Antropologia (17)

A

Cominciamo la quinta conferenza.

Dice Steiner: “Avrete osservato che finora, parlando dell’uomo, ne ho considerato specialmente l’attività intellettuale, conoscitiva, da un lato, e l’attività volitiva dall’altro. Vi ho pure mostrato come la prima delle due stia in rapporto col sistema nervoso e l’altra con l’attività del sangue. Se riflettete su tutto ciò, vi chiederete: come stanno le cose riguardo alla terza attività dell’anima, cioè a quella del sentimento? (…) Dobbiamo però renderci conto chiaramente di un’altra cosa, a cui ho spesso accennato per diversi rapporti. Non si possono soltanto collocare pedantescamente l’una accanto all’altra queste facoltà dell’anima: pensare, sentire e volere, perché nel complesso dell’anima vivente c’è sempre un trapasso dall’una all’altra (…) Nell’atto volitivo troverete sempre nascosta, in qualche modo, l’attività del rappresentare (…) Una sottile attività volitiva pervade la formazione dei pensieri, li collega fra loro, per arrivare a giudizi e conclusioni. Perciò dobbiamo limitarci a dire: l’attività volitiva è “principalmente” attività volitiva, ma ha in sé la sottocorrente dell’attività pensante; e viceversa l’attività pensante è “principalmente” tale, ma ha in sé una sottocorrente volitiva” (pp. 76-77).

Abbiamo già parlato a suo tempo del fatto che muoviamo i primi passi nello studio dell’anima imparando a distinguere il pensare, il sentire e il volere, ma che poi, progredendo, dobbiamo portarci al di là di questa visione schematica delle sue facoltà.
Per far questo, dobbiamo però portarci al di là dell’intelletto, poiché è appunto l’intelletto a trovarsi a suo agio con gli schemi. E’ un fatto, non una critica. Infatti, come l’intelletto si trova a suo agio con gli schemi, così gli occhi, ad esempio, si trovano a loro agio con i colori, ma non con i suoni.
Lo sforzo di pensare dinamicamente la vita del volere nel pensare, o quella del pensare nel volere, costituisce quindi un esercizio.
“Una sottile attività volitiva – dice Steiner – pervade la formazione dei pensieri, li collega fra loro, per arrivare a giudizi e conclusioni”. A questo proposito, ricorderete che, una sera, ho sottolineato la necessità di non limitarsi ad affermare – come spesso si fa – che, per trascendere l’intelletto, occorre “immettere” il volere nel pensare (come se nel pensare ordinario non vi fosse alcun volere), bensì d’impegnarsi a distinguere la qualità del volere (nel pensare) che caratterizza l’attività intuitiva, quella ispirativa o quella immaginativa dalla qualità (morta) del volere che caratterizza l’ordinaria attività rappresentativa.
So che questo non è facile, perché ci si figura in genere la morte come una mera “assenza di vita”, e non come un’entità (un principio attivo), allo stesso modo in cui ci si figura in genere la libertà come una mera “assenza di costrizione”, e non come un soggetto o un Io.
Ci sarà però difficile comprendere la differenza tra il pensiero cosiddetto “riflesso” (rappresentativo) e il pensiero cosiddetto “vivente” (immaginativo), se non comprenderemo e sperimenteremo la differenza tra la “volontà di morte” (arimanica) che muove, dis-animandolo, il primo e la “volontà di vita” (michaelita) che muove, animandolo, il secondo.

Dice Steiner: “Questo interpenetrarsi delle attività dell’anima si riscontra anche impresso nel corpo, in cui l’attività animica in questione si manifesta. Guardiamo per esempio l’occhio umano: se lo osserviamo nella sua totalità, vediamo in esso proseguire i nervi; ma vediamo proseguire nell’occhio anche le vie del sangue. Per il fatto che vi proseguono i nervi, penetra nell’occhio l’attività del pensiero, della conoscenza; e per il fatto che vi proseguono le vie del sangue, vi penetra l’attività volitiva. Così anche nel corpo volontà e rappresentazione sono congiunte fino alla periferia delle attività sensorie; è così per tutti i sensi e per gli arti che servono alla volontà: la conoscenza passa attraverso i nervi, e la volontà attraverso i vasi sanguigni (…) Osserviamo la differenza, tanto importante, tra la struttura dell’occhio umano e quella dell’occhio animale. Nell’occhio dell’animale, l’attività sanguigna è molto maggiore che non in quello dell’uomo (…) Da ciò potete dedurre che l’animale manda nell’occhio molto maggiore attività sanguigna che non l’uomo, e lo stesso fa anche per gli altri sensi. Vale a dire che l’animale sviluppa nei suoi sensi molta più simpatia istintiva verso il mondo circostante che non l’uomo. L’uomo, in realtà, ha molta più antipatia per il mondo che non l’animale, ma nella vita ordinaria ciò non gli viene a coscienza (…) Ma se gli uomini non avessero per il mondo circostante un’antipatia maggiore di quella degli animali, non se ne staccherebbero tanto come se ne staccano effettivamente. L’animale ha molta più simpatia con l’ambiente, perciò è molto maggiormente legato con esso, è tanto più dipendente, che non l’uomo, dal clima, dalle stagioni e così via. E appunto perché ha tanta maggiore antipatia contro l’ambiente, l’uomo è un individuo” (pp. 77-78-79).

Dobbiamo dunque al fatto di avere “per il mondo circostante un’antipatia maggiore di quella degli animali” la possibilità di “oggettivarlo”, e quindi di conoscerlo (scientificamente).
Per poterlo correttamente “oggettivare”, è tuttavia necessario che in noi viga un sano (fisiologico) rapporto tra le forze (sanguigne) della sim-patia e quelle (nervose) dell’anti-patia.
Solo l’Io può farsi garante di un simile rapporto. Solo l’Io (quale terzo) è infatti in grado di creare e ricreare incessantemente un equilibrio tra queste due opposte forze, correggendo, di volta in volta, gli eccessi della sim-patia per mezzo dell’anti-patia, e viceversa.
Fatto sta che anche il conoscere, come il vedere, deve essere messo umanamente “a fuoco”. Non vediamo infatti bene le cose, sia quando ci sono troppo (simpaticamente) vicine, sia quando ci sono troppo (antipaticamente) lontane.
Sapete che Nietzsche ha definito l’uomo “una corda tesa tra la bestia e il super-uomo”. Noi potremmo dire invece, parafrasando: “L’uomo è una corda tesa tra la sim-patia e l’anti-patia” (così come, del resto, tra la percezione e il pensiero, l’esalazione e l’inalazione, la sistole e la diastole).
“L’uomo – asseriva Protagora – è la misura di tutte le cose”; ma in tanto lo è in quanto l’umano stesso è, per così dire, “misura”, e per ciò stesso “qualità” (la misura – afferma Hegel – è il “quanto qualitativo”).
Diversa da quella dell’uomo è appunto la “misura” dell’animale, così come diversa è quella dell’Angelo. L’ordine cosmico è infatti un ordine “gerarchico”, e, in questo, il posto (o il grado) dell’uomo non è quello dell’animale né quello dell’Angelo.
Tale posto l’uomo è però chiamato a conquistarselo.

Dice Steiner: “Nelle numerose azioni che non compiamo soltanto per ragionamento, ma per amore, per entusiasmo, per dedizione, la simpatia prevale così fortemente nel volere, da emergere anche sopra la soglia della nostra coscienza, sì che il nostro volere stesso ci appare permeato di simpatia, mentre di solito si limita a congiungerci obiettivamente col mondo circostante. Come la nostra antipatia per il mondo esterno, ci viene a coscienza nel conoscere solo eccezionalmente, non sempre (ad esempio, “quando sentiamo un odore che ci fa nausea, questa nausea non è se non un accrescimento di quanto si produce in ogni attività sensoria, rimanendo però sotto la soglia della coscienza” [p. 79] – nda), così la nostra simpatia per il mondo, sempre esistente in noi, può diventarci eccezionalmente cosciente, nell’entusiasmo, nella devozione, nell’amore” (p. 80).

Quanti hanno studiato Teosofia, ricorderanno che Steiner, descrivendo il viaggio che ciascun uomo intraprende nel mondo animico dopo la morte, parla di sette regioni che si caratterizzano proprio in funzione del rapporto vigente tra le forze della sim-patia e quelle dell’anti-patia.
Nella prima, quella della Luna, la “brama ardente” scaturisce da un prevalere dell’anti-patia sulla sim-patia; nella seconda, quella di Mercurio (o della “sensibilità fluida”), l’antipatia viene equilibrata dalla simpatia; nella terza, quella di Venere (o dei “desideri”), la sim-patia prevale sull’anti-patia. Nella quarta, invece, quella del Sole (o del “piacere e dispiacere”), è attiva unicamente la sim-patia. E’ solo però nella quinta, nella sesta e nella settima, quelle di Marte, di Giove e di Saturno, che la sim-patia, ancora chiusa, per così dire, in se stessa nella regione solare, viene ad assumere il carattere effusivo e irradiante – come dice Steiner – della “luce animica”, della “forza animica attiva” e della “vita animica”.
C’è dunque un moto della sim-patia che va, quale brama, dall’oggetto al soggetto (attraendolo), e ce n’è uno che va, quale amore, dal soggetto all’oggetto. Si può capire, così, il perché Scaligero affermi che la brama, spiritualizzata, si muta in dedizione.
Potrebbe forse stupire che, nella regione della “brama ardente”, l’anti-patia prevalga sulla sim-patia. Basta però pensare a quel punto in cui la carta prende fuoco allorché vi si fanno convergere, per mezzo di una lente, i raggi solari, per capire che è proprio l’ampiezza dell’area sulla quale si riversa l’anti-patia (l’ampiezza dell’area di quanto non c’interessa o non amiamo) a restringere quella sulla quale di conseguenza si concentra, ardendola, la sim-patia.

Dice Steiner: “Ora contempliamo un mistero meraviglioso della natura umana, un mistero che in realtà è sentito da ogni uomo alquanto sveglio, ma che l’educatore e l’insegnante dovrebbe portarsi pienamente a coscienza. Per quanto strano possa sembrare, il fanciullo agisce sempre mosso, più o meno, dalla pura simpatia; anche quando giuoca, salta e schiamazza, egli compie ogni sua azione per pura simpatia per la medesima. Quando la simpatia nasce nel mondo, è forte amore, forte volere; ma non può rimanere così, bensì deve venir compenetrata dal rappresentare, deve venire, in certo modo, continuamente “rischiarata” dal rappresentare. Ciò si fa su vasta scala quando facciamo penetrare nei nostri semplici istinti gli ideali, gli ideali morali. Ed ora capirete meglio che cosa significhi in questo campo l’antipatia. Se gli impulsi, di cui osserviamo la presenza nel bambino, ci restassero solamente simpatici per tutta la vita, come lo sono al bambino, ci svilupperemmo animalescamente sotto l’influsso dei nostri istinti. Questi istinti devono diventarci antipatici, e lo diventano infatti attraverso i nostri ideali morali, ai quali gli istinti sono antipatici, e che nella simpatia infantile degli istinti versano, per tutta la nostra vita ulteriore tra la nascita e la morte, l’antipatia. Ecco perché lo sviluppo morale è sempre qualcosa di ascetico. Basta che questo elemento ascetico sia preso nel senso giusto” (pp. 80-81).

Teniamo presente che non esiste niente di più spirituale della natura. I minerali, le piante e gli animali sono esseri molto più spirituali di noi. Ma in tanto lo sono, in quanto non si conoscono e non possono conoscersi. Come si fa infatti a conoscersi? E’ presto detto: dividendosi (in se stessi). Per sapere che si è un Io deve infatti esserci un Io che vede un Io. Perché ciò sia possibile, il circolo o l’anello della natura (l’inconscia continuità naturale) deve dunque spezzarsi, così che una sua estremità possa osservare e pensare, avendola di fronte a sé, l’altra.
Permettetemi di leggervi, al riguardo, questo bellissimo passo di Bertrando Spaventa (1817-1883): “Perché il No? il Non essere, la negazione? e dopo, e non ostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è, che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere (…) quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice: Essere, non dice E’, non dice punto” (B.Spaventa: Le prime categorie della logica di Hegel in Opere – Sansoni, Firenze 1972, vol. I, p. 399 – ndr).
Potremmo perciò dire, dal nostro punto di vista: “Se non ci fossero altro che il volere e la simpatia ci sarebbe il , ma non il No. In tanto c’è infatti il No, in quanto ci sono anche il rappresentare e l’anti-patia”.
Qual è allora il problema? Che al No della coscienza rappresentativa, che ha fatto seguito al dell’incoscienza naturale, avremmo già dovuto cominciare a far seguire un cosciente: ovvero, quel che si può pronunciare soltanto alla luce di quei gradi della conoscenza superiore nei quali il pensare e la coscienza si ri-uniscono alla vita, all’anima e allo spirito, e la vita, l’anima e lo spirito si riuniscono al pensare e alla coscienza.
Inutile aggiungere che l’”elemento ascetico”, “preso nel senso giusto”, non ha nulla a che vedere con quell’elemento repressivo chiamato da Freud “Super-io”. Non è questione infatti di reprimere e di mortificare, bensì di trasformare e di glorificare (lo spirito, l’anima e il corpo).
Dice appunto il “Vecchio”, della Favola di Goethe: “L’amore non domina, ma forma, e questo è più”.

Dice Steiner: “Veniamo ora al sentire, che sta in mezzo tra il conoscere e il volere (…) In mezzo, dunque, tra il pensare e il volere, sta il sentire, che in una direzione è affine al pensare e nell’altra al volere. Come non possiamo tener separate nettamente le attività del pensare e del volere nella totalità dell’anima, tanto meno possiamo tenerle separate nel sentire. Qui gli elementi volitivi e conoscitivi confluiscono energicamente, confondendosi” (p. 81).

Il sentire, nella direzione in cui è affine al pensare, diventa un po’ più anti-patico e freddo, mentre in quella in cui è più affine al volere diventa un po’ più sim-patico e caldo. Il primo lo si potrebbe abbastanza bene osservare nei temperamenti spiccatamente flemmatici; il secondo, in quelli spiccatamente sanguigni (entrambi – come sappiamo – gravitano infatti nella sfera mediana del sentire).
Va comunque ricordato che il sentire è una forza ordinariamente “narcisistica” (cioè una forza che non esce da noi stessi), e che, su di esso, finiscono col riversarsi tutte le abituali storture del pensare, del volere e dei loro reciproci rapporti.
Fatto si è che il sentire “oggettivo” della specie aiuta ogni animale (soprattutto se non domestico) a orientarsi nel mondo (a scegliersi l’habitat, il cibo, il partner, o ad avvertire il pericolo), mentre quello “soggettivo” dell’uomo, lo informa su se stesso, e non sul mondo: vale a dire, su ciò che gli piace o non gli piace, e non su ciò che è bello o brutto o su ciò che è buono o cattivo (mai si sarebbe arrivati a dire, altrimenti: “Non è bello quel ch’è bello, ma è bello quel che piace”).
E’ chiaro, quindi, che per poter restituire al sentire (a un nuovo e più alto livello) la sua originaria e perduta “oggettività” (“oggettualità”, direbbe Freud), possiamo soltanto cominciare col far leva sul pensare “oggettivo”: vale a dire, sul pensare scientifico. Dal momento, tuttavia, che il pensare scientifico-naturale è in grado di ri-educare o ri-abilitare il sentire soltanto nell’ambito dei nostri rapporti con la realtà inorganica, chi voglia ricondurlo all’”oggettività” anche nell’ambito dei suoi rapporti con le realtà della vita, dell’anima e dello spirito, deve allora conquistarsi un pensare scientifico-spirituale.
Il che vuol dire, in sostanza, che deve passare dal pensare del nervo al pensare del sangue. Normalmente, infatti, il pensare “oggettivo” è supportato dal nervo, mentre il sentire e il volere “soggettivi” sono supportati dal sangue.
Restituire gradualmente e pazientemente “oggettività” al sentire (e al volere), mediante il pensare scientifico-spirituale, vuol dire dunque rinnovare il sangue (il “succo molto peculiare”, di Goethe): vuol dire ossia sottrarlo, quale veicolo, alla nostra inferiore natura (all’Es) e restituirlo, purificato o redento, allo spirito (all’Io).
Ascoltate quanto scrive Scaligero, nel suo Manuale pratico della meditazione: ”Il sentire, come pura forza dell’anima, può sorgere là dove è tacitato il sentire normale, che è comunque il veicolo della natura animale dell’uomo. In conseguenza della meditazione, il sentire tende a sorgere come forza di ritmo dell’anima, già in tal senso indirettamente sollecitata da ogni saggio collegamento del pensiero con la volontà”.
Continueremo giovedì prossimo.

Roma, 2 marzo 2000

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Di Lucio Russo
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