Giovanni Gentile e la filosofia della libertà

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Nel settembre del 1919, Croce invita Gentile a recensire, per La Critica (il celebre bimestrale da lui diretto), La filosofia della libertà di Rudolf Steiner (nella prima edizione del 1894, benché, nel 1918, fosse uscita, riveduta e ampliata, la seconda). Il primo ottobre, Gentile conferma di aver ricevuto il libro e s’impegna a inviarne al più presto la recensione; questa verrà infatti pubblicata nel fascicolo del 20 novembre dello stesso anno.
Dobbiamo queste notizie a Giancarlo Roggero (uno dei più seri studiosi italiani dell’opera di Steiner) che, su Graal (Rivista di scienza dello Spirito, giugno 2000, n°69-70), ripubblica e commenta tale recensione.
Quale migliore occasione, dunque, per cercare di fare chiarezza sul rapporto della filosofia di Gentile con la scienza dello spirito di Steiner? La circostanza che in entrambe vengano prese le mosse dal “pensare” (e non magari dall’Io, come in Fichte, o dall’Idea, come in Hegel) può indurre infatti qualcuno ad accomunarle, e perciò a sottacere, o a perdere di vista, quanto le distingue, se non addirittura le oppone. E’ di certo importante partire dal “pensare”, ma ancor più importante è vedere come si parte e dove s’intende arrivare. In Steiner, la lucida esperienza della viva realtà del pensare, pur essendo già una conquista (per chi è aduso, come tutti noi, a stare sul piano dei “pensati” o delle “rappresentazioni”), è infatti il primo passo di un cammino (teorico-pratico) inteso a raggiungere una ancor più lucida esperienza e della realtà (animica) della coscienza pensante e di quella (spirituale) del soggetto pensante (dell’Io). In Gentile, il “presentimento” o il “presagio” (carico di phatos) della viva realtà del pensare è invece il primo passo di un cammino (teorico) che va a sfociare nella mera elaborazione (“organica e sistematica”) di una “teoria generale dello spirito”: di una di quelle “teorie generali”, vale a dire, che sono la gioia dell'”anima razionale e affettiva”. E’ proprio quest’ultima, del resto, a essere convinta – come sentiremo dire in seguito da Gentile – che la filosofia “non può essere filosofia senza essere sistema”.
“La forza della filosofia idealistica – egli afferma (in un passo di una conferenza del 1935, riferito da Roggero) – non consiste nella sua dialettica o nella tecnica delle argomentazioni ond’essa critica le dottrine opposte e si accampa sul terreno della verità con la pretesa conseguente di dettar legge, teoricamente e praticamente. Non è una logica della vita che voglia imporsi alla vita. Anzi essa non ammette più nessuna logica di tal sorta, poiché ha abbattuto ogni barriera tra la filosofia e la vita, tra la filosofia e il semplice pensiero, tra il pensiero e l’essere, e piantato l’essere – cioè il Tutto, la Realtà; Dio stesso – nel cuore dell’uomo; e inculca perciò in questo la fede nella sua missione creatrice”.
Orbene, Roggero, a commento di questo passo, prima afferma che “tale fede accomuna la filosofia di Gentile a quella dello Steiner”, e poi sostiene che Massimo Scaligero, scrivendo (nel 1951) per la rivista Studi gentiliani, una Introduzione al pensiero vivente, avrebbe inteso congiungere “due correnti spirituali non estranee, nel loro motivo ispiratore, l’una all’altra”.
Ammiriamo e stimiamo anche noi la figura e l’opera di Gentile, ma siamo convinti, e proveremo a dimostrarlo, che il “motivo ispiratore” della sua filosofia sia estraneo a quello della scienza dello spirito di Steiner tanto quanto il “motivo ispiratore” luciferico è estraneo a quello michaelita o cristico.
Dicendo questo – si badi bene – desideriamo solo mettere in chiaro le cose, e non di certo “scomunicare” o “mettere all’indice” l’insegnamento di Gentile. Del resto, com’è lecito attendersi che la scienza della natura ci metta in grado di distinguere tra gli esseri naturali, così è lecito attendersi che la scienza dello spirito ci metta in grado di discernere tra gli esseri spirituali.
A tal fine, esaminiamo, prima della recensione, quanto detto da Gentile nel brano testé riportato.
La filosofia idealistica – dice – “non è una logica della vita che voglia imporsi alla vita. Anzi essa non ammette più nessuna logica di tal sorta…”. Ma proprio questo è l’errore. Una volta scoperto, che la logica dell’intelletto (o del “pensato”) è una logica della morte (che vuole “imporsi alla vita”), si tratta infatti, non di “non ammettere più nessuna logica di tal sorta”, bensì di riservare questa logica all’indagine della realtà inorganica, affiancandole e sovraordinandole, al contempo, altre logiche: quella vivente (o “immaginativa”), anzitutto, così com’è stata sviluppata ad esempio da Goethe (definito, non a caso, da Steiner, “il Copernico e il Keplero del mondo organico” – Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.70); poi quella qualitativa (o “ispirativa”); e infine quella stessa del Logos (o “intuitiva”) che, in verità, tutte le informa e comprende.
Abbiamo detto che Gentile, della viva realtà del “pensare”, ha avuto un “presentimento” o un “presagio”, ma non una lucida esperienza. Avremmo potuto anche dire, però, che ne ha avuto una vaga “intuizione”. Osserva infatti Steiner: “L’uomo ha veramente, come uomo terrestre, alcunché di ciò che vi ha di più basso, e d’altra parte ha un’immagine riflessa di quanto v’ha di più alto, che è soltanto raggiungibile nell’intuizione. Gli mancano completamente, come uomo terrestre, appunto i campi intermedi. Egli deve conquistare immaginazione e ispirazione” (Conoscenza iniziatica – I.T.E., Milano 1938, p.67). Ove quindi s’ignorino (o si “saltino”) tali “campi intermedi”, non si conquistano superiori livelli di coscienza, bensì si scivola verso forme d’irrazionalismo mistico o vitalistico (in una lettera del 1915, Croce, riferendosi alla “morbosissima condizione d’animo della più parte dei giovani” di allora, così scrive infatti a Gentile: “Anche del tuo idealismo attuale si valgono ora per fare il comodaccio loro (…) Sapevo che della tua formula si sarebbero subito serviti per non pensare più” – J.Jacobelli: Croce-Gentile: dal sodalizio al dramma – Rizzoli, Milano 1989, p.111).
Si consideri, altresì, che Gentile parla dell’atto del pensare come di un atto “puro”, ma non parla mai, allo stesso modo, dell’atto del percepire. Eppure, tanto il primo che il secondo non sono, all’origine, che atti dell’Io. In Goethe – osserva per l’appunto Steiner – uno “spirito profondissimamente filosofico” si è unito “ad un’immersione piena d’amore nell’oggetto dato dalla ricerca sperimentale-sensibile; lungi da ogni mania sistematica unilaterale, che s’illude di riunire tutti gli esseri in uno schema generale…” (Le opere scientifiche di Goethe, p.36).
Ebbene, non è stata proprio questa “mania sistematica unilaterale” a impedire alla “filosofia idealistica” di fecondare, rinnovare e spiritualizzare la scienza? E a ricacciarla così nelle grinfie di Arimane?
Ma veniamo alla recensione che così comincia:
Che sia proprio una filosofia della libertà non direi. E’ evidentemente una di quelle opere giovanili in cui lampeggia qua e là il vero, ma non si riesce a fermarne il concetto in forma organica e sistematica. S’intuisce felicemente un aspetto evidente della realtà, ma non si ha la forza di trarre il tutto alla luce; e insieme con la verità conquistata di colpo si conservano, inavvertitamente, tutti i vecchi concetti ricevuti, non criticati, non guardati nel loro intrinseco significato. Non si perviene perciò a una filosofia, la quale non può essere filosofia senza essere sistema; ma se ne abbozzano taluni concetti fondamentali“.
Sostiene dunque Gentile che Steiner, del “vero”, non è riuscito “a fermarne il concetto in forma organica e sistematica”. Il “vero” de La filosofia della libertà non risiede però nel “concetto”, bensì nel “pensare”: ovvero, in una realtà fluente e dinamica (“liquida”) che esige, in quanto tale, di essere, non “fermata” concettualmente (“solidificata” o “rappresentata”), bensì sperimentata nel suo stesso e intimo movimento (fino al punto di avvertirla – come dice Steiner – “un veicolo di forza del proprio essere umano – Conoscenza iniziatica, p.34).
Fatto sta che Gentile parla del “pensare” come di un “atto”, ma non si avvede che tale atto non lo “sperimenta”, ma se lo “rappresenta” (“Un conto è parlar di morte – recita l’adagio -, altro è morire”). Osserva appunto Catalisano: “L’attualista si imbatte suo malgrado in un concetto, che, anche se puro, è sempre un concetto: il “conceptum” del “concipere”” (cit. in F.S.Chesi: Gentile e Heidegger – E.G.E.A., Milano 1992, p.96).
Lo Steiner – prosegue Gentile – “si professa monista. E il suo monismo non ha nulla da vedere con quello di Haeckel, quantunque anch’egli parli di una natura panteisticamente concepita in continuo divenire. Ma la sua natura non è materialisticamente concepita. Anzi lo St., come un naturalista del nostro Rinascimento, sa che la natura, nella sua universalità come tutto, non è materia, cosa particolare, anzi quella realtà, per cui tutte le singole cose particolari sono pensabili, e cioè il pensiero. Ma il suo monismo non è né anche idealismo; almeno se per idealismo s’intende una concezione del mondo dal punto di vista soggettivo, perché soggetto ed oggetto sono per lo St. termini derivati, che ne presuppongono uno primitivo e veramente originario; ed è appunto il pensiero, che distingue infatti questi due termini foggiandoli e configurandoli nella loro irriducibile antitesi. E né anche il suo monismo è panlogico; perché egli vuole bensì che ogni particolare si ponga nel pensiero dal pensiero stesso, ma non ammette che il particolare derivi dall’universale; e se il pensiero è universalità, gli pare che questa universalità resterebbe una mera astrattezza senza l’elemento singolare e di fatto che si realizza nella natura quale si dispiega nello spazio e nel tempo, nelle cose circostanti all’uomo e nell’uomo “organismo corporeo e spirituale” o individuo, che percepisce se stesso come percepisce le cose. E ritiene perciò che la conoscenza del mondo non sia universale pensiero, né percezione particolare, ma percezione pensata, o pensiero realizzato (o come il nostro Vico direbbe, accertato) nella percezione: unità individuale (sintesi a priori), fuori della quale non c’è conoscenza concreta. Né questo monismo può dirsi propriamente spiritualistico: perché è fermo bensì lo St. nel concetto che la percezione non si possa trascendere per raggiungere o per persuadersi di non poter raggiungere un presunto oggetto esteriore (e la critica che fa in proposito dell’idealismo critico, mostrandone la reale coincidenza col realismo ingenuo, a cui esso crede di opporsi, è delle parti più belle del libro); ma infine il mondo è per lui un mondo che non si penserebbe se non si percepisse, e che non si può pensare se non come si percepisce; e non si percepisce se non come spirito (autocoscienza) e cose (oggetti di conoscenza), soggetti e oggetti, l’uno e l’altro particolari. E le cose non si possono assumere se non per quello che sono in quanto percezione: il cui contenuto, dice lo St., “è dato direttamente, e si esaurisce nel dato“.
Gentile ha dunque realizzato quel che il “monismo” di Steiner non è (materialismo, idealismo, panlogismo o spiritualismo), ma non quel che è. Non è facile, d’altro canto, realizzarlo, poiché tale “monismo” non si presta, per sua stessa natura, a rientrare in uno di quegli “ismi” (o “concezioni del mondo”) dei quali lo stesso Steiner ha in altra sede mostrato l’intrinseca relatività (cfr. Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985).
“Egli – osserva Gentile – vuole bensì che ogni particolare si ponga nel pensiero dal pensiero stesso, ma non ammette che il particolare derivi dall’universale; se il pensiero è universalità, gli pare che questa universalità resterebbe una mera astrattezza senza l’elemento singolare e di fatto che si realizza nella natura quale si dispiega nello spazio e nel tempo”: vale a dire, nella percezione sensibile.
Ebbene, non solo Steiner “ammette” che “nell’oggetto percepibile” si debba vedere “una forma particolare del concetto” (Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, p.61), ma, nel testo stesso esaminato da Gentile, così scrive: “Profondamente radicata nella coscienza dell’uomo ingenuo è l’idea che il pensare sia astratto, senza alcun contenuto concreto (…) Chi giudica così non ha mai compreso chiaramente che cosa sia la percezione senza il concetto (…) I singoli fatti acquistano la loro importanza per sé e per le altre parti del mondo, solo quando il pensare tira le sue fila da essere a essere. Questa attività del pensare è un’attività piena di contenuto (…) Questo contenuto, il pensare lo porta incontro alla percezione, attingendolo al mondo dei concetti e delle idee” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, pp.78-79).
Ma c’è di più. Per intendere quel che è il “monismo” di Steiner, occorrerebbe anzitutto distinguere la realtà del processo conoscitivo (cui è dedicata la prima parte de La filosofia della libertà) da quella del processo creativo (cui è dedicata la seconda): ovvero, distinguere tra i due opposti momenti di quel “moto pendolare vivente” cui fa esplicito riferimento Steiner nella prima aggiunta al decimo capitolo della seconda edizione (La filosofia della libertà, pp.152-153). Non solo, ma si dovrebbe anche distinguere la realtà (cosmica) di questi processi dalla coscienza che il soggetto (umano) ne ha.
Col processo conoscitivo si risale infatti (“inalando”) dall’individuale (dal percetto) all’universale (al concetto); con quello creativo si discende invece (“esalando”) dall’universale (dal concetto) all’individuale (al percetto); in entrambi i casi, però, il dato universale (il concetto), al quale conoscendo si arriva e dal quale creando si parte, non viene sperimentato, dall’intelletto, altrettanto reale quanto il dato individuale, dal quale conoscendo si parte e creando si arriva. In specie nel processo conoscitivo risulta infatti evidente che l’intelletto pensa quanto percepisce (sensibilmente), ma non percepisce (sovrasensibilmente) quanto pensa. Il fatto che il concetto resti “una mera astrattezza senza l’elemento singolare” del percetto, vale quindi per la moderna coscienza umana (intellettuale, rappresentativa e nominalistica), ma non per il mondo: vale, ossia, per la “coscienza del concetto” (per quel che il concetto è per noi), ma non per il “concetto” (per quel che il concetto è in sé). Da qui la necessità, per l’uomo, di educare e sviluppare – come indicato da Steiner – ulteriori e superiori livelli di coscienza (cfr. I gradi della conoscenza superiore in Sulla via dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1977).
Si tenga presente, al riguardo, che Gentile – come abbiamo ricordato all’inizio – si è inspiegabilmente occupato della prima edizione del testo, nonostante fosse già disponibile la seconda. Steiner infatti, in una aggiunta al settimo capitolo dell’edizione del 1918 (e in rapporto a queste nostre ultime considerazioni) così precisa: “L’idea di percezione, quale è svolta in questo libro, non va confusa con quella di percezione sensoria esteriore (…) Qui si considera percezione tutto ciò che viene incontro all’uomo, sensibilmente e spiritualmente” (La filosofia della libertà, p.110).
Comunque sia, Gentile, dopo aver riassunto, in maniera alquanto frettolosa, alcune delle considerazioni svolte da Steiner nella seconda parte del libro, così riprende:
Da questo punto di vista immanentistico è ovvio che il concetto della libertà è inespugnabile: il motivo non è tale per se stesso, ma in quanto apprezzato e sentito dall’individuo. Un’idea non diventa azione se non è voluta; e la volontà è l’ultimo determinante dell’azione umana. Non già che per lo St. lo spirito sia sempre libero. “Il monismo sa che la natura non congeda l’uomo dalle sue braccia bello e pronto come spirito libero, ma che essa lo conduce fino a un determinato grado, dal quale egli continua a evolversi più oltre sempre come essere non libero, finché non raggiunge il punto in cui egli trova se stesso” (p.143), costituendosi in individualità effettivamente autonoma ed emancipata dalle caratteristiche della specie e da tutti i modi di pensare e di volere generici. Perciò, “secondo il concetto monistico l’uomo, nelle sue azioni, è in parte libero e in parte non libero. Nel mondo delle percezioni non è libero: in se stesso realizza lo spirito libero”. E questo processo di realizzazione di se stesso, questo formarsi della libera individualità, che si affranca perfino dai legami del dovere come limite imposto al suo essere proprio, questo è un cammino che l’uomo percorre naturalmente. Non c’è un fine universale: e la meta comune, a cui pare che gli individui tendano, non è altro che “il risultato delle volizioni dei singoli individui”. Lo St. giunge a dire che “ognuno di noi è chiamato allo spirito libero, come ogni germe di rosa è chiamato a divenire rosa” (pp.142-3). E lo sviluppo della libertà gli si rappresenta come un semplice processo naturale. – Dove è uno dei segni del suo pensare fondamentalmente naturalistico, al quale sfugge che non è possibile libertà senza libertà nel suo stesso sviluppo; ossia non è possibile che l’uomo diventi libero, se il suo stesso divenire non è libero, e libero egli stesso, l’uomo, fin dal principio: e che dire pertanto lo spirito libero in parte, e in parte non libero, è dire cosa impensabile ed assurda; perché non c’è libertà conciliabile col suo contrario (lo spirito è libero in quanto infinito) e rinchiudibile dentro limiti determinati“.
Tale è qui il fraintendimento delle idee di Steiner che, il 27 dicembre dello stesso anno (come c’informa sempre Roggero), Ugo Tommasini (traduttore del testo) si sentì in dovere di inviare a La Critica una lettera, scrivendo, tra l’altro, quanto segue:
“Lo S. dice, con parole citate nella recensione stessa, che “l’uomo, nelle sue azioni, è in parte libero e in parte non libero”; ma non credo esatto che tali parole significhino la “cosa impensabile e assurda” che lo spirito sia non sempre libero, o libero in parte e in parte non libero. Infatti, secondo lo S., l’uomo non è libero in quanto dipende dal mondo delle percezioni, è libero in quanto attinge allo spirito. E se lo S. ritiene che ognuno di noi sia chiamato allo spirito libero, come ogni germe di rosa è chiamato a divenire rosa, ciò non mi sembra implicare che la libertà sia il risultato di un processo che ha luogo senza l’intervento attivo dell’uomo: anzi è punto fondamentale della concezione steineriana, ch’essa libertà sia il risultato dell’aspro lavoro cosciente che l’uomo compie sopra se stesso. Multi sunt vocati sed pauci electi”.
La pubblicazione di questa lettera fu accompagnata da una postilla nella quale Gentile, con tono piuttosto sbrigativo e – diciamolo pure – “saccente” (e non quindi “stringente” come disse Croce), afferma che le dichiarazioni del “signor Tommasini” non farebbero che convalidare il suo giudizio. “Dire che “l’uomo non è libero – scrive infatti – in quanto dipende dal mondo delle percezioni, ed è libero in quanto attinge allo spirito” è ribadire quella cosa impensabile ed assurda contro la quale io osservavo non essere la libertà conciliabile col suo contrario e rinchiudibile entro certi limiti”.
Sia nella recensione che in questa risposta, Gentile giudica dunque “impensabile” e “assurdo” conciliare la libertà col suo contrario. Ma qual è il contrario della libertà? E’ ovvio: la necessità. E che cos’è la necessità? Null’altro che il passato della libertà. Se la libertà è il creare, la necessità è dunque il creato. E’ quindi in grazia del presente della libertà (l’uomo intellettuale) che possiamo conoscere il suo passato (l’uomo naturale) e muovere, creando, verso il suo futuro (l’uomo spirituale). E’ perciò vero che l’uomo non potrebbe divenire libero se (nella sua essenza) non lo fosse, ma non meno è vero che non potrebbe essere libero (nella sua esistenza) se non lo divenisse. Ma come potrebbe divenirlo, se non appunto superando, in nome della libertà spirituale, la necessità naturale?
In ogni caso, eccoci di nuovo alle prese col problema del conoscere e del creare. Gentile sembra oltremodo preoccupato del fatto che un qualsiasi riferimento del primo alla realtà data, alla natura o al creato, possa infirmare o mortificare l’attività del secondo.
In un suo saggio su Bertrando Spaventa, arriva addirittura ad affermare: “Il reale è una creazione del pensiero” (B.Spaventa: Opere – Sansoni, Firenze 1972, vol.I°, p.138). “Noi – spiega infatti – nell’esperienza ci troviamo bensì alla presenza dell’immediato, del fatto, del dato: ma ci troviamo alla sua presenza soltanto in virtù dell’esperienza. Per guisa che, soppressa l’esperienza, viene pure soppresso il dato. E lo stesso dato è dunque un prodotto, e dato allo spirito dallo spirito stesso” (Sistema di logica come teoria del conoscere – Le Lettere, Firenze 1987, vol.2°, p.49).
Qui l’equivoco è palese. E’ vero, infatti, che noi ci troviamo alla presenza del dato “soltanto in virtù dell’esperienza”, ma non meno è vero che noi possiamo fare esperienza del dato soltanto in virtù della sua presenza.
Di fatto, c’è un solo modo di venir fuori da questa difficoltà: quello di ravvisare nel dato conosciuto un dato, non “creato”, ma “ri-creato”: ovvero, trasformato, trasfigurato o transustanziato.
Occorre tuttavia rilevare che questa “idiosincrasia” di Gentile per quanto è “dato” (e quindi necessario e naturale), non solo è “patognomica” del sentire luciferico (tanto quanto l'”idiosincrasia” per quanto è libero e spirituale lo è del sentire arimanico), ma – cosa ancora più importante – tradisce una sostanziale debolezza del suo concetto di libertà. Quale forza può infatti avere una libertà che non sappia riconoscersi nella necessità, e per ciò stesso superarla?
Fatto sta che l’uomo crea nel sensibile quanto conosce nel sovrasensibile e ri-crea nel sovrasensibile quanto conosce nel sensibile. Questa ri-creazione è però una resurrezione e redenzione: una resurrezione e redenzione non soltanto della natura (del non-ego), ma anche dell’uomo stesso (dell’ego).
Dietro l’accusa di “naturalismo” (seppure “rinascimentale”), rivolta da Gentile a Steiner, vi è dunque la fragilità di un pensiero che se è orgoglioso, da un lato, della propria “pura attualità”, è però incapace, dall’altro, di aderire amorevolmente alla realtà empirica per comprenderla e trasformarla. “Se procedere vuoi nell’infinito – raccomanda infatti Goethe – muoviti in tutti i sensi nel finito” (Opere – Sansoni, Firenze 1961, vol.5°, p.19).
Così comunque si conclude la recensione:
E così, in verità, il monismo dello St., in fondo, è dualismo, come la sua filosofia della libertà, che, per essere tale, dovrebbe essere una filosofia spiritualistica, scrutata nel suo intimo, riesce un mero naturalismo. Dualistica è la posizione in cui egli rappresenta la percezione e il pensiero; che egli stringe bensì indissolubilmente, ma non può unificare, perché non vede unità da cui entrambi i termini derivino: e realmente fanno capo a due principi opposti e irreconciliabili, uno dei quali si manifesta nel tempo e nello spazio e l’altro si libra nel puro pensiero logico. Ma naturalistica è la stessa concezione della libertà come attributo dell’individualità, così astrattamente intesa come la concepisce lo St. nell’opposizione dell’autocoscienza al pensiero e all’universale. Opposizione fondata sopra un equivoco. Poiché l’individualismo etico che lo St. stima di dover contrapporre all’universalismo kantiano, nasce da inintelligenza del pensiero di Kant e di quanti ripongono la moralità nell’universalità del volere. La proposizione di Kant “opera in modo che la norma del tuo operare possa valere per tutti” è la morte, dice lo St., di ogni agire individuale. “Non come tutti gli uomini agirebbero, ma come io ho da agire nel caso individuale, debbo considerare”. Ed è vero; ma è anche vero che questo giudizio “come io ho da agire” non può essere pronunziato se non opponendo al semplice particolare l’universale, e assoggettando quindi il primo al secondo. Tant’è che il vero individuo – l’individuo che pensa se stesso – è il concreto, vero e reale universale. E quello che adombra dell’universale non è l’individuo che si domanda come deve agire, l’individuo che è soggetto e pensiero, ma l’individuo che il soggetto pone innanzi a sé col pensiero, e dice natura: il particolare della natura, e lo stesso uomo come istinto che vive la sua vita inconsapevole ed è guardato dall’esterno dal pensiero che lo contempla. Tale la intuizione fondamentale dello Steiner. Filosofia naturalistica, malgrado le molte felici osservazioni di un acuto spiritualismo; ma non filosofia della libertà“.
“Dualistica” sarebbe dunque La filosofia della libertà, poiché dualistica – dice Gentile – “è la posizione in cui egli (Steiner) rappresenta la percezione e il pensiero; che egli stringe indissolubilmente, ma non può unificare perché non vede unità da cui entrambi i termini derivino: e realmente fanno capo a due principi opposti e inconciliabili, uno dei quali si manifesta nel tempo e nello spazio e l’altro si libra nel puro pensiero logico”. Dal momento, tuttavia, ch’è l’Io ad articolarsi, nell’anima, nelle facoltà del pensare, del sentire e del volere, e ch’è quest’ultima a informare il percepire, è quindi chiaro che a Steiner non sfugge affatto l'”unità” dalla quale derivano tanto il pensiero che la percezione. Ma cos’è allora che non convince Gentile? Non lo convince il fatto che Steiner, anziché partire dall’unità (dall’Io) per arrivare alla dualità (al pensare e al percepire), parta dalla dualità (dal pensare e dal percepire) per arrivare all’unità (all’Io). Non lo convince il fatto, cioè, che l’unità si dia, in Steiner, non come un “a-priori”, ma come un “a-posteriori”: ossia, non come un Essere (oggetto dell’antica metafisica), ma come uno Spirito (soggetto “trans-oggettivo” e “trans-soggettivo” del moderno conoscere).
A questo preciso proposito, Roggero osserva, giustamente, che il voler cogliere “a-priori l’unità da cui entrambi i termini (pensiero e percezione) derivano significherebbe porsi al centro dell’atto creativo originario, ossia nell’attività e nella coscienza dello stesso Essere divino, una pretesa rispetto alla quale dovremmo chiederci se essa non sia per caso illusoria”. Proprio in quanto “illusoria”, tuttavia, una simile pretesa rivela una hybris, e quindi un “motivo ispiratore” di natura luciferica.
Gentile vorrebbe (a ragione) che non fosse (come insegna Arimane) il creato (naturale) a produrre il pensare (spirituale), ma che fosse quest’ultimo a produrre il primo. E’ però il pensiero divino (ch’è uno col volere) a creare il creato ed è quello umano (ch’è attualmente diviso dal volere) a conoscerlo. A conoscerlo, però, per quella sola parte morta o inorganica (divisa quindi dalla vita) che gli corrisponde.
Scrive Goethe: “Il punto fondamentale che sembra perdersi di vista nell’impiego esclusivo dell’analisi è che ogni analisi presuppone una sintesi (…) La prima cosa che s’impone all’analista è dunque di esaminare (o meglio, non perdere mai di vista) se ha veramente a che fare con una sintesi nascosta e misteriosa, o se ciò di cui si occupa è soltanto un aggregato, un miscuglio, una giustapposizione, e via discorrendo” (op. cit., p.64). Ebbene, è appunto tale “sintesi nascosta e misteriosa” a essere ri-creata dall’umano conoscere in forma di Spirito o di Io; ed è proprio per passare dall’unità iniziale (incosciente e naturale) a quella finale (cosciente e spirituale) che l’uomo è chiamato ad affrontare e superare la prova della dualità.
Per concludere, due parole sull'”individualismo etico”. Qui Gentile dovrebbe mettersi d’accordo con sé stesso. Prima ci ha detto infatti che la critica che fa Steiner “in proposito dell’idealismo critico, mostrandone la reale coincidenza col realismo ingenuo, a cui esso crede di opporsi, è delle parti più belle del libro”, mentre adesso ci dice che la contrapposizione dell’individualismo etico “all’universalismo kantiano, nasce da inintelligenza del pensiero di Kant”.
Ma andiamo al sodo. “Non come tutti gli uomini agirebbero, – scrive Steiner – ma come io ho da agire nel caso individuale, debbo considerare”. E Gentile commenta: “Ed è vero; ma è anche vero che questo giudizio “come io ho da agire” non può essere pronunziato se non opponendo al semplice particolare l’universale, e assoggettando quindi il primo al secondo”.
La questione, tuttavia, non sta nello stabilire se il “particolare” debba o non debba essere “opposto” e “assoggettato” all'”universale”, quanto piuttosto nello stabilire chi sia il primo, chi il secondo, e, soprattutto, se si dia, tra i due, un rapporto d’immanenza o di trascendenza. Ove il primo fosse un ego e il secondo un non-ego (materialsticamente o spiritualisticamente inteso), si avrebbe infatti ragione di parlare di “dualismo” e di non libertà. Ove però – com’è nel caso di Steiner – il “particolare” sia l’io abituale, ossia quell’ego che in tanto sa di sé in quanto s’identifica col corpo, e l'”universale” sia l’Io spirituale, ossia l’essenza o il fondamento di quello abituale, ecco allora che il primo, “assoggettandosi” al secondo, altro non farebbe che “assoggettarsi” a sé stesso, ed essere perciò libero.
“Libero è l’uomo – dice appunto Steiner – quando in ogni momento della sua vita è in grado di ubbidire a se stesso” (La filosofia della libertà, p.138).

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Di Francesco Giorgi
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