Nella nota: Il denaro “sterco del demonio” (25 febbraio 2002), dedicata all’omonimo libro di Massimo Fini, avevamo brevemente trattato (in specie ai punti 20 e 25) della proposta avanzata da Steiner, ne I capisaldi dell’economia (1), d’istituire una periodica scadenza del denaro al fine di renderlo deperibile come i beni che, in una sana economia, dovrebbe limitarsi a rappresentare.
Ebbene, la Repubblica (8 novembre 2002) presenta adesso – in prima pagina e a firma di Federico Rampini – un articolo (titolato: Il dollaro con data di scadenza) che così si apre: “Dalla crisi ci salverà una banconota deperibile, il dollaro con data di scadenza? E’ il biglietto verde con una banda magnetica incorporata, che ne fa diminuire il valore via via che il proprietario lo conserva: vale 100 dollari all’inizio, 99,9 dopo una settimana, 99,8 dopo due e così via. Si tratta, in sostanza, di un potente incentivo a spendere e consumare per rilanciare l’economia. La banconota deperibile non esiste ancora. Ma la sua introduzione è stata evocata seriamente dagli economisti della Federal Reserve, la Banca centrale americana, alle prese con lo spettro della deflazione. Con altrettanta serietà il Wall Street Journal le ha dedicato l’apertura della sua prima pagina”.
L’idea di Steiner (ma anche, per la verità, di Silvio Gesell e di Ezra Pound) ha ottenuto dunque l’avallo degli economisti della Federal Reserve.
La cosa non ci fa però gran piacere. E non ce lo fa, per due ragioni. In primo luogo, perché un conto è l’idea (in quanto tale), altro lo spirito che la anima (e del quale è al servizio). E se lo spirito (cristico) che animava Steiner era già diverso da quelli che muovevano Gesell e Pound, non è difficile immaginare quanto più lo sia da quello cui s’ispirano gli economisti della Banca centrale americana. In secondo luogo, perché è assai probabile che tale idea, avendo ottenuto l’imprimatur della Federal Reserve, cessi d’improvviso di essere rigettata, se non addirittura irrisa o sbertucciata, da quanti avevano avuto già modo di conoscerla. Il che ci renderebbe tutt’altro che lieti in quanto costituirebbe un ulteriore prova di quanto i giudizi degli uomini attuali dipendano ancora da quelli dell’autorità (del “conscio collettivo”, direbbe Jung), e di quanto poco il loro pensiero sia perciò libero, critico e spregiudicato (individuale).
Si tenga altresì conto che l’idea della scadenza del denaro rientra – nella visione di Steiner – in quella dell’organismo sociale triarticolato. E come dimostrano gli economisti della Banca centrale americana, che vorrebbero servirsene per incentivare le spese e i consumi, espiantarla da tale organismo (nel quale sono triarticolate le “funzioni” dello Stato) per impiantarla in quello attuale (nel quale sono triarticolati i “poteri” nello Stato), comporta inevitabilmente un’alterazione della sua funzione e del suo scopo.
Fatto si è che per ben pensare l’idea della scadenza del denaro, occorre ben pensare quella dell’organismo sociale triarticolato (cioè, la realtà di quell’insieme del quale la prima non è che un organo o un arto). Ci viene da pensare, a questo proposito, che Paolo Sarpi, allorché scrisse (tra il 1578 e il 1597) L’arte di ben pensare (2), mai avrebbe immaginato che si sarebbe un giorno arrivati a definire “ben pensante”, non un èmulo di tale “arte”, bensì un conformista o un codino. Ci viene da pensarlo poiché vorremmo chiederci, restituendo a tale termine il suo significato letterale, se le sempre più numerose persone di “buona volontà” che oggi si dedicano alle attività sociali, siano anche di “buon pensiero” o appunto “ben pensanti”. Ci rendiamo conto – sia chiaro – che rischiamo, per il solo fatto di porre un interrogativo del genere, di essere scambiati per dei “criticoni”, e quindi per dei soggetti che trascurano o ignorano l’esercizio della “positività”. Ma “l’apparenza – com’è noto – inganna”. Una cosa, infatti, è il sentire critico (vale a dire, l’antipatia, di cui magari ci si compiace), altra il pensare critico. E quest’ultimo – come ben sa chi frequenta l’”alta scuola” dell’antroposofia – lo si esercita sempre a malincuore. Essendo questa, d’altronde, un’epoca in cui il “fare” (il volere) ha preso un pernicioso sopravvento sul “pensare”, non ci sembra affatto fuori luogo richiamare l’attenzione sulla necessità che al “fate-bene-fratelli” si accompagni un “pensate-bene-fratelli”. “Per la vita sociale – sostiene addirittura Steiner – il problema del pane è un problema di pensiero” (3). Tale necessità è naturalmente tanto maggiore quanto più vasti e ambiziosi sono gli obiettivi sociali perseguiti, e dovrebbe essere pertanto massima per coloro che si dicono impegnati a creare un “mondo migliore”. Com’è possibile, infatti, creare un “mondo migliore” se non si sa pensare il mondo in “modo migliore”? E sanno forse pensarlo in modo migliore quanti si ispirano (come ad esempio gran parte dei “no-global”) alle infinite varianti di un marxismo riveduto e corretto, al Cattolicesimo o a qualunque altra “dottrina” occidentale od orientale? Quanti non hanno ancora capito, ossia, che urge non tanto pensare cose nuove, quanto pensare in modo nuovo le cose?
“Ampie cerchie dell’umanità – afferma appunto Steiner – sono incapaci di pensare all’organismo sociale vivente (…) Oggi è difficilissimo chiarire alla gente che occorre un pensiero nuovo, nuovissimo, aderente alla realtà (…) Il punto non è solo conoscere qualcosa grazie alla scienza dello spirito, ma trasformare, cambiare il nostro pensiero grazie ad essa” (4); e aggiunge: “Chi considera la scienza dello spirito come una somma di nozioni, potrà naturalmente conoscere moltissime cose, ma se penserà allo stesso modo di prima non avrà accolto la scienza dello spirito. Avrà accolto la scienza dello spirito soltanto se in certo senso avrà modificato il modo, la formazione, la struttura del pensiero; se, rispetto a prima, sarà diventato per così dire un altro” (5).
Sarebbe opportuno tenere presenti queste parole, in quanto abbiamo l’impressione che anche quei pochi (almeno in Italia), il cui impegno sociale si richiama esplicitamente alla scienza dello spirito, non sempre abbiano chiara consapevolezza – essendo abituati a ragionare, come tutti, in chiave di “programmi” – che l’organismo sociale triarticolato è un “processo”, e non una “cosa”.
Il punto – spiega infatti Steiner – non è “fare programmi” (6) o “pensare a come debba strutturarsi l’organismo sociale” (7), poiché quello triarticolato, “per chi lo consideri a fondo, rappresenta qualcosa che può scaturire dalle strutture statali odierne, senza alcun dubbio o timore, nel pieno riconoscimento e rispetto di tutti i diritti storici e delle condizioni di fatto. E’ dunque naturale che su quanto va così realizzato ci si astenga dai particolari. Negli impulsi che vengono pensati in modo realmente pratico, i particolari emergono nel corso dell’attuazione. Solo l’utopista può escogitare fino al dettaglio, e perciò le sue costruzioni, scaturite da un pensiero astratto, sono anche irrealizzabili” (8). Il problema – spiega ancora – non è quello d’inventarsi, ad esempio, “il sistema fiscale migliore, ma lavorare alla triarticolazione. Quando poi essa si realizzerà sempre più, dalla sua stessa attività si verrà a creare il miglior sistema fiscale. Occorre realizzare le condizioni sotto cui si sviluppano le migliori direttive sociali. Il punto non è infatti di pensare che uno qualsiasi, almanaccando, trovi l’idea migliore, perché non è assolutamente realistico” (9).
L’organismo sociale triarticolato non è dunque un “sistema” (magari “complesso”) del quale possano essere forniti in anticipo i “dati” o i “dettagli” tecnici, né un problema che si presti a essere affrontato e risolto in termini di “ingegneria sociale”, e neppure un “modello” o “progetto” che abbia qualcosa a che vedere con quelli de La repubblica di Platone, dell’Utopia di Tommaso Moro o de La città del sole di Campanella. Tale organismo, insomma, non è un “fatto” (da pensare in modo statico, morto o “rappresentativo”), bensì un “farsi” (da pensare in modo dinamico, vivente o “immaginativo”).
Cosa si dovrebbe fare, dunque, per favorirlo, e per creare quindi “le condizioni – come dice Steiner – sotto cui si sviluppano le migliori direttive sociali”? Si dovrebbe realizzare, innanzitutto, che l’organismo sociale triarticolato deve essere non tanto “creato”, quanto piuttosto aiutato a nascere o a venire alla luce. Infatti, l’attività spirituale o culturale, l’attività politica o giuridica e quella economica già operano nell’odierna struttura sociale, ma vi operano in modo caotico, come fili di una matassa “imbrogliata” (e generante, perciò, costanti “conflitti d’interesse”). Ove si realizzasse questo, non si faticherebbe allora a capire che ciò che più serve, per rimediare a quella che Steiner definisce addirittura una “decadenza triarticolata” (10), è un sagace e paziente impegno a “sbrogliare” tale matassa, individuando di volta in volta (e in virtù delle diverse competenze) i principali nodi da sciogliere, per rendere le tre attività sempre più libere, autonome e indipendenti (dedicando in primo luogo attenzione a tutto ciò che può servire a emancipare la vita culturale – che abbraccia non solo la scuola, la scienza, l’arte e la religione, ma anche il diritto civile e penale – dalla tutela di quella politica e di quella economica). Nella “nota esplicativa” che segue il primo dei suoi due memorandum, Steiner scrive infatti: “Questa esposizione non chiede affatto che si compia qualcosa, ma si limita a mostrare quanto già preme per compiersi, e che vi riuscirebbe nell’istante stesso in cui gli si desse via libera” (11). Più che impegnarsi a “fare” delle cose, bisognerebbe dunque battersi per rimuovere gli ostacoli che impediscono alle cose di “farsi” da sé. Occorre “produrre le condizioni – afferma per l’appunto Steiner – che consentano (all’organismo sociale vivente) di formarsi da sé” (12). In termini politici, una strategia del genere la si potrebbe definire, volendo, “riformista”. “Molti credono – avverte tuttavia Steiner – che la triarticolazione intenda capovolgere il mondo. Certamente no! Il mondo è già capovolto e la triarticolazione vuole soltanto rimetterlo in piedi” (13); bisogna perciò guardarsi, nel servire tale idea, “dallo spogliarla di ciò che ha di radicale” (14). Si tratta dunque di un “riformismo” che deve valere come “mezzo”, ma non come “fine” (lo scioglimento di uno solo dei nodi che stringono e limitano il libero sprigionarsi dei talenti individuali equivale infatti alla caduta del proverbiale sassolino da cui nasce la valanga), e che esige d’essere costantemente orientato, illuminato e ispirato dall’idea o dalla “stella” dell’organismo sociale triarticolato (e non “tripartito”, come Steiner stesso sottolinea) (15).
Tale idea, infatti, è in primo luogo un’intuizione (un impulso morale), in secondo luogo un’ispirazione (una realtà qualitativa) e in terzo luogo un’immaginazione (un processo o un divenire). Ed è a quest’ultimo suo aspetto che si riferisce Steiner quando parla, ne La filosofia della libertà, della “fantasia morale”.
“L’azione dell’uomo – scrive infatti – non crea percezioni, ma trasforma quelle già esistenti, dà loro un nuovo aspetto. Per poter trasformare conformemente ad una rappresentazione morale un determinato oggetto di percezione, o un complesso di tali oggetti, bisogna aver compreso la legge intrinseca dell’oggetto percettivo stesso (cioè il suo attuale modo di agire, che si vuol trasformare o al quale si vuole imprimere una nuova direzione). Occorre inoltre trovare il metodo per cui quella certa legge si lascia trasformare in un’altra. Questa parte dell’attività morale riposa sulla conoscenza di quel mondo fenomenico col quale si ha da fare; dev’essere perciò ricercata in un ramo della conoscenza scientifica in genere. L’agire moralmente presuppone dunque, accanto alla facoltà di idee morali e alla fantasia morale, la capacità di trasformare il mondo delle percezioni senza spezzare la loro connessione basata su leggi naturali. Tale capacità è una tecnica morale. La si può imparare nello stesso senso in cui in generale si può imparare la scienza. In generale infatti gli uomini sono più adatti a trovare i concetti corrispondenti al mondo quale esso già è, che non a determinare col lavoro produttivo della fantasia azioni future, non ancora esistenti. Perciò è possibilissimo che uomini privi di fantasia morale ricevano le rappresentazioni morali da altri e imprimano queste abilmente nella realtà. Viceversa può anche verificarsi che uomini dotati di fantasia morale manchino di abilità tecnica e debbano servirsi di altri uomini per realizzare le loro rappresentazioni” (16).
Abbiamo riportato per esteso questo passo poiché siamo convinti che potrebbe valere da vademecum per tutti coloro che, diversamente dai “conservatori”, avvertono l’esigenza di rendere più umana (o meno disumana) l’attuale vita sociale.
Immaginando che l’”oggetto di percezione” da trasformare sia la società cosiddetta “capitalistico-borghese”, se ne potrebbero infatti ricavare almeno un paio d’indicazioni.
La prima è che non si può creare una nuova società partendo dal nulla, ma si può solo trasformare quella esistente. Il che vuol dire che per migliorare la vita sociale non si deve cominciare – come fanno i “rivoluzionari” – con lo “spezzare” o con il distruggere quanto già esiste.
La seconda è che per poter trasformare (“conformemente ad una rappresentazione morale”) la società esistente si deve prima comprendere la “legge” che la governa e poi trovare “il metodo per cui quella certa legge si lascia trasformare in un’altra”. Il che significa – per dirla in termini medici – che si può attuare una valida “terapia” soltanto se si è operata una corretta “diagnosi”. Ed è proprio questo, a nostro avviso, il cuore del problema. Nel corso del Novecento, infatti, il comunismo, il fascismo e il nazismo si sono appunto riproposti, seppure in modo diverso, di rinnovare il mondo, superando l’uomo “borghese” e la società che lo rappresenta. Non hanno tenuto in alcun conto però (così come gli odierni “rivoluzionari”) che la società “capitalistico-borghese” può essere trasformata in una migliore, ma anche in una peggiore; e che l’approdare al primo o al secondo di questi due esiti, dipende innanzitutto dall’avere o meno la capacità di scoprire le vere cause della “malattia” che affligge il mondo attuale, e di comprendere o meno quindi – nelle parole di Steiner – “la legge intrinseca dell’oggetto percettivo stesso (cioè il suo attuale modo di agire, che si vuol trasformare o al quale si vuol imprimere una nuova direzione)”. La storia dovrebbe averci insegnato (come abbiamo detto altre volte) che gli orrori “terapeutici” del comunismo, del fascismo e del nazismo non sono stati appunto che l’inevitabile conseguenza dei loro errori “diagnostici”.
Ma da cosa dipendono tali errori “diagnostici”? Essenzialmente dal fatto che “l’uomo in rivolta” (Camus) può essere animato tanto dall’odio che dall’amore: tanto dall’odio per i ricchi e i potenti, ad esempio, che dall’amore per i poveri e i deboli.
Non sarebbe male, a questo proposito, se i “rivoluzionari” (di ogni colore) meditassero, di tanto in tanto, il seguente passo del Vangelo: ”Maria allora, presa una libbra di profumo di nardo puro, molto prezioso, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli, sicché la casa fu ripiena del profumo dell’unguento. Ma disse Giuda Iscariote, uno dei suoi discepoli, quello che stava per tradirlo: “Perché tale unguento non s’è venduto per trecento denari che potevano essere dati ai poveri?”. Disse questo, non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro, e, tenendo la borsa, portava via quel che ci veniva messo dentro” (Gv 12, 3-6).
Certo, non è facile distinguere colui che vuole cambiare il mondo perché lo ama da colui che vuole cambiarlo (ma in realtà distruggerlo) perché lo odia. E non è facile perché ciò che li rende diversi non sta in superficie, ma nel profondo: ovvero, non in quello che apertamente sostengono, ma in quello che segretamente li anima. Ciò che dal profondo li anima non è però che lo spirito. E, piaccia o meno, se si vogliono risparmiare all’umanità ulteriori tragedie, occorre imparare proprio a discernere gli spiriti. Si può comunque osservare che è assai improbabile che ami davvero il mondo chi non ama pensarlo e conoscerlo, e non è per questo disposto a intraprendere il paziente e amorevole lavoro di trasformazione indicato da Steiner.
Note:
01) R.Steiner: I capisaldi dell’economia – Antroposofica, Milano 1982;
02) P.Sarpi: L’arte di ben pensare in Scritti filosofici – Carabba, Lanciano 1911;
03) R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale – Bocca, Milano 1950, p.204;
04) R.Steiner: La questione sociale: un problema di consapevolezza – Antroposofica, Milano 1992, pp.124,134 e 138;
05) R.Steiner: Esigenze sociali dei tempi nuovi – Antroposofica, Milano 1971, pp.203-204;
06) R.Steiner: Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, p.29;
07) R.Steiner: La questione sociale: un problema di consapevolezza, p.88;
08) R.Steiner: I memorandum del 1917 – Tilopa, Roma 1991, p.28;
09) R.Steiner: La questione sociale: un problema di consapevolezza, p.27;
10) R.Steiner: Esigenze sociali dei tempi nuovi, p.159;
11) R.Steiner: I memorandum del 1917, p.31;
12) R.Steiner: La questione sociale: un problema di consapevolezza, p.87;
13) R.Steiner: L’educazione problema sociale – Antroposofica, Milano 1981, p.52;
14) R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale, p.209;
15) R.Steiner: Come si opera per la triarticolazione dell’organismo sociale – Antroposofica, Milano 1988, p.134
16) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, pp.163-164.