Il “gioco delle tre carte”

I

Dichiara Marco Revelli: “Io tenderei (…) a valorizzare molto l’elemento culturale rispetto a quello dei sottosistemi politici ed economici (…) La mentalità precede la prassi, dobbiamo essere in grado di produrre una mentalità mondiale perché dentro e dietro questa si possano innescare processi di conflittualità globale” (1).
Come per Marx era “strutturale” la vita economica ed erano “sovrastrutturali” la vita politica e quella culturale, e come, per Revelli, è “strutturale“ la vita culturale e sono “sovrastrutturali” la vita economica e quella politica, così, per qualcun altro, potrebbe essere quindi “strutturale” la vita politica e potrebbero essere “sovrastrutturali” la vita culturale e quella economica.
Come porre dunque fine a quest’insano “gioco delle tre carte”? Cessando di proiettare l’essenza dell’organismo sociale su uno dei tre apparati in cui si articola e mediante i quali esiste e si manifesta (“la vita incosciente – avverte appunto Steiner – è oggi molto forte nell’umanità”) (2). Considerare la vita culturale, la vita politica e la vita economica come tre diversi momenti del divenire di una medesima essenza è cosa infatti ben diversa dal privilegiarne una a danno delle altre due, conferendole (per via proiettiva) carattere di essenzialità (il comunismo, ad esempio, privilegia il momento politico a danno di quello economico e di quello culturale, mentre il liberismo privilegia il momento economico a danno di quello politico e di quello culturale).
“Il materialismo storico – scrive Umberto Cerroni – è, si può ben dire, l’introduzione nella concezione della storia di un punto di vista naturalistico che obbliga a vedere la società come un oggetto che sta fermo fuori della nostra mente e che non si conclude dunque né nella nostra mente né in un prodotto della nostra mente. Da qui l’assimilabilità del metodo di Marx al metodo scientifico-sperimentale e da qui anche la conclusione che alla scienza sperimentale il “marxismo” affida piena e incondizionata giurisdizione sul mondo della natura” (3).
Mai tuttavia si affiderebbe “piena e incondizionata giurisdizione” a quel “metodo scientifico-sperimentale” che dà il meglio di sé nell’indagine della natura inorganica se non si fosse convinti che è “inorganica” pure la natura della società: se non si fosse cioè convinti che la società è un inerte aggregato o – come dice Cerroni – un “oggetto che sta fermo fuori della nostra mente”, e non un vivo organismo.
Osserva in proposito Engels: “Il padre autentico del materialismo inglese è Bacone. La scienza naturale è per lui la sola vera scienza, e la fisica, basata sull’esperienza dei sensi, è la parte essenziale della scienza naturale” (4).
Si rifletta. Si possono vedere o toccare il muso, le zampe o la coda di un cane, ma non si può vedere né toccare “il” cane. Qualora però si stabilisse che il cane è magari il muso, ecco allora che questo, a differenza delle zampe e della coda, si darebbe non più come parte, ma come essenza o – nei termini precedenti – non più come “sovrastruttura” o “sottosistema”, bensì come “struttura” o “sistema”.
“L’autogoverno – asserisce Giorgio Cremaschi – parte (…) dalla centralità della persona, intesa come portatrice di coscienza, diritti, poteri e la mette in relazione con gli altri, per costruire consapevolmente mediazione e organizzazione sociale” (5).
D’accordo, ma da che cosa è costituita, per il materialismo, la “centralità della persona”? Dall’apparato neuro-sensoriale? Dall’apparato ritmico? Dall’apparato metabolico? E quale di questi apparati, se non addirittura degli organi che li compongono, sarebbe addirittura il portatore della “coscienza”, dei “diritti” e dei “poteri”?
Non si cerchi di cavarsela sostenendo che la “centralità della persona” è costituita dal corpo, poiché questo non si presta, quale insieme (o tutto ), a essere veduto o toccato, né tantomeno ridotto a uno dei suoi organi o apparati. Occorre infatti decidersi: o tale insieme lo si considera un nome , e si deve allora tornare alla realtà sensibile delle parti; o lo si considera una realtà , e si deve allora educare e sviluppare il pensiero affinché riesca a sperimentarla , portandosi al di là dell’ordinario piano sensibile o materiale.
Portarsi al di là di questo piano equivale però a superare il nominalismo e, superare il nominalismo, equivale a superare il materialismo. “Il nominalismo – dice infatti Engels – rappresenta l’elemento principale dei materialisti inglesi, come esso è, in generale, la prima espressione del materialismo” (6).
Morale della favola: la realtà dell’essenza (inabitante l’Io di ogni membro dell’organismo sociale), che i nominalisti e i materialisti credono coscientemente di negare, viene in realtà inconsciamente rimossa e proiettata, tanto da rendere patologico, sul piano individuale, il rapporto tra il pensare, il sentire e il volere e, sul piano sociale, quello tra la vita culturale, la vita politica e la vita economica.
Donde verrebbe fuori, altrimenti, quel “plusvalore” o “valore aggiunto” che li costringe a sovraordinare alle altre due una di queste tre realtà?

Note:

•  M.Revelli-G.Cremaschi: Liberismo o libertà – Editori Riuniti, Roma 1998, pp.184-185;
•  R.Steiner: Risposte della scienza dello spirito a problemi sociali e pedagogici – Antroposofica, Milano 1974, p.219;
•  U.Cerroni: Il pensiero di Marx – Editori Riuniti, Roma 1972, p.27;
•  F.Engels: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza – Edizioni in lingue estere, Mosca 1947, p.15;
•  M.Revelli-G.Cremaschi: op. cit. , p.193;
•  F.Engels: op.cit. , p.15.

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Di Lucio Russo
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