La società: “aperta”, ma non troppo

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La lettura di due articoli dedicati a Karl Popper da Anacleto Verrecchia e Renato Cristin (Il Giornale, 28 luglio 2002), ci ha ricordato il seguente e gustoso aneddoto, riportato da Camillo Albanese, nel suo Un uomo di nome Benedetto (E.S.I., Napoli 2001, p.59): “Parlando della rivista letteraria La Ronda, Croce così si espresse: – E’ un circolo in cui, quando due s’incontrano, l’uno dice “io sono impotente”, e l’altro, stendendogli la mano: “Anch’io”, e si congratulano l’uno con l’altro”.
Proveremo a chiarirne il perché, esaminando brevemente due delle più note e importanti idee di Popper: quella del “falsificazionismo” e, soprattutto, quella della “società aperta”.
“Non ci è possibile – scrive Dario Antiseri, illustrando il principio falsificazionistico di Popper – verificare, dimostrare o fare vera una teoria; ma ci è possibile dimostrarne la falsità, falsificarla. Una teoria è scientifica se è falsificabile: una teoria per poter essere vera, deve poter essere anche falsa” (introduzione a K.Popper: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza – il Mulino, Bologna 2000, p.8).
“Anche la nostra miglior conoscenza – dice infatti lo stesso Popper – è una conoscenza provvisoria e congetturale” (Tre saggi sulla mente umana – Armando, Roma 1994, p.27).
D’accordo, ma domandiamoci: tale principio falsificazionistico è o non è falsificabile? E’ o non è, ossia, una “congettura” come tutte le altre? Ben si comprende che sarebbe importante stabilirlo poiché è evidente che se lo è, lo si può tranquillamente trascurare, e se non lo è, si annulla immediatamente da sé.
La cosa tuttavia c’interessa, più che su quello logico, sul piano psicologico. E’ su questo, infatti, che speriamo si chiarisca il perché ci sia tornata alla mente la battuta di Croce.
“La ricerca della verità – afferma quest’ultimo – è necessaria, è doverosa ogni qualvolta si debba pronunciare un giudizio, è una via obbligatoria per l’affermazione o la negazione (…) Compito dell’intellettuale è quello di essere intransigente sui principi, testimoniare comunque e in ogni caso la verità e l’esercizio della virtù attiva” (C.Albanese: op.cit., pp.69 e 87).
Ebbene, dando per scontato – come osserva ancora Croce – che “l’uomo ha sempre nuovi problemi di verità da risolvere che gli vengono dalla storia, e la storia è sempre in moto” (ibid., p.119), qual’è quell’intellettuale che, nel momento stesso in cui si accinge a ricercare la verità o a darle testimonianza, si preoccupa che tale verità dia garanzie di poter essere falsificata? Di certo, un intellettuale che si sente, non solo insicuro di essere animato da autentico spirito “scientifico” (o “di verità”), ma addirittura spaventato all’idea di stabilire un legame con una realtà della quale teme (e spesso a ragione) di non saper fare buon uso (essendo gli intellettuali ormai adusi a non esercitare più la “virtù attiva”).
Quale uomo, ad esempio, nel momento stesso in cui si accinge a dichiarare il proprio amore a una donna, si preoccupa di poterla cambiare con un altra? Appunto un uomo che non ama davvero, e che è spaventato dalle responsabilità che comporta la sua scelta.
“In che modo – si chiede Popper – possiamo sperare di scoprire e di eliminare l’errore?”. (op. cit. p.84) Ma è semplice: amando la verità. L’amore per la verità (quale “movente positivo”) implica infatti la falsificabilità, mentre quello per la falsificabilità (quale “movente negativo”) non implica la verità. Ma può l’amore per la verità scaturire da un soggetto (da un Io) che non sia “vero”: che non sia, cioè, quel soggetto (quell’Io) che crede e dice di essere? Ovvero, può una falsa coscienza dell’Io amare la verità? O non amerà piuttosto, in quanto falsa coscienza del soggetto, una falsa coscienza dell’oggetto? Ma qual è oggi questa falsa coscienza dell’Io? Quella che identifica – come fanno i soggettivisti (idealisti) – l’Io con la psiche, quella che identifica – come fanno gli oggettivisti (materialisti) – l’Io con il corpo, e quella di quanti si barcamenano, in un modo o nell’altro, tra queste due opzioni.
Da questo punto di vista, un principio come quello di Popper, in quanto animato dallo spirito che “nega” (dal Beffardo goethiano), può anche aiutare a scoprire il falso in quello che viene presentato come vero; mai potrà aiutare, però, a scoprire il vero in quello che viene presentato come falso: a scoprire, ad esempio, a fondamento dell’ego (vale a dire, dell’Io identificato narcisisticamente con la psiche o egoisticamente col corpo), un Io spirituale.
In ogni caso, il problema della natura dell’Io ci consente già di passare dalla questione del “falsificazionismo” a quella della “società aperta”.
Tra i cosiddetti “nemici” della “società aperta”, Popper annovera – com’è noto – Platone ed Hegel. Orbene, se l’accusa di “totalitarismo” mossa alla visione politica di Platone (427-347 a.C.) è del tutto astratta, in quanto prescinde dal contesto storico-evolutivo in cui nasce (siamo infatti agli albori della fase di sviluppo dell'”anima razionale e affettiva”), quella mossa alla visione di Hegel (1770-1831) è invece più appropriata poiché ci troviamo, in questo caso, al cospetto di una concezione che, nell’epoca dell'”anima cosciente”, subordina (collettivisticamente) le ragioni dell’individuo a quelle trascendenti dello Spirito, dell’Idea o, politicamente, dello Stato.
Non per nulla, Steiner conclude La filosofia della libertà con queste parole: “Questo libro non concepisce perciò il rapporto fra scienza e vita nel senso che l’uomo debba piegarsi all’idea e consacrare le proprie forze al suo servizio, ma nel senso che egli debba impadronirsi del mondo delle idee per adoperarlo per i propri fini umani, i quali vanno al di là di quelli puramente scientifici. Dobbiamo poterci mettere di fronte all’idea in modo vivente; altrimenti si diventa schiavi di essa” (Antroposofica – Milano 1966, p.230).
Tuttavia, per potersi “mettere di fronte all’idea in modo vivente” (e quindi dominarla), occorre prima mettersi “in modo vivente” di fronte al “pensare”. Ancora Steiner scrive infatti: “Debbo attribuire particolare valore al fatto che qui, a questo punto, si faccia attenzione che io ho preso come punto di partenza il pensare, e non i concetti e le idee, che soltanto mediante il pensare possono essere conquistati, e quindi presuppongono già il pensare. Perciò non si può applicare senz’altro ai concetti quello che ho detto riguardo alla natura del pensare, il quale non poggia che su se stesso, non è determinato da nulla. (Faccio espressamente questa osservazione perché in ciò consiste la mia differenza da Hegel: egli pone infatti il concetto come elemento primo e originario)” (ibid., pp.48-49).
Ciò significa dunque che l’ego, vale a dire l’ordinario e inerte soggetto pensato (rappresentato), avrebbe la possibilità di sviluppare, in qualità di vivo soggetto pensante (e percipiente), una superiore coscienza di sé, e affrontare quindi, conoscendo, i dati ideali (i concetti) e quelli reali (i percetti), da pari a pari: ovverosia, da essere spirituale a essere spirituale.
Il mio “idealismo oggettivo – spiega appunto Steiner – si distingue dall’idealismo assoluto, metafisico di Hegel, perché cerca nello stesso soggetto della conoscenza la ragione della scissione della realtà in essere dato e concetto, e vede la mediazione tra i due, non già in un’oggettiva dialettica universale, ma nel soggettivo processo conoscitivo” (Verità e scienza in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, pp.128-129)
Se la grandezza di Hegel è dunque quella di un “teosofo” o di un “mistico del pensiero”, la grandezza di Steiner è invece quella di un “antroposofo” o di uno “scienziato dello spirito”. Popper, tuttavia, non apprezza quella del primo e ignora quella del secondo. “Molti dei miei amici – scrive infatti – mi hanno criticato per l’atteggiamento che ho assunto nei confronti di Hegel e per la mia incapacità di vederne la grandezza. Essi, naturalmente, avevano senz’altro ragione, dato che io ero proprio incapace di vederlo. (E lo sono tuttora)” (Contro Hegel – Armando, roma 1997, p.58). C’è comunque da dubitare della sincerità (ma anche della serenità e del buon gusto) di una persona che, da un lato, si dichiara incapace di vedere la grandezza di un’altra e, dall’altro, si dà a insolentirla, tacciandola (a imitazione di Schopenhauer) di millanteria, ciarlataneria, clownismo e tribalismo (anche Nietzsche, d’altronde, – stando a quanto riferisce Verrecchia – non sarebbe, per Popper, che “un povero diavolo” incapace, oltretutto, di scrivere delle poesie migliori delle sue). La verità è un’altra: Popper capisce soltanto l’Hegel “politico” ed è perciò incapace di cogliere, in questo, il necessario riflesso del fallace rapporto stabilito dall’Hegel “metafisico” tra la viva realtà del pensare e quella dei concetti e delle idee o, meglio ancora, tra la realtà dell’Io e quella dell’Idea.
Prima di porsi il problema di una società “aperta”, bisognerebbe dunque porsi quello di un essere umano “aperto”, in quanto l’ego, e nella sua versione psichica e in quella corporea, è piena espressione di un essere umano “chiuso”. Popper – come ricorda Cristin nel suo articolo – distingue, sì, tre diversi livelli di realtà, “il mondo fisico naturale, quello psichico soggettivo e quello spirituale oggettivo”, ma non ha il coraggio di parlare di corpo, anima e spirito, né tantomeno di vedere, nei primi due, degli arti costitutivi dell’uomo e, nel terzo, la sua essenza (l’Io).
La “società aperta” che propone lascia quindi perplessi, non in quanto “aperta”, ma in quanto solo – per così dire – “socchiusa”. Per metà è infatti “aperta” e per metà è invece chiusa”: “chiusa”, ragionevolmente, a coloro che vorrebbero in modo totalitario serrarla, ma anche, irragionevolmente, a coloro che vorrebbero “aprirla” del tutto.
Qualcuno riesce forse a immaginare una società più “aperta” di quella prefigurata da Steiner con la “triarticolazione dell’organismo sociale”?
In realtà (e non suoni offesa), quella di Popper è un’anima “tremebonda” (o – direbbe appunto Croce – “impotente”) che guarda con costante diffidenza e apprensione (e per ciò stesso talvolta reagendo – come abbiamo visto – in modo aggressivo) a quanto proviene idealisticamente (lucifericamente) dall’alto, o dalla parte dello spirito (penso – confessa appunto – “che le idee siano cose pericolose e potenti” – Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, p.44), ma assai meno a quanto proviene materialisticamente (arimanicamente) dal basso, o dalla parte del corpo (ancor più “tremebonde” o “impotenti”, del resto, sono tutte quelle anime che – a detta sempre di Cristin – hanno fatto di Popper “un’icona a cui ricorrono tutti coloro che hanno bisogno di legittimare una qualsiasi banalità sulla società liberaldemocratica, la libertà di pensiero o la validità della scienza”).
Sarà forse bene ricordare, a questo proposito, che la “triarticolazione dell’organismo sociale” proposta da Steiner prevede la libera e incessante interazione di tre autonome organizzazioni: quella culturale (o spirituale), quella politica (o giuridica) e quella economica (cosìcché l’unità di tale organismo rivesta i caratteri di una “risultante”, e non di un “presupposto”).
Orbene, allorché Popper denuncia l’hegelismo come “un’apologia del prussianesimo” (Contro Hegel, p.29), altro non fa che denunciare un sistema nel quale la vita culturale è resa schiava di quella politica. Un sistema, vale a dire, tipico delle “teocrazie” o, più modernamente, delle “ideocrazie” (come quelle del comunismo, del fascismo e del nazismo). In un sistema del genere, allo Stato di diritto (fiore all’occhiello della tradizione liberale) viene infatti a sostituirsi lo Stato etico (o totalitario). Popper difende dunque, e opportunamente, lo Stato di diritto ( o – come pure è stato detto – “minimo”), senza però avvedersi che tale Stato, per poter essere realmente tale, ha innanzitutto bisogno di essere reso istituzionalmente indipendente tanto dagli interessi culturali che da quelli economici; senza avvedersi, in altri termini, che l’organizzazione politica (o giuridica) autonoma (o autogestita) prevista da Steiner sarebbe l’unica in grado di realizzare l’ideale del puro Stato di diritto tanto caro ai liberali. E’ vero, infatti, che difendendosi dai “nemici della società aperta” ci si difende (nell’anima) dai totalitarismi provenienti dalla sfera culturale (o dello spirito), ma non meno è vero che non ci si difende affatto – come dimostra l’attuale e imperante liberismo – da quelli provenienti dalla sfera economica (o del corpo).
In nome dello Stato di diritto, si tiene in tal modo a bada lo Stato etico, ma non ci si accorge che, nel frattempo, lo Stato di diritto si è venuto trasformando nello Stato azienda, e quindi in un’organizzazione totalitaria di carattere, non più culturale o spirituale, bensì economico.

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Di Francesco Giorgi
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