Leadership morale

L

Il 15 marzo 1836, un anno dopo la visita al Foro di Gregorio XVI, Giuseppe Gioachino Belli scrisse il seguente sonetto (intitolato appunto: Papa Grigorio a li scavi) (1):

“Bbene!”, disceva er Papa in quer mascello
De li du’ scavi de Campo-vaccino:
“Bber bùscio! bbella fossa! bber grottino!
Bbelli sti serci! tutto quanto bbello!

E gguardate un po’ llì cquer capitello
Si mmejjo lo pò ffà uno scarpellino!
E gguardate un po’ cqui sto peperino
Si nun pare una pietra de fornello!”

E ttrattanto ch’er Papa in mezzo a ccento
Archidetti e antiquari de la corte
Asternava er zu’ savio sintimento,

La turba, mezzo piano e mmezzo forte,
Disceva: “Ah! sto sant’omo ha un gran talento!
Ah, un Papa de sto tajjo è una gran zorte!”

Orbene, a giudicare da quanto si è letto, ascoltato e visto in occasione della sua recente visita a Montecitorio, sembra proprio che sia “una gran zorte”, non solo il “tajjo” di Gregorio XVI, ma anche quello di Giovanni Paolo II.
“In mezzo a tanti leader politici – scrive ad esempio Ferdinando Adornato – Wojtyla è apparso per quello che è: un leader morale, forse il più grande leader morale degli ultimi secoli” (2).
Con questo incipit – sia chiaro – non abbiamo voluto in alcun modo essere irriverenti o mancare di rispetto verso i protagonisti dell’evento. Abbiamo cercato solo d’introdurre qualche nostra riflessione, ridimensionando, con un po’ di bonaria ironia, la ridondanza e l’enfasi con la quale la “turba” dei media ha celebrato l’avvenimento.
“Noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: Libera Chiesa in Libero Stato”. Sono queste le celebri parole con le quali Camillo Benso conte di Cavour replicò, nel 1861, a un’interpellanza del deputato Audinot.
Egli, tuttavia, da liberale (e da fautore, quindi, dello Stato di diritto) avrebbe potuto proclamare anche quest’altro “gran principio”: “Libero Mercato in Libero Stato”.
Nell’Italia di allora, si sarebbe potuto così instaurare un sistema sociale “tripartito”: incentrato, cioè, sul corpo politico o giuridico dello Stato (monarchico), e sostenuto, da un lato, dall’ala della Chiesa (deputata a gestire la vita spirituale) e, dall’altro, da quella del Mercato (deputato a gestire la vita economica).
Così però non fu perché lo Stato, separandosi dalla Chiesa, separò, nell’ambito della vita spirituale (sintesi di scienza, arte e religione), la vita “culturale” da quella “religiosa”, prese ad amministrare laicamente la prima (3), lasciò alla Chiesa l’esercizio della seconda, e non adottò, nei confronti del Mercato, la piena politica del laissez faire.
La vita spirituale, nella sua libertà, universalità e sacralità, continuò così a vedersi sacrificata e costretta a mettersi al servizio dei particolari, diversi, e spesso contrastanti interessi dello Stato, della Chiesa e del Mercato. Basti considerare, per fare un solo esempio, come la storia della scuola non abbia fatto altro che ricalcare, in Italia, quella dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Ancor oggi le cose non sono granché cambiate, se non per il fatto che il Mercato ha guadagnato, nel frattempo, sempre maggior terreno. Quando si discute di scuola pubblica e scuola privata ci si preoccupa infatti, non di ciò ch’è meglio fare per educare l’uomo, ma di ciò che può essere più utile a “erudire il pupo”: vale a dire, il “cittadino”, il “credente” , o il “lavoratore” (o il “consumatore”).
Resta vero, comunque, che l’attività educativa, ove non fosse gestita in prevalenza dallo Stato, tornerebbe a essere monopolio della Chiesa, o finirebbe nelle mani di un Mercato già pronto a trasformare le scuole in “aziende produttrici di sapere” e protese, sul piano economico, a farsi reciproca concorrenza.
Ma ora chiediamoci: il sistema sociale che non s’instaurò allora, cioè quello che avrebbe assegnato la vita politica allo Stato, quella spirituale alla Chiesa e quella economica al Mercato, potrebbe ancora instaurarsi?
Qualche rischio purtroppo c’è. Si ascolti, ad esempio, cosa dice Adornato: “Non credo sia contestabile: Giovanni Paolo II, con il suo lungo pontificato, con le sue encicliche e le sue lezioni pastorali, con i suoi viaggi planetari e le sue allocuzioni mediatiche si è ormai imposto davanti agli occhi della contemporaneità, appunto, come l’unico leader morale dei nostri tempi. Tanto che persino il mondo laicista ne avverte ormai la grande seduzione intellettuale. Si può, com’è ovvio e giusto, essere d’accordo o no con le sue tesi: ma è inutile far finta di non vedere la “scossa filosofica” che Wojtyla ha dato al mondo, sollecitandolo a svegliarsi dal torpore morale nel quale era caduto e del quale, in gran parte, è ancora prigioniero”.
Già, ma il “torpore morale” in cui è caduto il “mondo laicista”, e di cui, “in gran parte, è ancora prigioniero”, non è forse il prodotto della cultura frigida e agnostica patrocinata dallo Stato? E non è stata proprio questa, nel corso del Novecento, a cadere nella tragica illusione di rimediare alla propria fragilità e inconsistenza ideale facendo un salto in avanti e abbracciando il comunismo, il fascismo e il nazismo: ovvero, non un pensiero e delle idee “forti”, bensì delle ideologie, dottrine o “fedi” che, surrogando la loro debolezza con la violenza, non hanno prodotto che morte e distruzione? E perché allora questa stessa, nella misura in cui si sente “sedotta” e “scossa” dalla figura, dalle “encicliche”, dalle “lezioni pastorali” e dalle “allocuzioni mediatiche” di Giovanni Paolo II, non potrebbe oggi illudersi di porre rimedio alla propria pochezza noetica ed etica facendo un salto indietro e riabbracciando, quale “figliuol prodigo”, la dottrina “forte” e la fede della Chiesa?
Qualcuno, in questi giorni, è arrivato a tacciare la cultura laica di “analfabetismo spirituale”; e a ragione, poiché questa, dibattendosi sterilmente tra l’astrazione umanistica e il materialismo scientifico, è stata finora del tutto incapace di dare alle anime umane ciò di cui queste hanno più impellente bisogno: vale a dire, una risposta – come scrive Adornato – alle “questioni prime e ultime dell’esistenza, cos’è la vita, cos’è l’uomo, da dove veniamo, perché esistiamo, cos’è il bene, cos’è il male, questioni che il XX secolo aveva annichilito con la sua politica criminale e che le società del benessere stordiscono nella loro rutilante superficialità”.
Non sono però le “società del benessere” (materiale) ad aver “stordito” tali questioni, in quanto esse stesse sono figlie di una cultura che, avendo abbandonato da tempo la verità e la spiritualità, ma avvertendone in modo sempre più sofferto il rimpianto, comincia a essere tentata di recuperarle (così come si trovano imbalsamate nelle dottrine e nei catechismi religiosi) barattandole con la libertà. Il Pontefice – ricorda in proposito Adornato – “ha posto la domanda delle domande: può esistere la libertà senza un qualche richiamo alla verità? E la libertà di cui noi oggi godiamo, la libertà costituitiva dell’Europa e dell’Occidente, non nasce forse anche dalle verità rese universali dal messaggio di Cristo, dall’esempio di un uomo che ha saputo morire per difendere ciò in cui credeva?”.
Se è vero, tuttavia, che la libertà non può esistere senza la verità, è anche vero che la verità non può esistere senza la libertà. Non è infatti che una stessa e sola realtà (quella dello spirito o dell’Io) a darsi al pensare in veste di verità e al volere in veste di libertà; e se non è pertanto libertà quella che non sgorga dalla verità, non è neppure verità quella che non sgorga dalla libertà.
Adornato – come abbiamo visto – parla del Pontefice come di un “leader morale” in grado di esercitare una grande “seduzione intellettuale” sui laici, e di dare una “scossa filosofica” al mondo. Ma quale intellettuale è esposto a una simile “seduzione”, se non quello spiritualmente “scoperto” o “indifeso”? Ossia quello che, o per curare i propri interessi, o quelli dello Stato, o di un partito, o di un’ideologia, oppure per godere di un pronto, costante e remunerativo accesso ai media, ha smesso di pensare e si è trasformato in un “nano” verboso e dialettico? E quale mondo può patire tale “scossa filosofica”, se non quello che, avendo smesso appunto di pensare, accoglie ormai fideisticamente ogni nuova “scoperta” o “rivelazione” della scienza materialistica e passa il proprio tempo a trastullarsi con i prodotti sempre più sofisticati della tecnologia? Quale uomo, insomma, subirebbe il fascino di un leader morale, se non quello cui non riuscisse di farsi leader noetico ed etico di sé stesso?
E’ vero, “la libertà costitutiva dell’Europa e dell’Occidente” nasce (senza il “forse”) dal “messaggio” e dall’”esempio” del Cristo, ma non è vero – come dice Adornato – che il Cristo sia solo un “uomo”, per di più morto – al pari di un Socrate o di un Giordano Bruno – “per difendere ciò in cui credeva”.
E qui si arriva al dunque. Del Cristo, ossia del Figlio di Dio che dice: “Io sono la via, la verità e la vita” e “la verità vi farà liberi”, la cultura laica europea e occidentale (a prescindere, naturalmente, dall’antroposofia di Rudolf Steiner) è riuscita forse a sviluppare una consapevolezza più moderna, più profonda e più spirituale di quelle proposte e portate avanti dalle varie Chiese cristiane? (4) E’ riuscita cioè a maturare, in rapporto alla realtà divino-spirituale, una conoscenza non meno libera e scientifica di quella che ha maturato in rapporto alla realtà naturale (inorganica)? (5)
Abbiamo detto, poco fa, che può sentirsi attratto da un leader morale soltanto chi non sappia farsi (sul piano noetico ed etico) leader di sé stesso. Ebbene, ascoltiamo allora quanto dice in proposito Steiner: “Cristo è il portatore dell’impulso della liberazione dalla legge, di modo che il bene non venga più compiuto per forza della legge, bensì come impulso d’amore vivente nell’intimo. Ma quest’impulso abbisognerà ancora, per svilupparsi, di tutto il rimanente tempo terrestre; gli inizi ne furono posti dal Cristo Gesù e in ogni tempo la figura del Cristo sarà la forza che educherà gli uomini in quella direzione. Fintanto che gli uomini non erano maturi per accogliere un io autonomo, finché esistevano come membri d’un gruppo, essi dovevano venir regolati socialmente da una legge esteriormente rivelata. Neppur oggi gli uomini hanno superato in tutto i limiti degli io di gruppo. In quante mai cose l’uomo d’oggi non è affatto un essere individuale, bensì un essere di gruppo! L’uomo che già oggi fosse un essere libero è pur sempre ancora un ideale (a un certo gradino del discepolato esoterico lo si chiama il “senza patria”). Chi si pone volontariamente nell’attività universale è individuale, non viene regolato dalla legge” (6).
Adornato così conclude comunque il suo articolo: “La sfida più grande che sta di fronte alla politica è quella di far ritrovare la propria anima a democrazie sfibrate e spesso autoreferenziali, nelle quali l’avere ha annullato l’essere e il relativismo dei valori rischia di intaccare anche il valore della libertà, trasformandosi in nichilismo”.
Ma tale “sfida” – come abbiamo cercato di dimostrare – “sta di fronte”, prima ancora che alla politica, alla cultura. Non è infatti la vita politica (legale) a dover informare quella spirituale o morale, bensì è la vita spirituale o morale (individuale) a dover ispirare quella politica (ma anche quella economica).
In ogni caso, si tratta di una “sfida” che in specie gli intellettuali europei dovrebbero affrettarsi a raccogliere se, per ridare un’anima alle democrazie, per ritrovare l’essere e per superare il relativismo dei valori, non intendono rinnegare la libertà e correre a rifugiarsi sotto l’ombrello spiritualmente rassicurante e protettivo di una qualsiasi Chiesa o di un qualunque “credo” religioso.


Note:

01) G.G.Belli: I sonetti – Mondadori, Milano 1952, vol.III, p.2405;
02) il Giornale, 15 novembre 2002;
03) la cosa, nell’Enciclica Editae saepe del 1910, portò Pio X a scrivere: “…quelle pubbliche scuole, prive di ogni religione, dove si tiene quasi per sollazzo il deridere le cose più sante, e del pari sono aperte alla bestemmia e le labbra dei maestri e le orecchie dei discepoli. Parliamo di quella scuola che si chiama per somma ingiustizia neutra o laica, ma che non è altro che tirannide prepotente di una setta tenebrosa” (Ernesto Rossi: Il Sillabo e dopo – Kaos, Milano 2000, p.149);
04) nella “premessa” al suo libro Profezia (Mondadori, Milano 2002, p.9), Gianni Baget Bozzo afferma che il Cristianesimo “è una ontologia mistica ed escatologica e non una religione”, e che “la teologia mistica non ricerca ciò che fonda un dialogo con la cultura, ma ciò che fonda un dialogo con Dio”. Ma se la teologia mistica, in quanto cristiana, fonda un dialogo col Dio che si è fatto uomo, perché non dovrebbe allora dialogare con gli uomini, e quindi con la cultura? E dal momento che Dio si è fatto uomo, non dovrebbe allora la teologia farsi antropologia e l’antropologia farsi teologia? E se si può parlare del Cristianesimo – come fa Solov’ev – in termini di “teandria” o di “divinoumanità”, perché non se ne potrebbe parlare allora in termini di “teoantropologia” o di “antropoteologia”? Nei termini, ovvero, di quell’“antroposofia” che non è appunto una “religione”?
05) dice Goethe: “Chi ha scienza e arte ha pure religione; chi non ha scienza e arte abbia almeno religione”;
06) R.Steiner: Il Vangelo di Giovanni – Antroposofica, Milano 1995, p.71.

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Di Francesco Giorgi
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