La sconfitta della idee

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La lettura dell’ultimo libro di Marcello Veneziani, La sconfitta delle idee (1), ci ha suggerito una serie di considerazioni che abbiamo pensato di riportare qui nella succinta forma delle cosiddette “note a margine”.

Scrive V.: “Al posto delle idee trionfa il puro vitalismo, il dominio assoluto del mercato e delle logiche utilitarie, la seduzione della pubblicità o delle altre forme di retorica del nostro tempo” (p.V); e aggiunge: “Il vero nemico pervasivo è il nichilismo” (p.6).
Ma all’origine del “vitalismo”, del “mercato”, della “pubblicità” o della moderna “retorica” non ci sono forse delle idee? E il nichilismo non discende appunto dall’idea del “nulla”?
Fatto sta che le idee possono essere “sconfitte” solo da altre idee, e mai dalle “cose”. Ovunque ci siano delle idee sconfitte, devono perciò essercene delle altre vittoriose. Il vero problema sta dunque nel cogliere la loro essenza e, soprattutto, il loro rapporto con l’idea o l’essenza dell’uomo. Come una sconfitta delle idee (mistiche o meccanicistiche) che ostacolano o sviano l’evoluzione umana equivale infatti a una vittoria dell’idea dell’uomo, così una loro vittoria equivale viceversa a una sconfitta dell’essere umano (o dell’umanità del suo essere).

Scrive V.: “Le idee tramontano, come accadde agli dei (…) E’ la disfatta di Platone, la rinuncia ad ogni trascendenza” (p.V).
Bisognerebbe tuttavia distinguere la realtà (cosmica) delle idee da quella della coscienza che gli uomini ne hanno. Gli dei infatti tramontano – come ha peraltro intuito Giorgio Colli (2) – quando, eclissandosi la veggenza, sorgono il pensiero e le idee, così come il pensiero e le idee tramontano quando, eclissandosi il realismo, sorgono il nominalismo e le “cose”. In altre parole, ciò che veniva un tempo sperimentato quale realtà divina, viene successivamente pensato quale realtà ideale e infine percepito quale “cosa” o realtà sensibile.
La “disfatta”, poi, non è solo di Platone, ma anche di Aristotele. L’idealismo del primo è stato infatti alterato misticamente da Lucifero, mentre il realismo del secondo è stato alterato meccanicisticamente o materialisticamente da Arimane. Sta di fatto che solo lo spirito che anima l’insegnamento di Steiner è riuscito, portando a maturazione i germi già presenti nell’”idealismo empirico” di Goethe (3), a coniugare e armonizzare la trascendenza platonica con l’immanenza aristotelica.

Scrive V.: “Cos’è un’idea? Un principio ordinatore, una fonte di energia e di mobilitazione, una chiave d’interpretazione della vita e dei rapporti sociali, una visione del mondo, un’organizzazione del sapere e del vivere; insomma una guida per orientarsi nella realtà e plasmarla” (p.4).
Non è facile comprendere, tuttavia, come un mero e formale “principio ordinatore” (qual è, ad esempio, la “categoria” kantiana) possa anche essere “una fonte di energia e di mobilitazione”. Le perplessità poi aumentano allorché Veneziani, riferendosi alle “vecchie idee” professate dai “neofiti del liberalismo”, arriva a dire che, di queste, “sono rimasti gli abiti e le abitudini, gli involucri e le forme mentali, non la loro anima e la loro sostanza ideale“.
Ma quale “anima” o “sostanza ideale” possono avere delle idee che – come lo stesso ribadisce più avanti (rifacendosi appunto a Kant) – “non possono essere costitutive della realtà, ma solo regolative: non producono l’esperienza né tantomeno la sostituiscono ma le danno un orizzonte, una prospettiva” (p.114)?
Qui, delle due, l’una: o le idee sono dei formali “principi ordinatori”, ma non possono avere allora un’”anima” e una “sostanza ideale”; o hanno un’”anima” e una “sostanza ideale”, ma non possono essere allora dei formali “principi ordinatori”. Solo una “entità spirituale” può infatti avere, oltreché un corpo (eterico), un’anima e uno spirito.

Si chiede V.: “Esiste oggi nelle società occidentali un superstite senso della vita al lume di un’idea, di una concezione?“.
Certo che esiste: è il senso della vita (e della morte) “al lume” della concezione antroposofica. Non si tratta però di un senso “superstite”, bensì di un senso “neonato”, e quindi aperto al futuro e al divenire.

Scrive V.: “La perdita delle idee non segna comunque solo l’oscuramento del pensiero ma anche il raffreddarsi delle passioni legate alle idee (le passioni non sono da confondere con le emozioni, perché presuppongono il segno di un’idea in relazione a una durata)” (p.17).
In verità, non è la perdita delle idee a “oscurare” il pensiero, ma è la morte del pensiero a produrre quella delle idee. Solo attraverso il pensare sorgono infatti le idee; e da un pensare vivo sorgono idee vive, mentre da un pensiero morto sorgono idee morte, e per ciò stesso vuote di sentire e di volere (di moralità). (Si consulti, al riguardo, la nota dell’8 aprile 2003, intitolata: La matrioska).

Si chiede V.: “Dove sono finiti gli intellettuali?” (p.19), e aggiunge: “Ceronetti nota che tutti parlano di fuga dei cervelli e nessuno della fuga dal cervello e dal pensare” (p.22).
Ma non si era parlato, prima, di un’”anima” e di una”sostanza ideale” delle idee? E cosa c’entra allora il cervello? Si è forse convinti che l’”anima” e la “sostanza ideale” delle idee siano generate o prodotte dalla sostanza cerebrale?

Scrive V.: “Oggi l’unica contestazione davvero rivoluzionaria che può essere rivolta al nostro tempo e al mondo globalizzato è di tipo spirituale e ideale, non materiale o economica, in ordine al deserto delle idee e all’inaridimento dell’anima e delle menti” (p.31).
D’accordo, ma come metterla, allora, con il rimpianto del pensiero legato al “cervello”? E’ questa forse una “contestazione davvero rivoluzionaria”? Perché non capire, piuttosto, che l’attuale e regressiva “fuga dal cervello e dal pensare” non è che la patologica contro-immagine dell’andare oltre il cervello e il pensiero intellettuale (a esso legato), per poter così sviluppare dei gradi superiori (e spirituali) di coscienza?
Dice Veneziani che “un millennio si è aperto e non c’è una nuova idea all’orizzonte” (p.3). Ebbene, non sarebbe il caso di cambiare allora “orizzonte”? Come mai – non si può far a meno ad esempio di chiedersi – nella bibliografia che correda il suo libro non figura nemmeno un testo di Rudolf Steiner? Se ne ignora forse l’esistenza, o non lo si ritiene meritevole o degno di menzione?
Per carità, si è più che padroni di farlo, ma non si biasimi poi la “dannazione, l’emarginazione o la scomparsa dei non allineati attraverso la finzione di inavvertenza“, l'”uso retorico del silenzio” o la “consolidata arte degli omissis” (p.47), e non ci si meravigli se, a dispetto della lodevole intenzione di contestare spiritualmente e idealmente il “nostro tempo” e il “mondo globalizzato”, ci si continua a trovare invischiati nel materialismo: in quello promosso oggi, in primo luogo, dalle cosiddette “neuroscienze”, dalla cibernetica e dal cognitivismo.

Scrive V.: “Il pensare presuppone la forza dell’invisibile, l’ascendenza di ciò che sfugge allo sguardo e raggiunge le menti attraverso percorsi d’immaginazione e non d’immagine (…) Le idee presuppongono, infatti, una trascendenza dal mondo come viene percepito attraverso i sensi, indicano un piano ulteriore, irriducibile alla tecnica; annunciano l’esistenza di un altro mondo oltre quello visibile” (p.42).
Benissimo, ma perché limitarsi allora a evocare suggestivamente tale mondo e non prendersi invece la briga di indagarlo “scientificamente”: ovvero, con i mezzi messici a disposizione dalla scienza dello spirito? Che dire, tanto per fare un esempio, se le idee (che acquisiamo conoscendo) non “trascendessero” affatto quanto viene percepito, ma ne costituissero invece l’essenza: ovvero, quell’entelechia che solo il pensare può però delucidare o portare a coscienza (post-rem)? Che dire, in altri termini, se tali idee fossero immanenti (in-re), e non trascendenti (ante-rem)?

Scrive V.: “Il primato della casuale molteplicità delle esperienze nasce dall’insoddisfazione per tutto ciò che inchioda a un destino, a una vita sola, a un limite e a una fedeltà (…) Cresce la voglia di sperimentare più vite, di esperire l’ubiquità, di provare più stati e più condizioni. E’ come aspirare a passare da uno stato solido a uno liquido. Zygmunt Bauman sostiene proprio questo: il tratto specifico della condizione neo-moderna è il passaggio a uno stato di liquidità, fluttuante e indefinito” (pp.51-52).
Orbene, non è a dir poco singolare – come ben sanno coloro che conoscono la scienza dello spirito – che il passaggio dal pensiero intellettuale (vincolato al sistema neuro-sensoriale) a quello detto da Steiner “immaginativo”, equivalga appunto al passaggio da uno stato “solido” (e per ciò stesso discontinuo) a uno “liquido” (e per ciò stesso continuo)? Ciò non vuol dire allora che ci troviamo ancora una volta di fronte alla contro-immagine materialistica di una realtà spirituale? Una cosa, infatti, è l’oscura “voglia di sperimentare più vite”, altra la lucida consapevolezza delle ripetute vite terrene, così come un conto è “esperire l’ubiquità” o “provare più stati e più condizioni”, altro è esperire ciò che vive al di là del tempo e dello spazio o diversi e superiori livelli di pensiero e di coscienza. Insomma, conquistare attivamente il pensiero liquido (vivente) o la coscienza “immaginativa” è affare del tutto diverso dal lasciar pigramente e ottusamente liquefare la propria esistenza.

Scrive V.: “Non si tratta di ricondurre a un’artificiale e forzosa unità estrinseca e vuota, la pluralità di esperienze o di sottoporle alla tirannide di un’Idea regina; semmai di dare un centro alla propria esistenza, un luogo cruciale da cui partire e a cui far ritorno, un saldo punto di riferimento rispetto a cui commisurare le esperienze e ricondurre a rigore la loro pluralità” (p.61).
La nostra esistenza ha già però il proprio “centro”, il proprio “luogo cruciale” o la propria essenza nell’Io spirituale; non si tratta quindi di “darglielo”, bensì di scoprirlo. Ciò che ci manca, insomma, è la coscienza spirituale del centro, e non il centro.

Scrive V.: “Avere un ideale di vita, cioè un progetto e un’aspirazione da calare poi nell’esperienza concreta della vita, accettandone le contaminazioni e le contraddizioni; ovvero farsi un’idea della vita, per darne un senso e una prospettiva” (p.62).
Anche qui, tuttavia, si tratta, non di “farsi un’idea della vita” o di darle “un senso”, quanto piuttosto di scoprire l’idea e il senso che sono nella vita e la vita che è nell’idea e nel senso. Ogni vita è già infatti un “progetto” o un’”aspirazione”, ha già un “senso” e una “prospettiva”; l’uomo è chiamato quindi a scoprirli e a conoscerli, e non a crearli. Scoprendoli e conoscendoli, egli crea però la coscienza della vita o la vita cosciente: ovvero, una realtà spirituale, e non più naturale.

Scrive V.: “Se il comunismo è l’abolizione dello stato di cose presenti, la sua scatola nera è nella guerra finale tra l’idea e la realtà, nella convinzione prometeica, prima che hegeliana (anche Marx, prima di dedicarsi a Hegel, si dedicò in un saggio giovanile a Prometeo), di poter cambiare la natura umana, generando un uomo nuovo, un mondo nuovo. In altri termini l’idea non feconda la realtà, non la anima, ma la corregge, ne dispone” (p.69).
Ma c’è forse “guerra” tra l’idea della rana e la realtà del girino? Ed è forse “prometeica” (o utopica) la convinzione di poter cambiare la natura del girino in quella della rana?
Nella natura, in effetti, l’idea non “corregge” la realtà, bensì appunto la feconda, la anima e la trasforma. In tanto può farlo, però, in quanto l’idea della rana è presente e attiva, quale viva forza (quale entelechia), nella realtà del girino, e non, quale astratta forma, nella mente di qualche intellettuale. Tant’è che le più che legittime apprensioni suscitate dalle odierne “manipolazioni genetiche” derivano proprio dal fatto che gli scienziati, al lume del loro astratto intelletto e della loro mentalità quantitativa, si sono dati (prometeicamente) a “correggere” la natura vivente, così come il comunismo ha tentato tragicamente di fare con la storia.
Certo, a cambiare la natura del girino e a generare la rana provvede la natura, mentre a cambiare la natura dell’uomo “egoico” e a generare l’uomo “sociale” (o fraterno) dovrebbe provvedere l’uomo stesso. Ma come potrebbe provvedervi, se non gli si desse anzitutto modo di scoprire e conoscere quell’idea dell’uomo che può fecondarlo, animarlo e trasformarlo?
Scrive in proposito Steiner: “Non possiamo pensare il concetto dell’uomo fino in fondo, senza giungere allo spirito libero, come espressione più pura della natura umana. Siamo veri uomini solo per quanto siamo liberi. Molti diranno che questo è un ideale. Senza dubbio, ma tale che nella nostra entità tende alla superficie come elemento reale. Non è un ideale pensato o sognato, ma tale da avere vita e da annunciarsi con precisione anche nella forma più incompleta della sua essenza” (4).
Una cosa, dunque, è il libero “divenire – come dice Nietzsche – ciò che si è”, altra il dover divenire ciò che qualcuno si è messo in testa che si sia, e quindi – come dice Veneziani – la “tirannia dell’ideologia sulla realtà” (p.75).

Scrive V.: “Non possiamo vivere umanamente senza idee, siamo le nostre idee” (p.88).
Per vivere non-umanamente o dis-umanamente, non è in realtà necessario rinunciare alle idee: basta infatti far proprie quelle suggeriteci da Lucifero e Arimane.
Essere un Io ed avere per questo delle idee è cosa infatti assai diversa dal credersi un Io perché si hanno delle idee. Dice Steiner che le idee sono “recipienti d’amore”: può essere davvero nostra, perciò, solo quella forma ideale in cui si sia riversata la forza dell’Io e, attraverso questa, il puro amore del Logos che lo inabita.

Scrive V.: “Se le idee sono energia, nel modello americano non servono per illuminare il mondo ma per alimentare il motore; servono per procedere, non per rischiarare; servono al soggetto, non all’essere” (p.94).
D’accordo, ma se l’essere è altro dal soggetto, perché mai quest’ultimo dovrebbe rinunciare, nell’interesse del primo, ad “alimentare il motore” o a “procedere”?
A ben vedere, il “torto” del moderno soggetto pragmatico non sta tanto nell’essere tale, quanto piuttosto nel non esserlo fino in fondo: nel non curare, cioè, insieme a quelli materiali, i propri interessi animico-spirituali, e nel non poter pertanto valutare i primi alla luce dei secondi.
Fatto si è che l’antichità vedeva il soggetto (l’Io) nell’essere (nel Padre), mentre la modernità non riesce ancora a vedere l’essere (il Figlio) nel soggetto (nell’Io). I sostenitori della modernità credono perciò di dover opporre all’essere la libertà del soggetto, mentre i suoi avversari credono di dover opporre al soggetto la verità dell’essere.
Entrambi dunque ignorano quell’Essere che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” e “La libertà vi farà liberi”.

Scrive V.: “Quando le idee si separano dal logos, si allontanano dalla forza del pensiero per accudire il pensiero della forza, diventano supporti ornamentali della volontà di potenza” (p.105).
In realtà, quando le idee non sono al servizio dell’Io, e attraverso l’Io, del Logos, sono allora al servizio – come abbiamo già ricordato – o del soggetto luciferico o di quello arimanico. Ad esempio, la “forza del pensiero” è una forza umana, mentre il “pensiero della forza” è un pensiero arimanico.

Scrive V.: “La nostra epoca è in balia di due opposte follie: il fanatismo e il cinismo, che sorgono rispettivamente dal fondamentalismo e dal nichilismo” (p.107).
Già, e da dove sorgono allora il fondamentalismo e il nichilismo? Sorgono appunto, rispettivamente, dall’entità “fanatica” di Lucifero e da quella “cinica” di Arimane.

V. riporta la seguente affermazione di James Hillman: “Le idee che possediamo senza sapere di averle, possiedono noi” (p.115).
E’ vero. Proprio Hillman è però un nominalista, e quindi la persona meno adatta a difendere la causa delle idee. Infatti, le idee luciferiche o arimaniche possiedono non perché non si sappia di averle, ma perché non si sa che cosa siano le idee e di quali forze o di quali entità siano veicolo; in altri termini, perché non le si sa discernere, così come non si sanno discernere gli spiriti. “Avere in testa – come si dice – un’idea” non significa dunque “possederla”. Per non esserne “posseduti” bisogna infatti conoscerla non per come appare, ma per come è: ovvero, si deve andare al di là del suo corpo ideale (eterico), per penetrarne l’anima (la qualità) e lo spirito (l’intima essenza morale).

Scrive V.: “Il flusso dalle esperienze vitali alle idee è la sublimazione (…) La civiltà nei suoi frutti significativi è il prodotto della sublimazione (…) Le grandi opere e le grandi imprese sono il frutto della sublimazione” (pp.116, 118, 119).
Qui si dimostra come un seppur nobile legame con la “Tradizione” e una seppur sofferta nostalgia della vita delle idee o dello spirito non siano affatto sufficienti a difenderci dal materialismo. Che cos’è infatti la “sublimazione”? Un “processo – rispondono Laplanche e Pontalis (5) – postulato da Freud per spiegare certe attività umane apparentemente senza rapporto con la sessualità, ma che avrebbero la loro molla nella forza della pulsione sessuale. Freud ha descritto come attività sublimate soprattutto l’attività artistica e l’indagine intellettuale. La pulsione è detta sublimata nella misura in cui essa è deviata verso una nuova meta non sessuale e tende verso oggetti socialmente valorizzati”.
Ogni “sublimazione” presuppone insomma che quanto nell’uomo è “superiore” derivi da quanto è “inferiore” e abbia per ciò stesso fondamento nella sessualità o nella realtà biologica. Non è vero, tuttavia – per dirla come usano gli addetti ai lavori – che un chirurgo non sia altro che un sadico sublimato; è assai più probabile, infatti, che un sadico non sia altro che un chirurgo mancato o degenerato.

Scrive V.: “Se abbiamo definito il flusso fecondatore che scende dalle idee alle esperienze, si tratta ora di cogliere il flusso inverso, quello che sale dall’esperienza di vita alle idee” (p.116).
Come abbiamo cercato di dimostrare nella nota intitolata: Del “moto pendolare vivente” (1 marzo 2003), e alla quale perciò rimandiamo chiunque volesse saperne di più, quello che V. chiama qui il “flusso fecondatore che scende dalle idee alle esperienze” è in realtà quel momento (esalante) della vita (e del respiro) del pensiero che va, in modo creativo, dall’idea alla percezione (e quindi dall’invisibile al visibile), mentre quello che – come dice – “sale dall’esperienza di vita alle idee”, è in realtà quell’opposto momento (inalante) che va, in modo conoscitivo, dalla percezione all’idea (e quindi dal visibile all’invisibile).

Note:
01) M.Veneziani: La sconfitta delle idee – Laterza, Roma-Bari 2003;
02) G.Colli: La nascita della filosofia – Adelphi, Milano 1975;
03) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.213;
04) R.Steiner: La filosofia della libertà – Mondadori, Milano 1998, p.148;
05) J.Laplanche- J.-B.Pontalis: Enciclopedia della psicanalisi – Laterza, Bari 1968, p.587.

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Di Francesco Giorgi
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