Coscienza naturale e coscienza spirituale

C

“L’antroposofia – scrive Steiner – è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (1).
Nell’uomo (in qualità di microcosmo) sono però presenti, a due diversi e contrapposti livelli, tanto il primo che il secondo.
Lo “spirituale che è nell’uomo” è presente nella sfera neuro-sensoriale e vi si manifesta come coscienza priva di vita, mentre quello “che è nell’universo” è presente nella sfera metabolica e degli arti (muscolare) e vi si manifesta come vita priva di coscienza.
“Nel capo dell’uomo – spiega Steiner – l’organizzazione fisica è un’impronta dell’individualità spirituale. La parte fisica e quella eterica del capo stanno come immagini concluse dello spirituale, e accanto ad esse stanno la parte astrale e quella dell’io, come entità animico-spirituale autonoma. Nel capo dell’uomo si ha dunque a che fare con una evoluzione parallela delle parti relativamente autonome fisica ed eterica da un lato, dell’organizzazione astrale e di quella dell’io dall’altro”.
Al contrario, – spiega ancora – “nel sistema delle membra e del ricambio dell’uomo, le quattro parti costitutive dell’essere umano sono intimamente collegate. L’organizzazione dell’io e il corpo astrale non sono accanto alla parte fisica ed eterica. Vi sono dentro; le vivificano, agiscono nella loro crescita, nella loro facoltà di movimento, e così via” (2).
Lo “spirituale che è nell’uomo” si manifesta dunque, nel capo, come chiara “immagine” (come “rappresentazione”); lo “spirituale che è nell’universo” si manifesta invece, nelle membra e nel ricambio, come oscuro “germe” (come un “nucleo di forza” che tende costantemente a svilupparsi).
Il primo è rappresentato perciò dall’intelletto, dal conscio, dal soggetto o dall’ego; il secondo dalla natura vivente, dall’inconscio, dall’oggetto o dal non-ego.
Nelle membra e nel ricambio, però, lo “spirituale che è nell’universo” è tale dal punto di vista della “forza”, ma non da quello della “forma”: quest’ultima, infatti, non vi si dà in modo “universale” (come “puro” volere), bensì in modo “individuale” e karmicamente determinato (in specie quale costituzione e temperamento).
Il “condurre – come dice Steiner – lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” significa dunque “condurre” l’intelletto alla natura vivente, il conscio all’inconscio, il soggetto all’oggetto o l’ego al non-ego.
Una “via della conoscenza” che pretenda di perseguire simili obiettivi non può perciò rimanere confinata nella sfera della speculazione filosofica, ma deve portarsi in quella dell’attività scientifica per fondarsi, com’è costume della scienza, sull’osservazione e sul pensiero
Sull’osservazione, anzitutto, di quelle due naturali attività, il percepire e il pensare, in virtù delle quali l’uomo edifica, in modo del tutto spontaneo, la sua “cognizione sensibile”.
“La nostra entità complessiva – osserva Steiner – funziona in modo che, per ogni oggetto della realtà, i relativi elementi affluiscono a lei da due parti: da quella del percepire e da quella del pensare. Non ha nulla a che fare con la natura delle cose il modo in cui io sono organizzato per afferrarle. La separazione tra percepire e pensare avviene soltanto nel momento in cui io, l’osservatore, mi metto di fronte alle cose” (3).
Ogni oggetto, dunque, a causa della nostra organizzazione conoscitiva, si spezza, per così dire, in due, e si dà, mediante il percepire, come oggetto reale e, mediante il pensare, come oggetto ideale.
Si noti però che Steiner – nel passo appena citato – parla di “percepire” e di “pensare”, e non di “percezione” e di “concetto”.
Chiedere cosa sia in generale la “percezione” – scrive infatti – è “assurdo”, poiché questa “sorge sempre perfettamente determinata, come un contenuto concreto. Questo contenuto è dato direttamente e si esaurisce nel dato. Riguardo a tale dato si può soltanto domandare che cosa esso sia al di fuori della percezione, cioè per il pensare. La domanda “che cosa è la percezione?” può quindi riferirsi solamente all’intuizione concettuale che le corrisponde” (4).
E’ opportuno quindi ricordare che, col termine “percezione”, si possono indicare realtà diverse: ovvero, quella dell’atto percettivo del soggetto (atto iniziale e intenzionale equivalente a quello dell’osservare o del prestare attenzione) che, incanalandosi e diramandosi negli organi di senso, accoglie gli stimoli e li trasforma, mediante i recettori, in impulsi nervosi; oppure quella dell’oggetto come  percetto: come “causa prima”, cioè, di quello stimolo percettivo che, nell’incontro con la molteplice organizzazione umana dei sensi, viene appunto suddiviso e trasformato nei relativi impulsi nervosi; oppure ancora quella della finale e sintetica immagine del percetto (o immagine percettiva).
Steiner stesso, del resto, così avverte: “Data l’indeterminatezza del linguaggio corrente, mi sembra necessario intendermi col lettore riguardo all’uso di una parola che adopererò spesso in seguito. Chiamerò gli oggetti immediati di sensazioni, dei quali ho più sopra parlato, percezioni, in quanto il soggetto cosciente ne prende conoscenza attraverso l’osservazione. Con tale nome non indico dunque il processo dell’osservazione, ma l’oggetto dell’osservazione stessa” (5).
Il “processo dell’osservazione” coincide dunque con l'”atto percettivo”, mentre il suo oggetto, in quanto “immediato”, e per ciò stesso “indeterminato”, coincide col percetto: con ciò che abbiamo indicato quale “causa prima” dello stimolo percettivo.
Se è vero, dunque, che solo in virtù del pensare si può apprendere quale sia l’elemento ideale (concettuale) corrispondente a quello fornito dal percepire, altrettanto è vero che solo in virtù del percepire si può apprendere quale sia l’elemento reale (percettivo) corrispondente a quello fornito dal pensare.
Dunque, detto “X” il percetto (l’elemento indeterminato fornito, in prima istanza, dal mero incontro o scontro dell’atto percettivo del soggetto con l’oggetto) e “A” il concetto (l’elemento determinato fornito, in seconda istanza, dal pensare), è possibile sviluppare il seguente sillogismo:

1)         “X=A” (o “X è A”: “premessa maggiore” costituita da un giudizio sintetico che è frutto di un movimento induttivo, avente la  facoltà di “risalire” dall’individuale-sensibile all’universale-spirituale);

2)      (se “X=A”, allora) “A=X” (o “A è X”: “premessa minore” costituita da un giudizio analitico che è frutto di un movimento deduttivo, avente la facoltà di “discendere” dall’universale-spirituale all’individuale-sensibile);

3)      (se “X=A” e “A=X”, allora) “A=A” (o “A è A”: “conclusione” costituita da un giudizio in cui, nella sfera del particolare-animico, si realizza una sintesi dell’individuale-sensibile e dell’universale-spirituale).

Ebbene, questo sillogismo, ove si sia in grado di sperimentarlo immaginativamente, rappresenta un segreto, vivente e ritmico oscillare dell’Io tra i due opposti poli del corpo e dello spirito, passando ogni volta per quello intermedio dell’anima (“Uno spirito quale è Michele, – ricorda a questo preciso proposito Steiner – eleggendo a sua sede il mondo ritmico, trasporta nel campo della pura evoluzione umana – non influenzata da Lucifero – quello che altrimenti giacerebbe nell’ambito di Lucifero” (6): ovvero, “quello che altrimenti giacerebbe” nella sfera del sentire, e non del pensare).
Lo stesso sillogismo, formulato in altri termini, si presenta così:

 

1)      il reale è l’ideale                               (l’oggetto è il concetto);

2)      l’ideale è il reale                               (il concetto è l’oggetto);

3)      l’ideale è il reale e il reale è l’ideale  (il concetto e l’oggetto sono uno).

 

Scrive Schelling: “In ogni sapere vien pensato un elemento obbiettivo in coincidenza col subbiettivo. Nella proposizione A=A manca una tale coincidenza. Ogni sapere originario dunque oltrepassa l’identità del pensiero, e la proposizione A=A deve presupporre un tale sapere. Dopo aver pensato A, certamente io lo penso come A; ma come pervengo a pensare A? Se è un concetto liberamente nato, esso non può costituire alcun sapere; se è un concetto sorto col sentimento della necessità, deve possedere una realtà obbiettiva” (7).
Egli dunque si chiede: “dopo aver pensato A”, posso certamente dire “A=A” (“A è A”), ma “come pervengo a pensare A”? Si tratta di un concetto “nato” da me, col sentimento della libertà (e quindi soggettivo), o “nato” dall’oggetto, “col sentimento della necessità” (e quindi oggettivo)?
La nostra analisi non ha ancora risposto, in effetti, a questa domanda. Partendo infatti dall’elemento “obbiettivo” (“X”) e da quello “subbiettivo” (“A”), abbiamo solo mostrato come prima si giudichi che “X è A”, poi che “A è X” e infine che “A è A”.
Ma come si arriva, nel primo di questi giudizi, a giudicare che “X è A”?
Notiamo, intanto, che si tratta di un giudizio sui generis. In questo, infatti, il predicato (nominale) indica il soggetto, mentre, in tutti gli altri giudizi, indica ciò che si dice del soggetto (un suo modo di essere, una sua qualità o un suo stato). “In un giudizio siffatto, – nota appunto Steiner – una percezione viene inserita nel mio sistema di pensieri in un dato luogo. Chiamiamo tale giudizio, un giudizio di percezione. Per mezzo del giudizio di percezione si riconosce che un dato oggetto sensibile nella sua essenza coincide con un dato concetto” (8): si riconosce, ossia, che “X” coincide con “A”.
Ma vi coincide – si chiede appunto Schelling – col “sentimento della necessità”, e ha quindi a che fare con l’oggetto, o con quello della libertà, e ha quindi a che fare – come sostiene Kant – col nostro modo di conoscerlo?
Vi coincide – possiamo rispondere – col “sentimento della necessità” (e costituisce pertanto un “sapere”) per la semplice ragione che l’oggetto, all’origine, è tanto “X” (una forza) che “A” (una forma): ovvero, un dato unitario e immediato che solo in virtù dell’incontro o dello scontro con l’organizzazione conoscitiva umana, si è venuto a scindere, e a darsi, di conseguenza, quale elemento reale “X”, al percepire, e quale elemento ideale “A”, al pensare.
Il processo conoscitivo, infatti, prima solve il mondo percependo e poi lo coagula pensando: sicché, alla fine, possa essere coscientemente ri-creata la sua originaria e incosciente unità (la sua sintesi “a-priori”).
Dice Gesù a Pietro: “Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19).
L’unità ri-creata (la sintesi “a-posteriori”) è quindi rappresentata, non dal semplice “A” (dall'”A” che non è stato ancora “sciolto” e “legato”), bensì dall'”A=A”: ovvero, non più dall’originario essere naturale, bensì dall’essere spirituale (dire “A=A” non è infatti che un modo determinato di dire “Io=Io”: di dare espressione, cioè, all’autocoscienza).
Si potrebbe anche aggiungere, volendo, che il primo “Io” di quest’ultima equazione (“Io=Io”) rappresenta il soggetto etico del volere (o quella che Steiner chiama, più esattamente, l'”organizzazione incosciente dell’Io”), il secondo quello noetico del pensare (o quella che sempre Steiner chiama, più esattamente, l'”organizzazione cosciente dell’Io”) (9), mentre il segno (=) che li collega rappresenta, a un primo livello (lo stesso degli altri due), il soggetto “estetico” del sentire, ma, a un secondo e più profondo livello (la cui realtà sfugge a tutti coloro che si fermano, come Schelling, alla sintesi estetica) quell’Io – uno e trino – che così appunto si articola e manifesta nell’anima.

Ci sia consentita, al riguardo, una breve digressione.

La chimica moderna insegna che tutti gli elementi (a eccezione dei gas nobili) hanno nel loro strato esterno un numero di elettroni che varia da 1 a 7.
“Questi elementi – ci viene spiegato – hanno, però, la possibilità di acquistare, o cedere, elettroni fino a raggiungere il numero di otto, sempre che si uniscano ad elementi che, a loro volta, cedano, od acquistino, ugual numero di elettroni. Consideriamo due elementi: Il Sodio (Na) che ha 11 elettroni, così distribuiti: 2 nel primo livello 8 nel secondo ed 1 nel terzo; ed il Fluoro che ha 9 elettroni, di cui 2 nel primo livello e 7 nel secondo. Se il Sodio cede al Fluoro l’unico elettrone dello strato esterno, acquista la configurazione, con otto elettroni periferici, del gas nobile Neon (Ne); il Fluoro, a sua volta, acquistando questo elettrone, raggiunge anch’esso il numero di otto nel livello esterno. Il composto, che in tal modo si forma, il fluoruro di sodio, Na F, rappresenta per entrambi gli elementi il raggiungimento dell’inerzia chimica.”.
Il fenomeno soggiace dunque a quella “regola dell’ottetto” che viene così enunciata: “Il raggiungimento di otto elettroni nel livello esterno (elettroni di valenza) è la causa che determina l’unione chimica degli elementi” (10).
Orbene, non è difficile accorgersi che in questo enunciato c’è qualcosa che non va. Per quale ragione, infatti, pur essendo i due fenomeni simultanei, “il raggiungimento di otto elettroni nel livello esterno” viene visto come “causa” e “l’unione chimica degli elementi” come ”effetto”? Per quale ragione, cioè, si dice che “il raggiungimento di otto elettroni nel livello esterno è la causa che determina l’unione chimica degli elementi”, e non che “l’unione chimica degli elementi è la causa che determina il raggiungimento di otto elettroni nel livello esterno”?
Anche questa seconda asserzione sarebbe comunque arbitraria. Volendo rimanere aderenti al fenomeno, ci si dovrebbe limitare infatti a dire: “Nello stesso istante in cui si raggiungono gli otto elettroni nel livello esterno, si realizza anche l’unione chimica degli elementi.”.
Solo quella in grado di spiegare sia la realizzazione sul piano chimico del composto sia quella sul piano atomico dell’ottetto, dovrebbe essere quindi considerata “causa” del fenomeno.
Ci è stato anche detto, però, che gli elementi, nel momento stesso in cui si coniugano nel composto, conseguono uno stato di “inerzia” o di “stabilità”.
Ciascun elemento, dunque, in tanto si mostra di per sé “instabile” (a eccezione dei gas nobili) in quanto è stato appunto innaturalmente separato e isolato dal composto.
“Se applichiamo – ci viene infatti detto – il procedimento chimico dell’analisi (che dalla sua etimologia greca significa scissione, suddivisione) alle sostanze esistenti in natura, perveniamo ad alcune di esse, invero poche, che non possono essere ulteriormente scisse, decomposte, perché le più semplici di tutte. A queste sostanze ultime si dà il nome di elementi chimici” (11).
Dunque, come i singoli elementi, nella sfera naturale, sono creazioni artificiali dell’analisi chimica, così i singoli concetti, nella sfera spirituale, sono creazioni non meno artificiali dell’analisi intellettuale (vincolata alla percezione).
“Nel momento in cui una percezione spunta sull’orizzonte della mia osservazione, – scrive appunto Steiner – entra in azione in me anche il pensare. Un membro del mio sistema di idee, una determinata intuizione, un concetto si collega con la percezione” (12).
Come un singolo elemento chimico viene strappato, mediante l’analisi, al composto originario, così un singolo concetto (una “determinata intuizione”) viene dunque strappato, mediante il percepire, all’insieme del “mio sistema d’idee”.
“Per intelletto riflettente o riflessivo – puntualizza infatti Hegel – è da intendere in generale l’intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni” (13).  E il suo astrarre – aggiunge – “è il violento afferrarsi a una determinazione, uno sforzo per oscurare e allontanare la coscienza dell’altra determinazione che colà si trova” (14).
Se si parlasse ad esempio dell’acqua, anziché del pensiero, “estrarre” o “astrarre”, per mezzo dell’analisi, l’idrogeno significherebbe quindi “oscurare e allontanare la coscienza” dell’ossigeno che  “colà si trova”.
Tutto ciò dimostra a sufficienza che, tanto sul piano della natura quanto su quello dello spirito, “in principio” è il composto o l’insieme: vale a dire, l’unità o la sintesi, e non i singoli e molteplici elementi che ne fanno parte (come credono invece gli “atomisti”).
Meglio si comprende così,  per tornare a noi, il perché “A”, nel nostro primo giudizio, si colleghi a “X” col “sentimento della necessità”.
Si tenga comunque presente che tale “sentimento” riguarda il rapporto (originario, naturale e inconscio) tra il concetto “A” e il percetto “X”, e non quello tra il concetto “A” e il soggetto (l’ego) che coscientemente lo pone (o se lo rappresenta).
Ove il processo “naturale” non fosse insidiato dalla possibilità dell’errore, mai ci si sarebbe spinti infatti a osservarlo e portarlo a coscienza. Per la conoscenza del conoscere, gli errori di giudizio svolgono, di fatto, la medesima funzione svolta dalle malattie per la conoscenza dell’anatomia e della fisiologia. Se il conoscere “naturale” ci desse la verità in modo “necessario”, l’uomo non potrebbe evolversi dalla coscienza all’autocoscienza.
Cercheremo di capire, tra breve, come accada che il processo “naturale” si alteri e divenga incapace di mutare l’oscuro “sentimento della necessità” in quello luminoso della verità.
Frattanto, chiediamoci: se “X” non rappresenta che l'”A” percepito, così come “A” non rappresenta che l'”X” pensato (se tutti e due altro non rappresentano, insomma, che le opposte e necessarie manifestazioni di una sola “realtà obbiettiva”), quale è allora lo “spazio” in cui s’inserisce e si svolge il libero conoscere umano?
Nelle nostre formule – possiamo subito rispondere (ma ne avevamo già fatto cenno) – tale “spazio” è esattamente quello in cui, tra i due dati necessari (ma già scissi dall’intervento dell’uomo), viene a porsi il “non-necessario” (e “umano”) segno dell’uguaglianza (=): ossia, quel segno che collega – come abbiamo visto – prima “X” ad “A” (“X=A”), poi “A” a “X” (“A=X”) e infine “A” ad “A” (“A=A”).
“Tanto in relazione all’organizzazione dei sensi, – precisa infatti Steiner – quanto al sistema del pensiero, l’uomo è mondo (…) Perciò né nella percezione dei sensi, né nel pensiero egli è se stesso, ma è contenuto del mondo” (15).
Al mondo, insomma, se fosse per la natura, non ci sarebbe che l’ignoto; se fosse per la percezione sensibile, non ci sarebbero che delle singole e oscure “X”; e, se fosse per l’intelletto, non ci sarebbero che delle singole e vuote “A”; è solo in virtù del conoscere umano (quale atto sintetico o “coniugio” di percepire e pensare) che vengono dunque al mondo i giudizi “X=A”, “A=X” e “A=A”.
Per condurre il processo conoscitivo a buon fine, è dunque necessario, anzitutto, riportare all’interno dell’organizzazione umana (trasformando così la “filosofia” in “antroposofia”) la genesi di tutte quelle antitesi (di soggetto e oggetto, di Io e non-Io, di conscio e inconscio o di spirito e materia) che sembrerebbero, a prima vista, riguardare il mondo o l’oggettiva natura degli elementi considerati.
“Bisogna mettere in evidenza il fatto – scrive al riguardo Steiner – che il contrasto fondamentale e originario ci viene incontro in primo luogo entro la nostra coscienza. Siamo noi stessi che ci stacchiamo dal grembo materno della natura e che ci contrapponiamo al mondo come “io”” (16). Perciò – aggiunge – “possiamo trovare la natura fuori di noi solo se prima abbiamo imparato a conoscerla dentro di noi (…) L’esame del nostro essere ci deve dare la soluzione dell’enigma. Dobbiamo arrivare ad un punto in cui potremo dire: qui non siamo solamente “io”, qui c’è qualcosa che è più che “io”” (17).
Se “ogni sapere – come sostiene Schelling – si fonda sull’accordo di due elementi, l’uno subbiettivo, l’altro obbiettivo”, il vero problema è dunque quello di scoprire – come abbiamo tentato di fare fin qui – in virtù di quale attività umana si dia il primo, di quale il secondo, e di quale ancora la loro interazione o il loro rapporto.
Ricordiamo però, ancora una volta, che “la nostra entità complessiva – come dice Steiner – funziona in modo che, per ogni oggetto della realtà, i relativi elementi affluiscono a lei da due parti: da quella del percepire e da quella del pensare”, e che l’attività intellettuale vi svolge una funzione qualitativamente opposta a quella del percepire.
Nella prima, infatti, è l’attività cosciente e riflessa del pensare a prevalere su quella del volere (del volere nel pensare), mentre nella seconda è l’attività incosciente e viva del volere a prevalere su quella del pensare (del pensare nel volere).
“Ogni sapere – scrive Schelling – si fonda sull’accordo di due elementi, l’uno subbiettivo, l’altro obbiettivo (…) Possiamo chiamar Natura la totalità degli elementi obbiettivi del nostro sapere, mentre l’insieme di tutti gli elementi subbiettivi dicesi Io, o intelligenza. I due concetti sono antitetici. In origine l’intelligenza è concepita come il puro rappresentativo, la natura come il puro rappresentabile; quella come il conscio, questa come l’inconscio” (18).
Schelling trascura però di osservare che l’elemento “subbiettivo”, colto dal pensare, ha la medesima natura “morta” dell’intelletto, mentre quello “obbiettivo”, colto dal percepire, ha la medesima natura “viva” della volontà (l’essere del mondo dei sensi è “un mare di volontà – dice per l’appunto Steiner- differenziata nel modo più vario”) (19).
Insomma, di quella entelechia (di quella unità di forza e di forma) che è l’oggetto originario, il percepire ci dà la forza senza forma, mentre l’intelletto ci dà la forma senza forza.
Ove poi si consideri che all’esperienza della “forza” si associa l’idea dell’essere e all’esperienza della “forma” l’idea del non-essere, vieppiù si chiarisce il perché, nell’ordinaria cognizione sensibile, ciò che si presenta mediante il volere dia la viva sensazione dell’essere reale, mentre ciò che si presenta mediante l’intelletto dia la spenta sensazione del non-essere ideale.
“Quando noi sentiamo, – scrive ancora Schelling – non sentiamo giammai l’obbietto; nessuna sensazione ci dà un’idea di un obbietto, essa è il semplice opposto del concetto (della operazione), dunque negazione di attività” (20).
Egli intende dire, con questo, che ci “sentiamo” in “attività” quando il nostro pensare (la nostra “operazione”) produce il concetto, ma non quando la forza “centrifuga” del nostro osservare s’incontra o scontra con un oggetto che l’arresta o la cattura. “La realtà della sensazione – spiega infatti – si fonda su questo, che l’Io non intuisce il sentito come posto da lui. Esso è sentito, solo in quanto l’Io lo intuisce non posto da lui” (21).
E’ questa, in effetti, la principale e obiettiva differenza tra il dato reale “X” e quello ideale “A”; “A” lo poniamo infatti inconsciamente mediante il pensare, mentre “X” ci s’impone coscientemente mediante il percepire.
“Quando io – esemplifica Steiner – guardo come una palla da biliardo che venga spinta trasmette il moto ad un’altra, rimango senza nessuna influenza sullo svolgimento del fenomeno che osservo (…) Tutto cambia se comincio a riflettere sul contenuto della mia osservazione (…) Io cerco dunque di aggiungere al processo che ha luogo senza il mio intervento, un secondo processo che si svolge nella sfera concettuale (…) Come è certo che il fenomeno si svolge indipendentemente da me, così è certo che il processo concettuale non può svolgersi senza il mio intervento” (22).
La realtà di “X” s’impone dunque, come forza, attraverso il corpo, mentre la verità di “A” viene posta, come forma, attraverso lo spirito (l’Io).
L’anima, tuttavia, sta tra il corpo e lo spirito, e quindi tra il dato sensibile “X” e quello spirituale “A”. Riunire il dato sensibile (il percetto) alla sua verità ideale (al concetto) è perciò compito che l’Io può assolvere solo in virtù dell’anima: in virtù di un’anima, però, cui si sia restituita la “purezza”, la “castità” o la “trasparenza” originaria.
Allorché l’uomo, infatti, anzichè ricercare la verità del fenomeno, si appaga o si compiace del proprio “punto di vista” o della propria “opinione”, al dato oggettivo (o alla forza) “X” non si fa incontro, nell’anima, la sua “metà” (o la sua forma) oggettiva “A”, bensì un qualunque concetto deputato, più o meno efficacemente,  a mascherare (razionalizzare) le brame, le paure, le simpatie o le antipatie personali
E’ così che nasce dunque l’errore, ed è così che si può comprendere il perché Goethe abbia affermato che è il giudizio a “ingannare”, e non i sensi.
In una sana vita dell’anima è l’Io a riunire al dato oggettivo “X” (al soggetto) la sua “metà” oggettiva “A” (il predicato) per mezzo di quell’attività giudicante che viene rappresentata dalla “copula” (è).
Il giudicare svolge quindi, nella vita animica, un’attività “sacerdotale” analoga a quella di chi, nella vita sociale, sia investito del potere di celebrare “matrimoni”.
Per poter sposare “A” con “X” (ovvero, il dato “femminile”, del pensiero o della “forma” con quello “maschile” della volontà o della “forza”) è infatti necessario “consacrarsi alla verità”, e perciò vincere le innumerevoli tentazioni in cui c’inducono i “particulari” interessi della soggettività o della natura personale
Solo da queste “nozze chimiche” (come le chiama Christian Rosenkreuz) (23) può d’altro canto nascere, dall’uomo e nell’uomo, il “Figlio dell’uomo”.
Abbiamo detto che la conclusione del nostro sillogismo (“A=A”) è costituita da un giudizio in cui si realizza, nella sfera del particolare-animico, una sintesi dell’individuale-sensibile e dell’universale-spirituale.
Ma quanto vale per la “conclusione” quale fatto logico (o dialettico), vale anche per la “rappresentazione” quale fatto conoscitivo.
“La rappresentazione – scrive infatti Steiner – non è altro che un’intuizione riferita ad una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione. Il mio concetto di un leone non è formato traendolo fuori dalle mie percezioni del leone. Ma la mia rappresentazione del leone è dovuta alla percezione. Io posso comunicare il concetto di un leone a chiunque non abbia mai visto un leone; ma non mi riuscirà di creare in lui una rappresentazione viva, senza la sua diretta percezione. La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato (…) La rappresentazione sta dunque in mezzo fra percezione e concetto. E’ il concetto determinato, legato alla percezione. Io posso chiamare mia esperienza la somma di tutto quello di cui posso formarmi delle rappresentazioni” (24).
In effetti, possiamo soltanto intuire “il” leone, soltanto figurarci “un” leone, e soltanto percepire, “ora e qui”, “questo” leone. Ma c’è di più.
“Nella vita comune – afferma Steiner – il pensare si estrinseca nel linguaggio, e se considerate la struttura del linguaggio troverete che, parlando, formate continuamente delle conclusioni. Questa attività del concludere è la più cosciente dell’uomo; l’uomo non potrebbe esprimersi mediante il linguaggio se non attaverso continue conclusioni; non capirebbe ciò che altri gli dice se non potesse continuamente accogliere in sé delle conclusioni. La logica scolastica spezzetta di solito i sillogismi; ma così facendo falsa quelli che si presentano nella vita ordinaria. La logica scolastica non tiene conto del fatto che noi traiamo già una conclusione ogni volta che prendiamo di mira un oggetto isolato (…) Naturalmente noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività, ma se non la compissimo, non condurremmo mai una vita cosciente atta a farci intendere, attraverso il linguaggio, con altri esseri umani. Di solito si crede che l’uomo pervenga per prima cosa ai concetti; ma non è vero. La prima cosa nella vita sono le conclusioni (…) Se ora consideriamo l’intero processo, che cosa è il leone all’inizio? Una conclusione. Un po’ più tardi è un giudizio, e più tardi ancora è un concetto. Se consultate i testi di logica, specialmente quelli un po’ antichi, troverete citato il sillogismo divenuto celebre: “Tutti gli uomini sono mortali”: “Caio è un uomo, dunque Caio è mortale”. Caio è la più famosa delle personalità logiche. Ebbene, questa separazione dei tre giudizi “tutti gli uomini sono mortali”, “Caio è un uomo”, “dunque Caio è mortale”, avviene in realtà solo nell’insegnamento della logica. Nella vita i tre giudizi si intessono l’uno nell’altro, sono una cosa sola, perché la vita si svolge continuamente in un pensare conoscitivo. Noi compiamo sempre i tre giudizi tutti contemporaneamente quando ci accostiamo a “Caio”. In ciò che pensiamo di lui, i tre giudizi sono già contenuti. Vale a dire che la conclusione era già presente da principio. Solo dopo formiamo il giudizio che qui è nella conclusione “dunque Caio è mortale”. E l’ultima cosa che otteniamo è il concetto individualizzato: “il Caio mortale” (25).
Ebbene, queste affermazioni, non solo ci confermano che la “conclusione”, in quanto “concetto individualizzato”, equivale alla “rappresentazione”, ma ci permettono anche di rilevare un aspetto del nostro sillogismo che ricorda, in qualche modo, l’inizio del sogno di Giacobbe: “Ed ecco una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala” (Gn 28,12).
Che cosa emerge, infatti, dalle parole di Steiner? Emerge, a ben vedere, una netta distinzione tra il processo conoscitivo naturale che, quale incosciente atto creativo, scende dal concetto (inconsciente), attraverso il giudizio (subcosciente), alla conclusione (cosciente), e quello spirituale che, quale cosciente atto conoscitivo, sale dalla conclusione (prima cosciente sul piano rappresentativo e poi su quello immaginativo), attraverso il giudizio (cosciente sul piano ispirativo), al concetto (cosciente sul piano intuitivo).
Mentre la conclusione (o la rappresentazione) – spiega infatti Steiner – è normalmente presente “nella vita pienamente sveglia” e, come tale, “non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna”, il giudizio invece può farlo. “Ogni giudizio che noi ci formiamo sul mondo, – dice appunto –  scende nelle profondità dell’anima sognante. Ma che cos’è quest’anima che sogna? Come abbiamo visto, essa è piuttosto affine al sentimento. Se dunque nella vita formuliamo dei giudizi e poi, distaccandoci da questa formulazione, proseguiamo a vivere, portiamo sì quei giudizi con noi attraverso il mondo, ma li portiamo entro il sentimento. Il che significa che il giudizio diventa in noi una specie di abitudine” (26). Per quanto riguarda i concetti – spiega infine – constateremo che questi “discendono fin nel più profondo dell’essere umano, discendono (se consideriamo la cosa dal punto di vista dello spirito) fino nell’anima dormiente, quella cioè che continuamente lavora alla formazione del corpo” (27).
Per comprendere la genesi della conclusione (o della rappresentazione) “A=A”, presente nella nostra abituale coscienza di veglia, è dunque necessario imparare a ravvivare il pensare (quel pensare che si è appunto coagulato o sepolto nel “pensato”, nella conclusione o nella rappresentazione), ed essere poi capaci, risalendo il corso del suo movimento (eterico), di varcare la “soglia” che divide la sfera eterica (della vita) da quella astrale (della qualità) e di strappare così, prima i giudizi “A=X” e “X=A” al sogno (alla subcoscienza), e poi il concetto “A” al sonno (all’incoscienza).
Parlare di “conoscenza naturale” significa dunque parlare di una inconscia attività immaginativa (cui si devono le rappresentazioni, le immagini percettive, mnemoniche, oniriche e allucinatorie), di una inconscia attività ispirativa (cui si deve il giudicare) e di una inconscia attività intuitiva (cui si devono i concetti). Significa parlare, insomma, di tre attività che vedono all’opera, in noi, le entità della “terza Gerarchia”: ovvero, degli Angeli, degli Arcangeli e delle Archai (gli “Spiriti della personalità”).
Si ha così una riprova che la “conoscenza spirituale” altro non è che una “metamorfosi ascendente” di quella “naturale”. E’ in questo modo, infatti, che il corpo astrale, il corpo eterico e quello fisico si trasformano gradualmente e rispettivamente – come indica Steiner – nel Manas (nel “Sé spirituale”), nella Buddhi (nello “spirito vitale”) e nell’Atman (nell’”uomo spirito”). E’ in questo modo, insomma, che dall'”uomo naturale” nasce gradualmente l’”uomo spirituale”.
“Nel filosofare – scrive ancora Schelling – si è non soltanto l’oggetto, ma, sempre e insieme, il soggetto della riflessione. Per intendere la filosofia si richiedono perciò due condizioni: in primo luogo, che ci si concepisca in una perenne attività interna, in una perenne produzione di quegli atti primitivi dell’intelligenza; secondariamente, in una perenne riflessione su questo produrre, in una parola, che si sia sempre l’intuìto (producente) e l’intuente ad un tempo” (28).
Pensando, in altri termini, “si è non solo” l’io pensato (l’ego o l’oggetto della riflessione), “ma, sempre e insieme,” l’Io pensante (il soggetto della stessa).
Schelling, però, attribuisce la “perenne attività interna” o la “perenne produzione” degli “atti primitivi dell’intelligenza” (ossia dei concetti) all’io (all’ego), quale oggetto della riflessione, e non all’Io, quale soggetto della stessa.
Si noti,  infatti, che il soggetto “pensato” o “intuìto” viene indicato “in primo luogo” come “producente”, mentre quello “intuente” viene indicato come colui che riflette “secondariamente” su tale produrre.
Stando così le cose, sarebbe dunque il soggetto “intuito”, e non quello “intuente”, a pensare  (o a “produrre”).
“Il pensare – osserva tuttavia Steiner – non deve mai venir considerato come un’attività puramente soggettiva. Il pensare è al di là di soggetto e oggetto (…) Non è che il soggetto pensi per il fatto di essere soggetto; bensì esso appare a se stesso come soggetto perché ha la facoltà di pensare (…) Io non posso mai dire che il mio soggetto individuale pensa: esso vive, piuttosto, grazie al pensare” (29).
Come si vede, Steiner parla, non di un soggetto “pensante” o “producente”, ma di un “pensare” o “produrre” dal quale appunto scaturiscono, quali “pensati” o “prodotti”, i due concetti di soggetto e oggetto.
Parlando – come fa Schelling – di un soggetto “intuente” e di uno “intuito”, si rischia perciò di dimenticare che il primo, per il fatto di produrre tanto il concetto del soggetto quanto quello dell’oggetto, esige di essere posto, insieme al pensare o al produrre stesso, al di là di quest’ultimi.
Il “secondario” riflettere del soggetto “intuente” – di cui parla Schelling – non è del resto un pensare? E tale riflettere, quale “secondario” pensare, non chiede forse, a sua volta, di essere prodotto?
Se Schelling avesse ragione, in ogni essere umano si darebbero allora due diverse produzioni: primariamente quella del soggetto “intuito” e “secondariamente” quella del soggetto “intuente”.
Come abbiamo visto, è invece dall’unica e “perenne attività interna” del pensare che scaturiscono tanto il concetto dell’oggetto quanto quello del soggetto. Il soggetto “intuìto”, infatti, non tanto “pensa” quanto piuttosto – come dice Steiner – “vive grazie al pensare”.
All’origine, insomma, vi è un solo atto dell’Io: un atto che, in sé, è unità o sintesi di pensare, sentire e volere. E’ solo a causa della triarticolata organizzazione umana, quindi, che lo stesso viene successivamente a differenziarsi in percepire, pensare e rappresentare.
In ogni caso, tanto il primo che il secondo, all’interno dei rispettivi ambiti, continuano ulteriormente a differenziarsi.
Come l’atto percettivo, infatti, si manifesta in maniera diversa a seconda dell’organo di senso che è chiamato a mediarlo (come “vista”, ad esempio, se mediato dall’occhio, come “olfatto”, se dal naso, o come “udito”, se dall’orecchio), così pure l’atto del pensare si manifesta in maniera diversa a seconda dell’arto o del livello di coscienza che è chiamato a mediarlo (come “intelletto”, per esempio, se mediato dal corpo fisico, come “immaginazione”, se dal corpo eterico e come “ispirazione”, se dal corpo astrale. Superfluo aggiungere che, nell'”intuizione”, non dandosi più alcuna mediazione, l’atto torna infine in sé stesso, e a sé stesso: ovvero, alla sua assoluta “potenza” quale sua assoluta libertà).
Come si vede, abbiamo dunque a che fare, non con diverse “produzioni”, bensì con diversi livelli di manifestazione di un’unica “produzione”: ossia, con un solo “atto” dell’Io che – come vale la pena ripetere – è unità di pensare, sentire e volere.
Nella “tavola delle categorie” della sua Critica della ragion pura,  Kant comprende – com’è noto – la “quantità”, la “qualità”, la “relazione” e la “modalità” (30).
In tal modo, tuttavia, egli parifica – come osserva Semerari – “la categoria di relazione a tutte le altre, facendone una classe particolare di categorie, mentre non è possibile spiegare né la composizione delle singole classi, ove la terza categoria sintetizza la relazione tra le prime due, né il rapporto fra le varie categorie nella unità formale della coscienza se non sul presupposto della primarietà della relazione” (31).
Scrive infatti Schelling: “Se in noi non ci fosse passaggio continuo da rappresentazione a rappresentazione, l’attività spirituale sarebbe spenta” (32); e così esorta: “Diventa consapevole di te stesso, nella tua originaria attività” (33).
La “relazione” (“il passaggio continuo da rappresentazione a rappresentazione”) è per lui dunque “primaria” e identica a quell’”originaria attività” che ha l’Io quale principio o fondamento.
Ma se si distingue il pensare dalle rappresentazioni, dovrebbero anche distinguersi allora i “giudizi”, quali relazioni determinate tra concetti (quali realtà “consolidatesi” in una forma), dall’attività indeterminata e “fluente” del “giudicare” (o del “relazionare”) che li pone e che consente loro di “coagularsi” o di “precipitare” appunto nella forma.
In rapporto al “giudicare” (o al “relazionare”), ci si dovrebbe però domandare: ma questa attività è, in sè, “formale” o “sostanziale”, è “astratta” o ha un “contenuto”? E se è “sostanziale” o ha un “contenuto”, quale è allora la sua natura?
“Profondamente radicata nella coscienza dell’uomo ingenuo – osserva a questo proposito Steiner – è l’idea che il pensare sia astratto, senza alcun contenuto concreto, e che possa tutt’al più fornire una controimmagine “ideale” dell’unità universale, ma non questa stessa. Chi giudica così non ha mai compreso chiaramente che cosa sia la percezione senza il concetto” (34).
Senza il concetto – spiega infatti – la percezione non ci dà che “un aggregato di singole cose senza nesso”: ovvero, un aggregato di singoli oggetti che non hanno, fra loro, alcuna significativa relazione.
Come si vede, Steiner prende qui in considerazione la relazione in quanto “relazione tra gli oggetti” (“Il pensare – dice appunto – è in grado di tirar dei fili da un elemento di osservazione ad un altro”) (35). La stessa, tuttavia, a un previo livello, può essere presa in considerazione in quanto relazione tra i molteplici stimoli e impulsi in cui – come abbiamo mostrato – si articola o suddivide, al momento della percezione, il singolo oggetto.
Senza l’attività del pensare ci sarebbe quindi negato l’accesso, non solo alla relazione tra gli oggetti, ma anche al singolo oggetto.
Se “l’atto conoscitivo – dice ancora Steiner – è la sintesi di percezione e concetto”, ne consegue che “soltanto percezione e concetto di una cosa formano la cosa completa” (36).
Dunque domandiamoci: se la percezione senza il concetto (la forza senza la forma) è, nella cognizione sensibile, il “caos”, cos’è allora, nella cognizione spirituale, il concetto senza la percezione (la forma senza la forza)? E’ – possiamo subito rispondere – quel concetto astratto o formale che l’intelletto considera, non a caso, un semplice “nome”.
Nella cognizione sensibile, abbiamo dunque bisogno di pensare quanto abbiamo prima percepito poichè, senza l’apporto del concetto (“A”), il dato della percezione rimarrebbe del tutto indeterminato (una “X”); in quella spirituale, non abbiamo però alcun dato indeterminato (alcuna “X”), poiché, partendo dal dato concettuale (da “A”), muoviamo da un dato determinato che ha – per così dire – il solo “torto” di darsi all’intelletto (legato al corpo fisico) in modo astratto e formale: ovvero, senza forza e realtà.
A questo livello, si tratta dunque, non di dare forma a una forza, bensì di dare forza a una forma, per arrivare così a sperimentarla come una viva realtà (come un’”entità spirituale”) .
Qui s’impone, però, un’ulteriore domanda: è possibile sperimentare la viva realtà del concetto, se non si è prima sperimentata quella del pensare che lo pone? No, – dobbiamo rispondere – non è possibile. E questo è appunto il limite dell’approccio “filosofico” al problema.
Da Cartesio in avanti, infatti, tirata ora dalla parte del “soggetto” (dai razionalisti, ad esempio, o da Fichte), ora da quella dell'”oggetto” (dagli empiristi, ad esempio, o da Spinoza), e sempre tesa alla ricerca dei “principi primi” o dei “fondamenti ultimi”, la filosofia, quale espressione dell'”anima razionale e affettiva”, non è mai riuscita a dar ragione di quella realtà “eterica” che divide la sfera “astrale” di tali “principi” o “fondamenti” concettuali da quella “fisica” delle “cose”: da quella sola sfera, cioè, in cui l’uomo moderno è in grado, mediante i sensi, di sperimentare la realtà (o – come dice Hegel – la “certezza sensibile”).
Tra la sfera “fisica” (che sta al di qua della “soglia” e alla quale si riferisce il dato percettivo “X”) e quella “astrale” (che sta al di là della “soglia” e alla quale si riferisce il dato concettuale “A”), si situa infatti la sfera “eterica”: proprio quella, ossia, in cui fluisce o si svolge la vivente attività del pensare.
Chiunque intenda risalire dal mondo sensibile a quello sovrasensibile dovrebbe perciò sperimentare in primo luogo tale realtà poiché è appunto questa a mediare (in qualità – come dice Steiner – di “sensibile-sovrasensibile”) tra quella animica (superiore) e quella fisica (inferiore).
A questo livello, ci si trova quindi alle prese, non più con il “naturale” problema di integrare il percepire con il pensare (il volere inconsciente con il pensare cosciente), bensì con quello – per così dire – “innaturale”, di integrare il pensare con il percepire (il pensare cosciente con il volere cosciente).
“Mentre l’osservare oggetti e fenomeni – scrive Steiner – e il pensare sopra di essi sono condizioni quotidiane che riempiono la mia vita mentre si svolge, l’osservare il mio pensare è una specie di condizione eccezionale” (37).
Per realizzare tale condizione “eccezionale”, occorre naturalmente un metodo (o una “tecnica”) altrettanto “eccezionale”. Non quindi una nuova e mera “speculazione”, bensì un’azione interiore sostenuta dalla luce del pensiero e dal calore della volontà.
Chiunque infatti giungesse, in grazia di una spontanea e raffinata sensibilità, a “presentire” o “presagire” tale vivente realtà del pensare, corrererebbe il rischio di una “deriva” irrazionalistica o mistica dell’indagine.
Gentile, ad esempio, pur essendo riuscito a concepire l’atto del pensare come “atto puro”, non è riuscito però a concepire come tale l’atto del percepire (non a caso, Scaligero, muovendo sul terreno della scienza e non della filosofia dello spirito, ha avvertito invece l’esigenza di tracciare – come dice – i “lineamenti di una nuova scienza della percezione” e di fornire, al riguardo, delle precise indicazioni per l’esercizio interiore) (38).
L'”attualismo” di Gentile, a dispetto delle sue pur nobili intenzioni, non ha fatto dunque che approfondire il solco che separa l’indagine filosofica dello spirito da quella scientifica della natura.
Già ai tempi di Goethe – nota in proposito Steiner – si stavano di fronte “senza possibilità di conciliazione una dottrina dei principi, alla quale faceva difetto il contenuto vivente, l’amorevole adesione alla realtà immediata, e una scienza senza principi, priva di contenuto ideale: ciascuna era infeconda per l’altra” (39).
Per superare un tale stato di cose, non basta quindi sovrapporre la “dottrina dei principi” alla “scienza senza principi”, o affiancare alla scienza una “filosofia della scienza”, bensì occorre mettere a punto e seguire una “terza” via: quella, appunto, che Goethe ha cominciato a tracciare con le sue opere scientifico-naturali e che Steiner ha ripreso, sviluppato e reso per di più idonea a un moderno e sano esercizio della ricerca scientifico-spirituale.
Non è un cammino facile. “Il mio scopo – scrive ad esempio Schelling (un pensatore che ha avuto assai a cuore il problema del rapporto tra il sapere filosofico e quello scientifico) – non è di applicare la filosofia alla dottrina della natura. Non posso pensare una occupazione più avvilente che una tale applicazione di principi astratti a una scienza empirica già esistente. Il mio scopo piuttosto è quello di far emergere filosoficamente la scienza naturale. E’ vero che la chimica ci insegna a leggere gli elementi, la fisica gli argenti, la matematica la natura, ma non si può dimenticare che spetta alla filosofia interpretare ciò che è stato letto” (40).
Come si vede, la filosofia e la scienza vengono ancora una volta separate: alla prima viene riservato infatti il compito di “interpretare” a-posteriori ciò che la seconda ha avuto il privilegio di “leggere” a-priori.
Che dire, però, se il problema (soprattutto per quanto riguarda tutto ciò che esorbita dalla sfera inorganica) fosse rappresentato proprio dal modo in cui le scienze naturali “leggono” i fenomeni?
In rapporto a quello del colore, tanto per fare un esempio, cosa dovrebbe fare la filosofia?  Dovrebbe “interpretarlo” nel modo in cui è stato “letto” da Newton o in quello in cui è stato “letto” da Goethe?
Fatto si è che la filosofia, quale dottrina delle “idee senza realtà”, dovrebbe imparare (nonostante appaia “avvilente” agli occhi di Schelling) a “sporcarsi le mani” con la realtà empirica, così come la scienza, quale dottrina della “realtà senza idee”, dovrebbe imparare a lavarsele con l’esercizio critico.
Non si dimentichi, comunque, che il dualismo tra la filosofia e la scienza (tra la “teoria” e la “pratica”) altro non è, in sostanza, che la proiezione sul piano culturale del dualismo che  vige, in ogni uomo moderno, tra il pensare e il volere.
Appunto per questo, però, è impossibile pensare a un superamento dello stesso se non nei termini di una sintesi capace di inverarsi quale nuovo e superiore livello di pensiero o di coscienza.
A conferma di ciò, si può notare che Schelling, allorché tenta di cimentarsi con i concreti fenomeni naturali, non riesce a scorgere alcuna differenza tra la materia e le forze che la muovono.
Per lui, infatti, “la materia – secondo quanto scrive Semerari – era le sue stesse forze, le forze erano il modo di articolarsi e di esprimersi della natura” (41).
Ecco, quindi, che l’autonoma realtà della sfera eterica (quella delle forze che mediano tra le “sostanze” e le “qualità”) viene ancora una volta disconosciuta (42).
Al di qua della “soglia”, la “scienza senza principi” – per riprendere le parole di Steiner – aderisce dunque alla “realtà immediata”, ma in modo rozzo o grossolano, e quindi tutt’altro che “amorevole”, mentre, al di là della “soglia”, la filosofia, in quanto “dottrina dei principi”, se ne sta superbamente o narcisisticamente arroccata sulle vette dei mondi superiori.
Se Goethe è pertanto – come dice Steiner – “il Copernico del mondo organico”, Steiner stesso è allora il Goethe del mondo del pensiero: ovvero, colui che ha non solo scoperto e rivelato il pensiero eterico (o l’etere del pensiero), ma anche messo a punto una “via” o un metodo per giungere a sperimentarne la realtà.
Concludendo, desideriamo perciò invitare quanti conoscono la scienza dello spirito a meditare sull’intimo nesso che lega questo particolare aspetto del suo insegnamento e della sua missione a quell’evento annunciato – da Steiner – quale “ritorno del Cristo” nel mondo eterico.

Note:

01)         R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano, 1969, p.15;

02)     Ibid., pp.26-27;

03)         R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano, 1966, p.74;

04)     Ibid., p.82;

05)     Ibid., p.52;

06)         R.Steiner: Massime antroposofiche, p.194;

07)         F.W.J.Schelling: Sistema dell’idealismo trascendentale – Laterza, Roma-Bari, 1990, p.33;

08)         R.Steiner: Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, p.58;

09)         R.Steiner: Una fisiologia occulta – Antroposofica, Milano, 1981, p.131;

10)         A.Capone: Chimica generale inorganica e organica – Palumbo, Palermo, 1965, p.54;

11)     Ibid., p.42;

12)         R.Steiner: La filosofia della libertà, p.89;

13)         G.W.F.Hegel: Scienza della logica – Laterza, Roma-Bari, 1974, vol 1°, p.26;

14)         G.W.F.Hegel: Enciclopedia delle scienze filosofiche – Laterza, Roma-Bari, 1989, p.108;

15)         R.Steiner: Massime antroposofiche, p.204;

16)         R.Steiner: La filosofia della libertà, p.28;

17)     Ibid., p.29;

18)         F.W.J.Schelling: Op. cit., p.7;

19)         R.Steiner: Il mondo dei sensi e il mondo dello spirito – Antroposofica, Milano, 1970, p.34;

20)         F.W.J.Schelling: Op. cit., p.78;

21)     Ibid., p.79;

22)         R.Steiner: La filosofia della libertà, p.30;

23)     Cfr. Le nozze chimiche di Christian Rosenkreuz – Atanòr, Roma, 1975;

24)         R.Steiner: La filosofia della libertà, pp.89-90;

25)         R.Steiner: L’arte dell’educazione, vol.1°, Antropologia – Antroposofica, Milano, 1993, pp.130-131-132;

26)     Ibid., p.133;

27)     Ibid., pp.133-134;

28)         F.W.J.Schelling: Op. cit., pp.20-21;

29)         R.Steiner: La filosofia della libertà, pp.50-51;

30)         I.Kant: Critica della ragion pura – Laterza, Bari, 1966, vol.1°, p.114;

31)         G.Semerari: Introduzione a Schelling – Laterza, Roma-Bari, 1996, p.40;

32)     Ibid., p.57;

33)     Ibid., p.41;

34)         R.Steiner: La filosofia della libertà, pp.78-79;

35)     Ibid., p.52;

36)     Ibid., p.77;

37)     Ibid., p.33;

38)     Cfr. M.Scaligero: Lineamenti di una nuova scienza della percezione in La logica contro l’uomo – Tilopa, Roma, 1967, p.162 e Percepire puro in Manuale pratico della meditazione – Teseo, Roma, 1973, p.45;

39)         R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova, 1988, p.6;

40)         G.Semerari: Op. cit., p.59;

41)     Ibid., p.60;

42)     Un esempio dei risultati cui può giungere una scienza non soltanto “quantitativa” della natura, ci è fornito da R.Hauschka: La natura della sostanza – Antroposofica, Milano, 1991.

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Di Francesco Giorgi
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