Massime antroposofiche
183/184/185 – 1°

M

Eccoci arrivati all’ultima lettera, intitolata: Dalla natura alla subnatura (12 aprile 1925).
Prima di cominciare la lettura, permettetemi di fare un paio di considerazioni di carattere generale.
Vedete, negli stessi anni in cui nasce l’antroposofia, ossia “una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (massima 1), nascono, da un parte, la psicoanalisi, che conduce “lo spirituale che è nell’uomo” al sub-cosciente e, dall’altra, la fisica moderna, che conduce “lo spirituale che è nell’uomo” alla sub-materia (scrive Emilio Segrè: “Una serie drammatica di scoperte nell’ultima decade del secolo XIX, alcune del tutto inaspettate come la radioattività, aprirono le porte al mondo dell’atomo”) (1).
Ebbene, non è significativo che proprio nel momento in cui, grazie a Steiner, si apre una via che vorrebbe condurre dall’Io inferiore (dall’ego) all’Io superiore (al Sé spirituale) e dalla natura alla sopra-natura, se ne aprano altre due che conducono all’opposto dall’umano al sub-umano e dalla natura alla sub-natura?
Pensate, per quanto riguarda la fisica, alla “meccanica quantistica”. Scrive Gino Segrè: “Planck aveva scoperto di aver bisogno di assumere che gli oggetti riscaldati emettono e assorbono radiazione in pacchetti discreti di energia piuttosto che secondo un flusso continuo, come si era sempre pensato. Chiamò questi pacchetti quanti” (2).
Ma che cosa abbiamo visto la volta scorsa (lettera 5 aprile 1925)? Che la luce “è qualcosa che si sgretola”, che “la luce che si sgretola è l’elettricità”, e che “ciò che conosciamo come elettricità è la luce che distrugge se stessa in seno alla materia” (quanto vale per la luce vale anche per il pensare: anche questo, infatti, “distrugge se stesso in seno alla materia” [al sistema neuro-sensoriale], trasformandosi così, come abbiamo visto, da continuo in discreto).
I “pacchetti” o i “quanti” di luce di cui parla Planck (i “fotoni”) sono dunque il risultato non della luce che vive, ma della luce che muore, e che, morendo, al pari del nostro corpo fisico, si decompone o “disgrega”.
(Chi abbia presente, come afferma Steiner, che le età dell’uomo sono “organi di conoscenza”, per cui quello che è possibile conoscere, mettiamo, a 50 anni è impossibile conoscerlo, che so, a 30, troverà interessante sapere, secondo quanto scrive ancora Gino Segrè, che “la giovane età dei suoi protagonisti principali” è “una caratteristica sorprendente” della rivoluzione quantistica, tanto che, “nel biennio 1925-27”, mentre “la meccanica quantistica si sviluppava, il gruppo di Göttingen le aveva dato scherzosamente il nome di Knabenphysik (la fisica dei ragazzini)”: i leader, infatti, ”sembravano tutti degli Knaben, dei ragazzini uno più giovane dell’altro: Pauli, Heisemberg, Dirac” [3].
Pensate, ancora una volta, a un puzzle. Chi lo crea parte dall’uno (da una figura) e arriva al molteplice (ai pezzi in cui l’ha suddivisa); chi ci gioca parte al contrario dal molteplice (dai pezzi) e arriva all’uno (alla figura). Una cosa, dunque, è la figura di partenza, intonsa (“continua”), altra la figura di arrivo, assemblata (“discreta”).
Ebbene, che cosa accadrebbe se s’ignorasse il primo di questi due processi, quello che va dall’uno al molteplice? Accadrebbe proprio quello che accade quando si crede, come fa la meccanica quantistica, che i fotoni facciano la luce, e non che la luce, disgregandosi, faccia i fotoni, e che i “quanti” abbiano a che fare con la vita, e non con la morte.
Ancora due parole sulla “tecnica”, dal momento ch’è soprattutto di questa che tratta la lettera.
Scrive Max Horkheimer: “Mentre l’uomo è diventato abilissimo nei suoi calcoli finché è in gioco la scelta dei mezzi, la sua scelta dei fini, un tempo in rapporto con la fede in una verità oggettiva, è diventata priva di intelligenza” (4).
Un tempo si distingueva la scienza dalla tecnica, subordinando questa a quella, mentre oggi si parla di “tecnoscienza”. Ciò dimostra che lo spirito utilitaristico della tecnica ha preso ormai il sopravvento su quello conoscitivo della scienza (“I veri saggi – dice Goethe – domandano che valore abbia la scoperta in sé e in rapporto alle altre scoperte, senza curarsi dell’utilità, cioè dell’applicazione di essa alle cose note e alle necessità della vita”) (5).
Questa sarebbe una fortuna se si badasse a quanto è utile al corpo, all’anima e allo spirito, mentre è una disgrazia quando si pensa, materialisticamente, a ciò ch’è utile soltanto al corpo.
Cominciamo adesso a leggere.

Si suol dire che, superata l’èra filosofica, a metà del secolo diciannovesimo è sorta l’epoca delle scienze. E si dice anche che l’èra scientifica continua ancora oggi; in pari tempo molti affermano che si sia ritrovata la via verso dati intenti filosofici.
Tutto ciò corrisponde alle vie della conoscenza che i tempi moderni hanno battuto, ma non corrisponde alle vie della vita. Con le sue rappresentazioni l’uomo vive ancora nella natura, anche se egli trasporta il suo pensare meccanico nella concezione della natura. Ma con la sua vita volitiva egli vive nella meccanica del procedere tecnico, e su così vasta scala, che da un pezzo l’epoca scientifica ne ha ricevuto un colore del tutto nuovo
” (p. 222).

Teniamo presente che la rivoluzione scientifica (che va, grosso modo, dal 1473 – anno della nascita di Copernico – al 1642 – anno della morte di Galilei), è in primo luogo una rivoluzione del pensiero, mentre la rivoluzione industriale (che va, all’incirca, dal 1760 al 1830) è in primo luogo una rivoluzione della volontà.
Facciamo poi attenzione a questa affermazione: “Ma con la sua vita volitiva egli vive nella meccanica del procedere tecnico”.
Un conto, infatti, è la meccanica quale fatto teorico (del pensiero), altro la meccanica quale fatto pratico (della volontà).
Sentite quanto dice ancora Horckeimer: “L’ingegnere è forse il simbolo del nostro tempo. A costui non interessa capire le cose per amore di esse o per amore di una profonda visione del mondo, bensì solo per poterle inserire in uno schema, non importa quanto estraneo alla loro intima struttura. E questo vale tanto per gli esseri viventi quanto per le cose inanimate. Nella mente dell’ingegnere trova espressione lo spirito dell’industrialismo nella sua forma più funzionale. Sotto la sua guida, diretta sempre a uno scopo ben preciso, gli uomini sarebbero ridotti alla condizione di un agglomerato di strumenti senza uno scopo loro proprio”.
Non crediate, mi raccomando, che intenda con questo bocciare l’ingegneria, perché questa è anzi una delle poche cose che ancora funzionano, sempre che si occupi della sfera inorganica e non di quella organica (come fanno invece, ad esempio, l’ingegneria genetica e le biotecnologie).
Vi leggo, in proposito, dei passi di un articolo pubblicato dall’“Osservatorio”: “Nel corso dell’Ottocento, allorché la tecnica ha preso ad allentare il suo tradizionale e monogamico vincolo con la scienza e a instaurare una sorta di menage a trois con l’economia, si è avuta la “rivoluzione industriale”, ma si è avuto anche l’inizio di quel processo che sottrae il non-essere del pensiero alla calda volontà dell’uomo per farne il veicolo della fredda volontà di quella entità spirituale che “inabita” il mondo inorganico. “È stata la “macchina” – afferma Panfilo Gentile – a produrre la “rivoluzione industriale””. Ma in tanto la macchina ha potuto sostituire l’uomo nel lavoro, in quanto ha sfruttato l’energia della natura inanimata: dei “cadaveri” vegetali, nel caso del carbone; dei “cadaveri animali”, in quello del petrolio.
I capitalisti si sono dunque illusi, come capita a ogni “apprendista stregone”, di poter dominare con la propria volontà la forza della “sub-natura” agente attraverso la macchina. “Il capitale – scrive Emanuele Severino – tende a servirsi della tecnica per incrementare il profitto; la tecnica tende invece sempre più a servirsi del capitale per incrementare la quantità di potenza a disposizione dell’uomo”.
Ma tale potenza è davvero “a disposizione dell’uomo”? O non è piuttosto l’uomo, oggigiorno, a essere “a disposizione” di tale potenza? Lo stesso Severino riconosce che “la tecnica sta portandosi al centro e alla guida della nostra civiltà perché le grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale vanno ritirandosi ai margini”. Non si tratta, in ogni caso, di essere “a favore” o “a sfavore” della tecnica (o della modernità), bensì di impegnarsi a restituire al pensiero quella vita e quella forza che la “tradizione occidentale” ha ormai perso. Da questo punto di vista, quella della “tecnocrazia” è una vera e propria sfida al pensiero (la sfida di una natura inanimata e ricca di “energia” a un pensiero inanimato e povero di “energia”). Sul piano storico e culturale la tecnocrazia, per il suo carattere estensivo e intensivo, rappresenta un fenomeno del tutto nuovo, e proprio perché tale non si presta a essere compreso e dominato da alcuna forza proveniente dal passato. Se le “grandi forze di pensiero e di vita della tradizione occidentale” – come dice Severino – vanno “ritirandosi ai margini” è perché sono da tempo già morte. Ogni speranza, dunque, non può essere riposta che in un pensiero del tutto nuovo, in un pensiero che si dimostri capace di attingere alla “sovra-natura” la forza che gli necessita per comprendere e dominare quella della “sub-natura”, e porre così davvero la potenza della tecnica “a disposizione dell’uomo”” (6).

Se si vuol comprendere la vita umana, occorre anzitutto considerarla da due lati. Dalle precedenti vite terrene l’uomo porta seco la facoltà di farsi delle rappresentazioni del cosmico che agisce dalla periferia della terra e di quello che agisce nella sfera terrestre. Percepisce con i sensi il cosmico attivo sulla terra, e per mezzo della sua organizzazione del pensiero pensa il cosmico che dalla periferia della terra agisce su di essa.
Mediante il suo corpo fisico l’uomo vive così nel percepire; mediante il suo corpo eterico, nel pensare.
Ciò che avviene nel suo corpo astrale e nel suo io agisce nelle regioni più recondite dell’anima. È attivo per esempio nel destino. Ma all’inizio non va ricercato nelle vicende complicate del destino, ma nei processi semplici ed elementari della vita.
L’uomo si collega con certe forze terrestri, orientando il proprio organismo entro di esse. Egli impara a stare eretto ed a camminare; con le braccia e con le mani impara a collocarsi nell’equilibrio delle forze terrestri.
Queste forze non agiscono però dal cosmo; sono meramente terrestri.
In realtà nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione. Ma poiché non ravvisa da dove l’esperienza gli provenga, egli costruisce delle astrazioni da idee attinenti a realtà
” (pp. 222-223).

Quando avevo circa trent’anni, e avevo cominciato da poco a dipingere, mi capitò di fare una singolare esperienza. Stavo sfogliando un libro sull’astrattismo, quando mi caddero gli occhi su un quadro del pittore francese Robert Delaunay (1885-1941), praticamente uguale a uno di quelli che avevo dipinto io. Intendiamoci, il suo era un’opera d’arte, mentre il mio era solo una “crosta”. L’immagine era comunque la stessa. La cosa tanto mi colpì e tanto mi dette da pensare che finii col non dipingere più (con grande sollievo, peraltro, di tutti). Mi dicevo: “Se avessi ritratto un qualche elemento della realtà, che so, un cesto di frutta o un paesaggio, potrei capirlo, ma com’è possibile che un’immagine astratta risulti praticamente uguale, nella forma e nei colori, a quella realizzata da un altro?”. Presi a indagare, finché non m’imbattei in un saggio, intitolato: Il simbolismo nelle arti figurative, nel quale l’autrice, la psicoanalista junghiana Aniela Jaffé, sosteneva che i dipinti astratti (come quelli, ad esempio, di Jackson Pollock) “si dimostrano immagini più o meno esatte della natura stessa, e dispiegano una incredibile rassomiglianza con la struttura molecolare degli elementi naturali, organici e inorganici. E’ un fatto che suscita perplessità. L’astrazione pura diviene immagine della natura concreta” (7).
“Ciò significa – conclusi allora – che anche quando siamo convinti di esserci abbandonati, in un modo o nell’altro, alla fantasia, rimaniamo sempre nella realtà, e non ne usciamo”.
Dice infatti Steiner: “In realtà nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione. Ma poiché non ravvisa da dove l’esperienza gli provenga, egli costruisce delle astrazioni da idee attinenti a realtà”.
Non usciamo dunque dalla realtà quando ci lasciamo andare alla fantasia o al sogno, ma non ne usciamo neanche quando (in tutt’altro modo e a tutt’altro livello) tracciamo, ad esempio, i tre assi del cosiddetto “sistema di riferimento cartesiano” (8), giacché questi non sono che l’astratta espressione di ciò che sperimentiamo, in modo vivo, ma inconscio, quando orientiamo, come dice Steiner, il corpo fisico entro le forze terresti, quando impariamo a stare eretti, a camminare e a collocarci, con le braccia e con le mani, nell’equilibrio di tali forze.
Le nozioni di “alto e basso”, di “destra e sinistra”, di “davanti e dietro”, le ricaviamo da questa esperienza. Quando mangiamo, per dirne solo una, le sensazioni di sapore diminuiscono man mano che il cibo va dal davanti al dietro.
Si tratta di esperienze reali alle quali diamo, astraendo, una veste che permetta all’intelletto di apprenderle.

L’uomo parla di leggi meccaniche. Crede di averle estratte dai fenomeni naturali. Non è però così; tutto quello che l’uomo sperimenta nella sua anima in fatto di leggi puramente meccaniche è vissuto invece interiormente nel rapporto di orientamento che egli ha col mondo terrestre (nel suo stare eretto, nel camminare, e così via) ” (p. 223).

“L’uomo – dice Goethe – non comprende mai quanto sia antropomorfico” (9). Com’è vero, infatti, che “nulla di quanto l’uomo sperimenta è astrazione” così è vero che tutto quello che l’uomo sperimenta è “homo”.
Il problema, pertanto, non è se l’uomo debba o non debba essere antropomorfico, ma con quale parte, diciamo, dell’“homo-uomo” (di sé) va incontro all’“homo-mondo” (alla natura).
Pensare ad esempio il mondo come un grande meccanismo (L’universo meccanico: questo è il titolo di un recente libro dello scrittore americano Edward Dolnick) (10), vuol dire pensarlo con lo stesso tipo di pensiero che edifica e governa il nostro scheletro: ossia con un pensiero che in tanto comprende la morte in quanto è morto. La morte, infatti, non sta solo fuori di noi, ma anche dentro di noi: nello scheletro siamo appunto già morti.
Quanto vale per lo scheletro o per le ossa vale anche per i nervi e, in specie, per la cosiddetta “neocorteccia”.
Ho già fatto, una sera, questo esempio. Se inforcassimo degli occhiali con delle lenti rosse, vedremmo rosso quanto in effetti è rosso, ma vedremmo rosso anche quanto non lo è.
Allo stesso modo, il pensiero ordinario vede morto quanto in effetti è morto (la realtà inorganica), ma vede morto anche quanto non lo è (le realtà della vita, dell’anima e dello spirito).
E’ questo quell’“uomo a una dimensione” di cui parlava (a sproposito) Herbert Marcuse (11): ovvero, un uomo a un solo grado di pensiero e di coscienza. Dice lo Spirito della Terra a Faust: “Tu somigli allo spirito che comprendi, non a me!”.
Non dimentichiamo che veicolo dell’Io è il sangue che circola (grazie alle entità della seconda Gerarchia), e non il nervo ch’è fermo. Che cosa farebbe quindi un Io che, essendo davvero un Io, “circolasse”? E’ presto detto: affronterebbe la realtà morta col pensiero rappresentativo, la realtà viva col pensiero immaginativo, la realtà animata col pensiero ispirato e la realtà spirituale col pensiero intuitivo.
E che cosa fa invece l’ego? S’identifica con il primo di questi livelli di pensiero e dice: “Cogito, ergo sum” (anziché: “Sum, ergo cogito”).
In questo modo, però, non è più il pensiero a dipendere dall’Io, ma è l’Io a dipendere dal pensiero.

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Di Lucio Russo
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