Antropologia (11)

A

Stasera, prima di riprendere la lettura, vorrei dire ancora qualcosa sul problema della percezione.
Come procede uno scienziato? Osserva i fenomeni (sensibili), formula delle ipotesi, e poi le verifica (sperimentalmente). La facoltà di osservare la deve ai sensi, la facoltà di formulare delle ipotesi la deve al pensiero, la facoltà di verificare la deve di nuovo ai sensi.
Probativo è dunque, per lui, ciò che gli danno i sensi, e non ciò che gli dà il pensiero: ossia, ciò che gli dà l’esperienza, e non la sola riflessione.
Ebbene, è questo il metodo della moderna anima cosciente. Ove non procedessimo in questo modo (induttivo e scientifico), regrediremmo a quello (deduttivo e speculativo) dell’anima razionale o affettiva.
Non dobbiamo pertanto abbandonare il metodo sperimentale, bensì estenderlo dalla sfera del mondo sensibile alla sfera del mondo extrasensibile. Chiunque voglia conoscere davvero la realtà non può infatti limitarsi a sperimentare le cose (i fenomeni sensibili), ma deve sperimentare, in quanto facenti parte della realtà, anche i pensieri (che pensano le cose), i sentimenti (che reagiscono alle cose) e gli impulsi della volontà (che agiscono sulle cose).
Quale differenza si dà dunque tra la scienza della natura e la scienza dello spirito? Che la prima si limita a studiare le cose, mentre la seconda studia, non solo le cose, ma anche il modo in cui la prima riesce, osservando e pensando, a conoscerle.
Ignorando il modo in cui riusciamo a conoscere le cose, finiamo con l’ignorare anche l’essenza delle cose (la “cosa in sé” di Kant).
Gli scienziati della natura esigono (giustamente) di vedere le cose con i propri occhi, di udirle con le proprie orecchie o di toccarle con le proprie mani, ma ignorano che cosa propriamente vedono, odono o toccano: ignorano, cioè, gli effettivi contenuti delle loro esperienze.
Mi è parso importante dir questo, perché può aiutarci a capire il perché la scienza dello spirito sia la più alta espressione della modernità, e il perché, proprio per questo, non venga apprezzata, sia da coloro che avversano la modernità, sia da coloro che credono che la modernità non possa che essere rappresentata, in un modo o nell’altro, dal materialismo.
Ma il materialismo non è affatto moderno. Si tratta infatti di una metafisica (scientista), e quindi di uno dei tanti frutti dell’anima razionale o affettiva.
Ma come si fa, in concreto, a estendere la conoscenza scientifica dalla sfera del mondo sensibile a quella del mondo extrasensibile? Cominciando col portarla, da una parte, al di là dell’immagine percettiva (esteriore) e, dall’altra, al di là della rappresentazione (interiore). Sono queste infatti a segnare, quali “colonne d’Ercole”, i limiti del mondo da noi normalmente conosciuto.
In questo momento, ad esempio, vedo sulla parete quel quadro. Ne ho dunque una immagine percettiva. Se adesso chiudo gli occhi e torno a immaginarlo, ne ho invece una rappresentazione (o una immagine mnemonica “a breve termine”).
Bene, ma di che cosa sono “immagine” queste due immagini? Che cosa le produce? Si tratta di due cose diverse o della stessa cosa?
E’ proprio quando si tratta di rispondere a questi interrogativi che il posto dell’anima cosciente viene in genere usurpato dall’anima razionale o affettiva e dalle sue astratte e soggettive speculazioni o elucubrazioni.
Per i materialisti, ad esempio, al di là dell’immagine percettiva e della rappresentazione ci sarebbe appunto la “materia”, mentre, per Kant, al di là della prima, ci sarebbe la “cosa in sé”, e al di là della seconda, “l’Io trascendentale”.
Per entrambi, ci sarebbero dunque dei “pensati” (le idee della materia, della cosa in sé e dell’Io trascendentale) non solo non percepiti, ma addirittura impercepibili.
Piaccia o meno, ci troviamo quindi al cospetto di due opposte “fedi”: di quella (arimanica) del materialismo nell’inconoscibile materia, e di quella (luciferica) di Kant nell’inconoscibile spirito.
Fatto sta che se si riconosce – come si riconosce – che l’immagine percettiva e la rappresentazione sono dei prodotti, prima di spingersi a fare delle congetture, più o meno ardite, sulla natura del loro produttore (o dei loro produttori), sarebbe meglio trovare il modo di osservare e sperimentare il produrre.
E in qual modo si può osservare e sperimentare il “produrre”? Impegnandosi nell’esercizio della “concentrazione”, così come viene ad esempio illustrato da Massimo Scaligero nel suo Manuale pratico della meditazione o nel suo Tecniche della concentrazione interiore. Grazie a questo esercizio – spiega infatti – “il pensiero può ripercorrere il proprio processo (dal “pensato-prodotto” al “pensare-produrre” – nda): con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità”.
Potremmo dunque dire, in termini antroposofici, che ogni pretesa metafisica nasce da una hybris: dal portarsi cioè direttamente dal piano fisico a quello astrale (quello delle idee), saltando a piè pari il piano eterico intermedio (quello del pensare come pura forza o puro movimento).
Non a caso, Steiner ha preso le mosse – come ben sapete – dalle opere scientifiche di Goethe: ossia dalle opere di colui che è stato, per il mondo eterico (vivente), quello che Galilei è stato per il mondo fisico (meccanico).
Grazie all’esercizio interiore (e allo studio) ci prepariamo dunque a sperimentare in modo cosciente quanto viene ordinariamente sperimentato in modo incosciente. Come mi capita spesso di dire, non si tratta infatti di credere in qualcosa, bensì di prendere coscienza di qualcosa.
Certo è difficile, ma lo è soprattutto per il fatto che non possiamo servirci a tal fine di strumenti esteriori, bensì dobbiamo fare di noi stessi, con il massimo rigore (superiore a quello richiesto dalla scienza naturale), degli “strumenti” d’indagine.
Per scoprire che cosa si nasconde al di là dei confini del mondo da noi ordinariamente conosciuto, non possiamo comunque partire dall’immagine percettiva, che ci si dà viva e forte, in quanto frutto dell’inconscia attività del volere, ma dobbiamo partire dalla rappresentazione, che ci si dà invece spenta e debole, in quanto frutto della cosciente e riflessa (cerebrale) attività del pensare.
Ma che cosa scopriamo dopo essere passati, in un primo tempo, dall’esperienza ordinaria della rappresentazione a quella immaginativa del pensare, e, in un secondo, dall’esperienza immaginativa del pensare a quella ispirativa e intuitiva del concetto? Lo abbiamo detto, quando ci siamo occupati de La filosofia della libertà: che il concetto (che sta alle spalle della rappresentazione) e il percetto (che sta alle spalle dell’immagine percettiva) sono una sola cosa. E’ infatti una stessa entelechia (l’essenza unitaria dell’oggetto o del fenomeno) a darsi al pensare in veste di concetto (quale contenuto essenziale della rappresentazione), e al volere in veste di percetto (quale contenuto essenziale dell’immagine percettiva).

Dice Steiner: “Pensate come il nostro rapporto con la natura ci diventa vivo, se cominciamo davvero a tener conto di quanto è stato qui esposto. Allora ci diremo: quando usciamo fuori, in mezzo alla natura, e ci sentiamo abbagliati dalla luce e dai colori che ci splendono intorno, noi ci uniamo, in quanto li accogliamo in noi, con ciò che la natura proietta verso l’avvenire. Quando poi facciamo ritorno alla nostra camera, e riflettiamo sulla natura e ne indaghiamo le leggi, ci occupiamo invece di ciò che in essa continuamente muore” (p. 49).

Vedete quanto Steiner insiste su questo? Ma lo fa per la semplice ragione che se non si capisce questa dinamica non si capisce nulla.
Non so se conoscete quel ciclo di conferenze, intitolato: La Bhagavad-Gita e le Lettere di Paolo. In esso, Steiner fa osservare che la prima di queste due opere si presenta in forma sublime, in quanto si tratta del prodotto finale di una fase evolutiva che viene dal passato, mentre la seconda si presenta in forma povera, in quanto si tratta del prodotto iniziale di una fase evolutiva che va verso il futuro.
Che le cose stiano così, potrebbe dimostrarlo già il semplice fatto che usiamo regalare dei fiori, e non dei semi (ve lo immaginate un corteggiatore che regala alla sua bella una bustina di semi?). E perché lo facciamo? E’ ovvio: perché i fiori sono più belli dei semi. Eppure, i fiori sono stati un giorno semi, e i semi saranno un giorno fiori; tanto che potremmo dire: “I fiori sono semi morti, mentre i semi sono fiori vivi”.
Tutta la grandezza della scienza naturale risiede dunque nel fatto di essere una scienza di ciò ch’è morto (dei fiori). Ma al mondo, insieme alle cose morte, ci sono anche quelle vive (i semi). E abbiamo forse, di queste, una scienza altrettanto grande? No, non l’abbiamo; e non l’abbiamo perchè riusciamo naturalmente a oggettivare ciò ch’è morto, ma non a oggettivare spiritualmente ciò ch’è vivo.
Che cosa rimproverava appunto Goethe agli entomologi? Di studiare i cadaveri delle farfalle, e non le farfalle. Si è liberi, certo, di studiare i cadaveri delle farfalle, ma non si può pretendere di studiare le farfalle vive con lo stesso metodo con cui si studiano quelle morte.

Dice Steiner: “Se l’uomo non fosse in grado di salvare, attraverso tutta la sua vita terrena, qualcosa che proviene dalla sua vita prenatale e che resta costantemente in lui, se non potesse salvare qualcosa che, alla fine della sua vita prenatale, si è ridotto a semplice vita di pensiero, egli non perverrebbe mai alla libertà. Infatti sarebbe legato a ciò ch’è morto, e quando volesse suscitare alla libertà ciò che in lui stesso è affine alla natura morta, dovrebbe suscitare alla libertà qualcosa di morto” (p. 49).

La libertà è stata creata; ed è stata creata – come ormai sappiamo – grazie alla morte.
I minerali, le piante e gli animali in tanto non sono liberi in quanto obbediscono ciecamente alle proprie leggi. Rivolgendosi alla propria (trascendente) specie, è come infatti se dicessero: “Sia fatta la tua volontà!”.
Anche l’uomo, rivolgendosi alla propria (immanente) “specie” (al Padre, attraverso il Figlio inabitante l’Io), può dire: “Sia fatta la tua volontà!”; ma l’uomo, a differenza dei minerali, delle piante e degli animali, è in grado di fare la “sua” volontà, perfino in contrasto con quella divina.
Perché ciò divenisse possibile, si è dovuto però sacrificare il pensiero. Qualcosa – dice appunto Steiner – “si è ridotto a semplice vita di pensiero”. Se questo qualcosa non si fosse “ridotto” così, se in esso si fosse conservata la viva forza dello spirito, il pensiero avrebbe infatti la forza di un istinto, e non ci permetterebbe perciò di essere liberi.
Che cosa sono in realtà gli istinti animali? Sono pensieri viventi (pensanti gli animali); e che cosa sono invece i pensieri umani? Sono istinti morti (pensati dall’uomo).
E’ proprio con questi istinti morti, ovvero con queste forme prive di forza, che ci è dato però conoscere le forme prive di forza: cioè gli esseri del mondo minerale.
Che cos’è dunque la scienza ordinaria? E’ la conoscenza del mondo sviluppata dalla sola testa; e che cos’è invece la cosiddetta “scienza occulta”? E’ la conoscenza del mondo sviluppata dalla testa e dal restante organismo, e quindi da tutto l’uomo.
Ricordiamoci quanto dice Scaligero: la scienza naturale è il mezzo (dell’anima cosciente), non il fine. Il fine dell’uomo è infatti l’uomo, e quindi l’autocoscienza spirituale (l’”Uomo spirituale”).
Dice Steiner che se l’uomo “volesse suscitare alla libertà ciò che in lui stesso è affine alla natura morta, dovrebbe suscitare alla libertà qualcosa di morto”.
Anziché utilizzare la “semplice vita di pensiero” per cercare di rientrare nella sfera della vita dalla quale siamo usciti, passando così dalla libertà negativa alla libertà positiva, ci siamo in effetti accomodati nella sfera della morte, creando o “suscitando alla libertà” cose morte: riempiendo ossia il mondo dei prodotti della tecnica. Ma con questi tentiamo in realtà di stordirci per dimenticare che siamo delle “anime morte” (“Consumo, per dimenticare”).
Dovremmo infatti attraversare la sfera della morte (morire e ri-nascere), e non prendervi – come ci costringono a fare le forze arimaniche – fissa dimora.

Risposta a una domanda
L’unico essere che realmente muore è l’uomo. E realmente muore perché realmente nasce, in quanto è l’unico essere che viene sulla Terra con tutto se stesso. Sulla Terra, infatti, i minerali hanno il corpo fisico, ma non il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io; i vegetali, il corpo fisico e il corpo eterico, ma non il corpo astrale e l’Io; gli animali il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale, ma non l’Io.

Dice Steiner: “D’altro canto, se volesse servirsi di ciò che come essere volitivo lo congiunge con la natura, egli ne resterebbe stordito, perché in ciò che lo collega alla natura, quale essere volitivo, tutto giace ancora in germe. In tal caso l’uomo sarebbe sì un essere di natura, ma non un essere libero” (p. 49).

Come vedete, si può essere storditi (“ossessivamente”) dalla testa (per così dire, dalla “cultura”), e si può essere storditi (“istericamente”) dalla pancia (dalla natura).

Dice Steiner: “Al di là di tali due elementi – la facoltà di afferrare per mezzo dell’intelletto ciò ch’è morto, e di afferrare per mezzo della volontà il vivente, ciò che è in via di divenire – c’è nell’uomo qualcosa che lui solo, e nessun altro essere terreno, porta in sé dalla nascita fino alla morte: voglio dire il pensare puro, quel pensare che non si rivolge alla natura esteriore, ma solo a quel soprasensibile che vive nell’uomo stesso e fa di lui un essere autonomo. Al di là di ciò ch’è sotto la morte, e al di là di ciò ch’è sopra la vita. Perciò se si vuol parlare della libertà umana, bisogna considerare questo elemento autonomo nell’uomo, questo pensiero puro, liberato dai sensi, nel quale vive sempre anche la volontà” (p. 50).

Il pensiero “puro” è indipendente dall’esperienza dei sensi. Può esserlo, però, a due livelli diversi: al livello del pensare (quale verbo o attività), e al livello del concetto. Di norma, siamo però incoscienti tanto della purezza del pensare, poiché identifichiamo (in modo proiettivo) la sua attività con quella del cervello, quanto della purezza del concetto, poiché lo concepiamo solo in modo astratto (arrivando anzi a identificare il concetto “puro” con il concetto “astratto”).
Quello del concetto “puro” è in un certo senso un paradosso. Si tratta infatti di un “germe”, di cui però conosciamo soltanto l’”immagine”. E’ un “germe”, in quanto è appunto in virtù del concetto “puro” che possiamo usufruire (inconsciamente) del giudizio, ed è in virtù del giudizio che possiamo usufruire (altrettanto inconsciamente) dell’immagine, vuoi quale cosciente immagine percettiva, vuoi quale cosciente rappresentazione.
Abbiamo parlato, poco fa, di semi e di fiori. Ebbene, potremmo dire, volendo, che i concetti “puri” stanno alle immagini percettive e alle rappresentazioni così come i semi stanno ai fiori.
Nella pratica interiore – lo abbiamo detto – non si può però pervenire all’esperienza del concetto “puro” se prima non si perviene, mediante l’esercizio della concentrazione, a quella del pensare “puro”.
Di questo esercizio, abbiamo però parlato la volta scorsa, e non staremo quindi a ripeterci.

Risposta a una domanda
Ricordo di aver già precisato che il pensiero intellettuale, combinatorio o algoritmico (noti che àlgos significa “dolore”) si muove in modo discreto (allo stesso modo in cui si muovono, non foss’altro che per l’intervallo sinaptico, gli impulsi nervosi), mentre quello vivente (eterico) si muove in modo continuo.
Potremmo piuttosto domandarci (sulla falsariga di Nicodemo): “Ma come può un uomo risalire dal pensiero discreto a quello continuo”? E’ presto detto: grazie alla forza del Cristo. Egli ci ha infatti raggiunto nella sfera della morte e del pensiero discreto (del Golgotha), per darci appunto la possibilità, risorgendo con Lui, di tornare alla vita (alla “vita nova”).
E’ tardi. Continueremo la prossima settimana.

Roma, 20 gennaio 2000

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Di Lucio Russo
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