Reddito e lavoro

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L’odierna discussione sulle modifiche dello “Statuto dei lavoratori”, e in specie del suo articolo 18, offre una buona occasione per tornare brevemente a riflettere sul rapporto tra il lavoro (dipendente) e il reddito (salariale).
Cosa sta infatti accadendo? Che lo sviluppo della vita economica, rendendo il lavoro sempre più “mobile” e “flessibile” (in “entrata” – come si usa dire – e in “uscita”), sta mettendo di fatto a repentaglio la “sicurezza” del reddito e per ciò stesso la vita dei lavoratori.
“Da Dahrendorf a Gorz – notano Marco Bascetta e Giuseppe Bronzini – il tema che diventa predominante non è più l’ineguaglianza, ma l’esclusione sociale. La riduzione della giornata lavorativa sociale fa del lavoro un bene scarso, indisponibile per tutti; la politica di flessibilizzazione dei rapporti lavorativi rende, poi, questo bene, per i “privilegiati” che ancora ne godono, anche precario e instabile” (La democrazia del reddito universale – Manifestolibri, Roma 1997, p.9).
Poiché tale sviluppo non può essere ostacolato se non al prezzo di una perdita di competitività (soprattutto internazionale) delle aziende, cosa si può fare allora per evitare che la vita economica comporti la mors di gran parte dei lavoratori?
C’è chi ritiene (e sono i più) che questo problema, ferma restando l’attuale dipendenza del reddito dal lavoro, possa essere risolto dagli “ammortizzatori sociali” (sul tipo del “prepensionamento” o della “cassa integrazione”), e chi crede invece (e sono i meno) che sia giunto il momento di sganciare il primo dal secondo e d’istituire un “reddito di cittadinanza” (un “reddito minimo garantito” quale “diritto civile”) (ibid., p.10).
Orbene, è vero che l’attuale evoluzione della vita economica imporrebbe di rendere la “retribuzione indipendente dalla prestazione lavorativa” (ibid., p.24), ma non è detto che ciò possa avvenire nella sola e semplicistica forma di un “reddito di cttadinanza” cui peraltro avrebbero “astratto” diritto tanto i ricchi che i poveri. Occorrerebbe piuttosto cominciare a pensare diversamente il problema e a operare, innanzitutto, una netta distinzione tra il lavorare o il produrre (“attività” non mercificabile) e il lavorato o il prodotto (“cosa” mercificabile).
Scrive in proposito Steiner (e siamo – si badi – nel 1919): “La questione del lavoro, nel suo vero aspetto, non si potrà mai giustamente inserire nella questione sociale finché non si vedrà come, nella vita economica, la produzione, lo scambio e il consume di merci si svolgano secondo leggi che vengono determinate da interessi ai quali non è lecito estendere il proprio dominio alla forza del lavoro. Il pensiero moderno non ha imparato a scindere tra loro le maniere del tutto diverse in cui da un lato s’inserisce nella vita economica l’energia di lavoro che è legata all’uomo, e dall’altro, quel che, secondo la sua origine e indipendentemente dall’uomo, segue le vie che la merce deve prendere dalla produzione al consumo” (I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980, p.43).
Un conto, dunque, è che Tizio paghi Caio e Sempronio perché questi, destinandogli per un certo periodo di tempo la propria forza-lavoro, lo aiutino a realizzare un determinato prodotto, altro è che Tizio, Caio e Sempronio si accordino (con un libero contratto) per realizzare tale prodotto e per poi ripartire, tra loro (in modo uguale o diverso), il ricavato (netto) della sua vendita (il profitto).
Nel primo caso, infatti, Tizio acquista il “produrre” (la forza-lavoro) di Caio e di Sempronio come si acquista una merce (al “mercato del lavoro”) e ricava poi il suo vantaggio dalla vendita di ciò che tutti e tre hanno “prodotto”; nel secondo, invece, Tizio stabilisce con Caio e Sempronio un libero rapporto “giuridico” che, oltre alle modalità del loro “produrre”, prefigura pure la ripartizione del vantaggio “economico” derivante dalla vendita del loro “prodotto” (cosa diversa dalla semplice “compartecipazione agli utili”).
“Qui si mira – precisa per l’appunto Steiner – a sostituire al salario condizioni contrattuali di spartizione dei frutti delle comuni prestazioni fra il datore di lavoro e il lavoratore, in connessione con tutto l’ordinamento dell’organismo sociale” (ibid., p.104). Il che vuol dire: con un “ordinamento dell’organismo sociale” che si sia già avviato sulla strada di una propria “triarticolazione”; con un “ordinamento”, ossia, che tenda sempre più a inverarsi nella libera interrelazione tra un’autogestita organizzazione culturale (o “spirituale”), un’autogestita organizzazione politica (o “giuridica”) e un’autogestita organizzazione economica (“Si crede – nota al riguardo Steiner – che gli uomini possano conseguire l’unità di vita in una comunità soltanto quando l’unità le sia imposta mediante un regolamento. Ma la realtà della vita esige invero l’opposto. L’unità deve nascere come un risultato; le attività concorrenti da diverse direzioni devono da ultimo formare un’unità”) (ibid., p.93).
Non c’è altra via, del resto, che possa condurre a una effettiva “antropocrazia”: vale a dire, a un “sistema” in cui “l’organismo economico – come dice Steiner – sia dipendente dall’uomo e non l’uomo dall’ordinamento economico” (ibid., p.61).
Lo stesso scrive infatti: “La maniera e la misura in cui un uomo ha da lavorare per la sussistenza dell’organismo sociale devono essere regolate secondo la sua capacità e secondo ciò che è condizione di un’esistenza degna dell’uomo. Il che può avvenire soltanto se questo regolamento viene emanato dalle Stato politico indipendentemente dalle amministrazioni della vita economica” (ibid., p.60).
Ma non ci s’illuda. Niente di tutto ciò sarà possibile finché non si darà un rinnovamento degli attuali pensieri e sentimenti sociali: finché non si darà, cioè, un rinnovamento della vita culturale. Se è vero, infatti, che quanto è follia agli occhi degli uomini è saggezza agli occhi di Dio, non meno vero è allora che quanto appare “utopico” agli occhi dell’ordinaria coscienza rappresentativa (intellettuale) appare invece “realistico” a un livello di coscienza in grado di osservare e comprendere quanto, dalle profondità della vita dell’anima, chiede di essere portato alla luce e realizzato. Osserva appunto Steiner: “Il tragico errore, riguardo all’incomprensione delle rivendicazioni sociali contemporanee, sta nel fatto che in molti ambienti non si ha il minimo senso di quel che ora, dalle anime di larghe masse umane, affiora alla superficie della vita, e che si è incapaci di dirigere lo sguardo a quanto avviene veramente nell’intimo degli uomini (ibid., p.33).
Si tenga ben presente che senza un simile rinnovamento della vita culturale l’idea stessa di una “triarticolazione dell’organismo sociale” rischia di venire gravemente fraitesa. Essa vuol essere infatti, non una statica e utopica “rappresentazione” (un “modello”) di “società perfetta”, bensì un’idea-guida atta a dare un orientamento sempre più umano (o sempre meno disumano) al paziente processo di trasformazione del reale (ovvero, – direbbe Croce – all'”arte del possibile”).
Chiudendo questa breve nota, riteniamo perciò utile, per tornare al rapporto tra il reddito e il lavoro, proporre un’ultima riflessione su queste ulteriori affermazioni di Steiner: “Si tratta del fatto che in ultima analisi il moderno ordinamento economico capitalistico non conosce nel suo campo null’altro che merci, e la formazione dei valori di queste merci; e che, nell’organismo capitalistico dei nostri tempi, è diventato merce anche un fattore del quale il proletariato d’oggi ha il sentimento che merce non può e non deve essere. Quando una volta si comprenderà tutto l’orrore che, come uno degli impulsi fondamentali del movimento sociale proletario moderno, vive negli istinti, nei sentimenti subcoscienti dell’operaio d’oggi, per dover vendere la sua energia di lavoro all’imprenditore come si vendono le merci sul mercato, e perché, sul mercato della mano d’opera, la sua energia di lavoro si contratti, secondo la domanda e l’offerta, come le merci del mercato; quando si scoprirà quale importanza abbia nel movimento sociale questa esecrazione per il lavoro ridotto a merce; e, senza preconcetti, si riconoscerà che quanto è qui in gioco non viene espresso nemmeno dalle teorie socialiste, allora, in aggiunta al primo impulso, cioè alla vita spirituale sentita come ideologia, si sarà trovato il secondo, del quale si può dire che rende oggi la questione sociale imperiosa, anzi addirittura scottante” (ibid., p.41).

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Di Francesco Giorgi
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