Pedanteria e amore

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La mattina del 28 aprile 1945, l’ing. Ugo Gobbato, da più di un decennio direttore generale dell’Alfa Romeo, “si reca, come tutti i giorni, in fabbrica per ritirare documenti privati. E’ stanco e demoralizzato per l’incomprensione, la malafede e l’opportunismo cui ha assistito in quegli ultimi giorni. Alle 9 esce dallo stabilimento a piedi con alcuni documenti personali sottobraccio. Arrivato all’altezza di via Domodossola viene incrociato da una vettura sulla quale trova posto gente che evidentemente conosce, perché saluta. La macchina inverte la marcia, si ferma a pochi passi e ne scendono tre individui che, senza una parola, lo freddano con una scarica di mitra e con un colpo di pistola, dileguandosi poi con la vettura senza lasciare tracce”.
Sottoposto due volte, nei giorni precedenti, “a giudizio dei tribunali del popolo, per rispondere della sua condotta nei confronti del Regime Fascista”, era stato prima assolto con formula piena e poi di nuovo “assolto e lasciato libero il 27 aprile sera, dopo una lunga seduta alla Villa Triste, dove si era installato uno dei più feroci tribunali del popolo della zona” (1).
Abbiamo voluto rievocare questo episodio (del quale abbiamo avuto modo di parlare con la figlia della vittima) vuoi perché non viene ricordato nel recente Il sangue dei vinti, in cui Giampaolo Pansa ha appunto ricostruito “nei dettagli decine di eccidi e centinaia di omicidi, compiuti per punizione, per vendetta, per fanatismo politico e per odio di classe” nell’”Italia del Nord, dal 25 aprile 1945 alla fine del 1946 e, in qualche caso, anche più in là nel tempo” (2), vuoi perché abbiamo assistito (giovedì 16 ottobre) a una puntata di “Otto e mezzo” (programma condotto, su La7, da Giuliano Ferrara e Barbara Palombelli) dedicata proprio al libro di Pansa e alle polemiche che ne hanno accompagnato l’uscita. Erano invitati a discuterne, in studio, l’autore e Paolo Mieli e, in collegamento da Torino, gli storici Angelo d’Orsi e Nicola Tranfaglia.
A dir poco sconcertanti ci sono infatti apparsi e l’atteggiamento e gli argomenti di Angelo d’Orsi (professore associato di “Storia del pensiero politico contemporaneo” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino).
Non siamo stati però i soli cui siano apparsi tali. Ha scritto ad esempio Ruggero Guarini (in un articolo significativamente titolato: La pazienza garbata del giornalista e la boria dello storico): “Fra i moti di ripulsa che “Il sangue dei vinti”, il libro di Giampaolo Pansa, sta suscitando fra gli storici ufficiali della Resistenza, non figurano soltanto la denegazione indignata e la minimizzazione indispettita. C’è anche il sarcasmo borioso, e per ciò stesso vagamente comico. Vedi la reazione di Angelo D’Orsi, il forbito storicone torinese che sere fa, durante una puntata di “Otto e mezzo”, dopo aver negato a Pansa le qualità dello storico, in quanto non avrebbe sottoposto le sue fonti a un adeguato controllo critico, ha fra l’altro proclamato che l’ufficio dello storico sarebbe – udite, udite – l’accertamento della verità storica”; ma “i comuni mortali, anche quelli forniti, come il professor Angelo D’Orsi, di una laurea e di una cattedra, quando tirano in ballo la parola “verità”, per evitare di farci credere che si credono dei padreterni in procinto di dirci la Verità sulla Verità, dovrebbero specificare a quale tipo di verità alludono”: dovrebbero specificare, cioè, se alludono alla “semplice verità fattuale che può esprimersi appunto mediante “giudizi di fatto”, o a qualche verità inerente al senso e al valore dei fatti, e che pertanto esige quei “giudizi di valore” che rimandano sempre, fatalmente, alle idee, ai sentimenti e ai gusti di chi li enuncia. Ma questo il professor D’Orsi non lo ha spiegato. E poiché l’argomento a proposito del quale egli ha sollevato il problema dell’accertamento della verità come fine della ricerca storica è quello dei crimini commessi dai partigiani comunisti anche dopo la fine della guerra, non si è capito bene perché lo abbia fatto. Voleva forse esprimere qualche dubbio sulla verità empirica dei fatti narrati da Pansa? Ridicolo. Intendeva contestargli il diritto di giudicarli infami? Arciridicolo. Voleva negargli anche quello di trovare deplorevole il loro prolungato occultamento da parte di gran parte della nostra storiografia ufficiale? Arciridicolissimo” (3).
A noi è parso, tuttavia, che la supponenza o – come dice Guarini – il “sarcasmo borioso” di d’Orsi derivassero piuttosto dal suo essere (e sentirsi) uno storico “accademico”, e per ciò stesso un fedele osservante delle regole e dei precetti imposti dai canoni della storiografia cosiddetta “scientifica”.
Così infatti ha esordito: “Questo non è un libro di uno storico; e di questo va tenuto conto. Il libro è un bel libro (…) Ma il problema è che c’è una differenza enorme tra un narratore e uno storico. Lo storico cosa fa? Cerca delle fonti, se riesce poi a trovarle deve poi usarle correttamente, deve vagliarle criticamente; e poi però deve dare al lettore la possibilità di verifica. Allora io davanti al libro di Pansa leggo queste storie, le giudico più o meno credibili ecc., ma non ho la possibilità di verificare. Dare la possibilità al lettore di verificare la veridicità del mio racconto per fondarlo su documenti, su fonti, altrimenti tutte le storie sono possibili. Allora il libro di Pansa lo prendo come un’opera narrativa che si fonda su avvenimenti accaduti, in senso lato (…) Un’obiezione di fondo che si può fare è quella che appunto concerne il modo di fare storia. (Il compito dello storico) è quello di cercare la verità. Ma la verità si cerca sui documenti e sulle fonti trattate criticamente e trattate con tutti i canoni del metodo storico dando al lettore la possibilità di verifica” (4).
Bene, ma la verità, oltreché essere cercata sui documenti e sulle fonti (che sono peraltro ampiamente citate da Pansa) non può essere anche cercata in quei documenti o in quelle fonti viventi che sono i “testimoni”? E il “narrare” di eventi realmente accaduti non è cosa assai diversa dal narrare quanto è frutto della propria fantasia o della propria immaginazione? E che si deve intendere, poi, per “avvenimenti accaduti, in senso lato”? L’assassinio dell’ing. Gobbato, ad esempio, è un avvenimento accaduto in senso “stretto” o in senso “lato”?
Saremo degli sprovveduti, ma ci riesce altresì difficile immaginare che i lettori (compresi i familiari, i parenti, gli amici e i conoscenti delle vittime) si sentano defraudati per il fatto di non poter verificare quanto affermato nel testo, utilizzando le note a pie’ di pagina e una bibliografia posta alla fine.
Fatto si è che una cosa è l’interesse o l’amore per la realtà, altra l’interesse o l’amore per la documentazione o la certificazione della realtà (che, in molti casi, potrebbe essere anche andata distrutta o non essere mai esistita). Uno storico che volesse sul serio “cercare la verità” (avverte però il saggio: “Le verità sono tante, la realtà è una”) dovrebbe pertanto guardarsi da quello spirito formalistico, notarile o burocratico che vorrebbe l’uomo fatto per il sabato, e non il sabato per l’uomo.
A chi sia preda di un’entità del genere, ossia di uno spirito che privilegia la forma a danno della sostanza (o che guarda alla forma per non guardare alla sostanza) potrebbe addirittura capitare, leggendo un libro come quello di Pansa, di dolersi più per l’assenza, in esso, delle note e di una raccolta bibliografia che non per la presenza degli atroci fatti ricordati.
“Io non capisco – ha detto appunto d’Orsi – questo sarcasmo che viene fuori sulle note a pie’ di pagina; il più grande storico del Novecento, Marc Bloch, ha scritto pagine importanti proprio per difendere questi segni che molti considerano insulsi. Ma quelli sono le tracce del lavoro della ricerca; è di là che noi possiamo andare a fare le verifiche”.
Intendiamoci, non stiamo qui tessendo l’elogio del dilettantismo, del pressappochismo o della faciloneria (che non hanno nulla a che fare – sia chiaro – con il lavoro di Pansa), stiamo solo cercando di mettere in luce che non è neanche con la cavillosità, la pignoleria o la pedanteria che ci si accosta alla realtà.
“Io – dichiara Aleksandr Solzenicyn, nella premessa al suo Arcipelago Gulag – non avrò l’audacia di scrivere la storia dell’Arcipelago: non mi è stato possibile leggere i documenti. Toccherà a qualcuno conoscerli un giorno? Chi non vuole ricordare ha avuto tempo sufficiente (e ne avrà ancora) per distruggere tutti i documenti fino all’ultimo” (5).
Pur non avendo avuto l’”audacia” (e la possibilità) di scriverne la “storia”, egli ha avuto comunque il coraggio di “narrare” gli orrori dell’Arcipelago. “Un uomo solo – dichiara però – non avrebbe potuto creare questo libro. Oltre a quanto ho riportato io dall’Arcipelago: con la mia pelle, la memoria, l’udito e l’occhio, il materiale per questo libro mi è stato dato, in racconti, ricordi e lettere…” (6); e aggiunge: “Dedico questo libro / a tutti coloro cui la vita non è bastata / per raccontare. / Mi perdonino / se non ho veduto tutto, / se non tutto ricordo, / se non tutto ho intuito” (7)
Eppure, d’Orsi ha detto (e d’Orsi è “uomo d’onore”): Il sangue dei vinti “non è un libro che io posso dare come testo scientifico (.) La storia è un’altra cosa. La storia è ricerca della verità condotta con metodi scientifici; ed è un processo collettivo di avvicinamento alla verità, a cui ciascun ricercatore, in qualunque parte del mondo, senza timori, ma con onestà intellettuale e con metodo scientifico deve portare il suo piccolo mattone”.
D’accordo, ma cosa fare allora del “piccolo mattone” portato da Solzenicyn senza “metodo scientifico”? In Arcipelago Gulag – scrive – “non vi sono personaggi né fatti inventati. Uomini e luoghi sono chiamati con il loro nome. Se sono indicati con le sole iniziali, è per considerazioni personali. Se non sono nominati affatto, è perché la memoria umana non ne ha conservato i nomi: ma tutto fu esattamente così” (8).
Anche questo non è “scientifico”?
Ci sarebbe da chiedersi, in verità, se proprio questo “ossessivo” richiamo al metodo scientifico discenda davvero da spirito scientifico. E’ legittimo infatti il sospetto che tanto più ci si appelli (legalisticamente) al rigore del primo quanto meno si sia animati in profondità dal secondo: quanto meno si sia animati, cioè, da sincero amore per la realtà.
E’ forse per questo che gli attuali “scienziati”, anziché somigliare a degli spiriti liberi, ossia a degli esseri – per dirla con Schopenhauer – che lavorano “per il conoscere, come fine a se stesso”, poiché “desiderano ardentemente di rendere in qualche modo comprensibile il mondo in cui si trovano, e non già di insegnare e di ciarlare” (9), somigliano piuttosto a degli individui che – come dice sempre Schopenhauer – vivono di qualcosa e non per qualcosa (10): ovvero, per l’utile e non per l’ideale (intendendo per “utile” l’ideale individuale o egoistico e per “ideale” l’utile universale).
Per ben comprendere quanto stiamo sostenendo, occorre tuttavia aver presente che è proprio lo spirito scientifico a informare l’anima moderna o anima cosciente (ed è per questo che l’uno è raro tanto quanto l’altra).
Significativo, al riguardo, è che Steiner parli della “missione della collera” e della “missione della verità” in rapporto, rispettivamente, all’educazione dell’anima senziente e a quella dell’anima razionale o affettiva, e parli invece, in rapporto all’educazione dell’anima cosciente, della “missione della devozione” (11).
Uno scienziato (vale a dire, un vero rappresentante dell’anima cosciente) non è forse un esploratore dell’ignoto? Ebbene, “la qualità che il sentimento dovrà esplicare, – dice appunto Steiner – per poter essere di guida verso qualcosa d’ignoto, dev’essere una forza che dall’intimo tenda verso quest’ignoto, verso ciò che non si conosce ancora. Quel che l’anima umana sente quando aspira e tende verso qualcosa che è fuori di lei, quando vuol afferrare qualcosa col sentimento, si chiama amore (…) L’anima cosciente non arriverà mai alla conoscenza, neppure delle cose esteriori, se non si accosta ad esse con amore e dedizione, perché noi passiamo effettivamente davanti alle cose senza avvertirle, se non le avviciniamo con tali sentimenti, cioè con devozione. Questo sentimento è così la guida alla conoscenza dell’ignoto” (12).
Afferma il Cristo: “Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta”(Lc 12,31). Parafrasando, potremmo dunque dire: “Cercate la scienza (lo spirito scientifico), e il metodo vi sarà dato in aggiunta”.
Come abbiamo visto, purtroppo, c’è però chi s’illude, cercando il metodo, che gli sarà data in aggiunta la scienza.

P.S.
Un’ultima amara considerazione. Ha detto a un certo punto d’Orsi: “Forse dimentichiamo un piccolo particolare: cioè dimentichiamo la Repubblica Sociale Italiana. La R.S.I. è stato un momento tragico, è stata un’esperienza terribile, è stata una Repubblica di morte, è stata un’esperienza di morte, di sangue. La gran parte di quegli episodi (di quelli riferiti da Pansa – nda) in qualche modo scaturiscono da quelle esperienze: insomma, sangue chiama sangue”.
Dunque, occhio per occhio, dente per dente. Giorgio Amendola, sull’Unità di Torino del 29 aprile, scrisse infatti: ““Pietà l’è morta…E’ la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata…Con risolutezza giacobina, il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato”” (13).
Ma chi si vendica, chi taglia il “marcio” col marcio, chi uccide la “pietà”, dimostra solo di non essere “migliore” del proprio avversario o nemico. Il che risulta vieppiù inquietante ove si mostri oltretutto convinto di dover agire così per creare un “mondo migliore”.

Note:

01) da una pubblicazione del marzo 1962, a cura del “Comitato per onorare la memoria del compianto ing.Ugo Gobbato”;
02) G.Pansa: Il sangue dei vinti – Sperling & Kupfer, Milano 2003. Il passo è tratto dal risvolto di copertina. L’episodio non viene ricordato, ma quanto segue (e che Pansa ha preso dalla Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò) serve a renderlo comunque più chiaro: “L’imputato, per esempio un dirigente industriale, veniva processato una o anche due volte e sempre assolto. La terza volta, invece del processo, s’imbatteva in una squadra partigiana che lo faceva secco” (p.54);
03) il Giornale, 21ottobre 2003;
04) tutte le citazioni (letterali) di Angelo d’Orsi sono ricavate dalla registrazione e trascrizione dei suoi interventi al dibattito;
05) A.Solzenicyn: Arcipelago Gulag – Mondadori, Milano 1974, vol.I, p.10;
06) ibid., p.15;
07) ibid., p.13;
08) ibid., p.7;
09) A.Schopenhauer: La filosofia delle Università – Adelphi, Milano 1992, pp.50-51;
10) ibid., p. 35;
11) cfr. R.Steiner: Metamorfosi della vita dell’anima – Tilopa, Roma 1984;
12) ibid., pp. 57 e 58;
13) G.Pansa: op.cit., p.107.

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Di Francesco Giorgi
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