parola “TORTA” (T-O-R-T-A), altro è la parola “TORTA” quale insieme. Non sono infatti le lettere di cui si compone a caratterizzarla, quanto piuttosto l’ordine in cui vi si trovano disposte.
Basterebbe ad esempio invertire la O e la R per accorgersi di avere a che fare non più con una “TORTA”, bensì con una “TROTA”.
Mi rendo conto che una considerazione del genere possa sembrare a prima vista banale. Molti, tuttavia, si meravigliano oggi del fatto che i rospi (scherzi del numero!) abbiano una quantità di geni di gran lunga superiore a quella degli esseri umani.
Il che, per tornare al nostro esempio, sarebbe come meravigliarsi che la parola “Io”, di due lettere, e la parola “Dio”, di tre lettere, abbiano un significato di gran lunga superiore a quello della parola “precipitevolissimevolmente”, che ne conta invece ventisei.

Roma, 19 giugno 2001

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Di Lucio Russo
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