Il liberalismo e i suoi nemici

I

Nell’introdurre il suo libro, Terrore e liberalismo, Paul Berman fa questa affermazione: “Nella fantasia liberale c’è sempre stato qualcosa di stranamente debole, una semplicità o ingenuità, qualcosa di infantile. Una specie di innocenza che risale all’Ottocento e forse a prima, che ha più volte portato la gente con gli ideali più alti e i principi più illuminati a illudersi in modo pietoso sui suoi stessi peggiori nemici. Tutta la storia del Novecento, o almeno gran parte, si può considerare la storia dei nemici acerrimi del liberalismo, e la storia della riluttanza, da parte del liberalismo stesso, a capire i suoi nemici acerrimi” (1).
Nel corso del Novecento, suoi “nemici acerrimi” sono stati il comunismo, il fascismo e il nazismo; “fascismo e comunismo – si chiede però Berman – non potevano forse essere tentacoli di un unico, grande mostro delle profondità, di una nuova e orribile creatura della civiltà moderna, mai vista né nominata prima ma capace comunque di far emergere dagli abissi sinistri altri terribili tentacoli?” (2).
Un nuovo tentacolo del medesimo “mostro” è infatti rappresentato – secondo lui – dal fondamentalismo islamico. Saddam Hussein – nota ad esempio – “invece di voler ricreare l’Impero romano dell’antichità, come Mussolini, o quello del mito nazista, come Hitler, o la crociata medioevale spagnola per Cristo re, come Franco, voleva resuscitare l’Impero arabo del passato, dei giorni di Maometto e dei primi califfi ” (3).
Ma qual è dunque questo “mostro” che ha così in odio il liberalismo, inteso – come precisa Berman – non quale “filosofia del capitalismo sregolato”, ma come “filosofia della libertà” e “pratica della libertà” (4)? E’ presto detto: il totalitarismo.
Ideale di questa “orribile creatura” è infatti la “sottomissione”: proprio quell’ideale, cioè, che “la società liberale aveva lentamente minato”, e che il comunismo, il fascismo e il nazismo “volevano ristabilire in modo diverso. L’ideale dell’uno, invece che dei tanti. L’ideale di qualcosa di divino. Lo Stato totale, il movimento totale. “Totalitario” era la parola di Mussolini, che parlò a nome di tutti” (5).
Anche a nome, pertanto, dell’odierno fondamentalismo islamico. Ricorda Berman che secondo Tarik Ramadan (“filosofo del fondamentalismo contemporaneo”) “la spinta a ribellarsi segna il punto di divergenza tra la civiltà occidentale e l’Islam”. Nell’Islam, “non c’è l’impulso a ribellarsi (…) Nell’Islam, la sottomissione è tutto (…) La sottomissione è la strada per la giustizia sociale, per un’anima soddisfatta e per l’armonia con il mondo” (6).
Da una parte, dunque, l’ideale totalitario della sottomissione, dall’altra, l’ideale liberale della libertà.
Ma di quale libertà? Di quella che gli europei e gli occidentali si sono conquistata passando, grazie appunto al liberalismo, dall’antica sottomissione a un Dio collettivo e trascendente (e a coloro che erano investiti della Sua autorità) alla moderna libertà di un Io individuale e immanente.
Tale libertà, tuttavia, essendo stata perseguita e realizzata soprattutto sul piano giuridico-formale (per esempio, con le Carte dei diritti del 1689, del 1776 e del 1789), ha affrancato, sì, gli individui dalla soggezione all’assolutismo dell’autorità tradizionale, ma non è mai andata al di là di quel momento “negativo” che si usa indicare col termine “libertà da”.
“Il liberalismo – osserva appunto Raimondo Cubeddu – è anzitutto una teoria e una prassi per il controllo e la riduzione del potere”, e la sua storia “può anche essere vista come una plurisecolare lotta per affrancare quella particolare costruzione, che è lo Stato occidentale moderno, dalla religione e dall’etica” (7).
Un conto, tuttavia, è affrancarsi dalla religione e dall’etica delle Chiese (dando vita, ad esempio, a libere e laiche organizzazioni spirituali, indipendenti, sia dalle organizzazioni giuridiche, sia da quelle economiche), altro è affrancarsi dalla religione e dall’etica dello spirito per approdare poi all’ateismo, al relativismo etico o, come testimonia il liberismo, alla religione e all’etica del profitto.
Se “nella fantasia liberale – come dice Berman – c’è sempre stato qualcosa di stranamente debole”, lo si deve dunque al fatto che il pensiero che la sorregge ha invero l’ingenuità di credere che gli individui possano trattenersi in eterno nella dimensione “negativa” (formale) della “libertà da” senza mai passare, evolvendosi, a quella positiva (spirituale) della “libertà per” o, il che è lo stesso, dall’individualismo borghese dell’ego all’individualismo etico dell’Io o del Sé spirituale.
Ma perché patisce questa ingenuità? Perché, poco o nulla sapendo dell’uomo, nulla sa delle leggi che ne governano l’evoluzione animica.
Oggi, ad esempio, si ritiene corretto giudicare gli animali pluricellulari più evoluti di quelli unicellulari o, poniamo, la farfalla più evoluta della crisalide, e la crisalide più evoluta del bruco, perché tutti sanno trattarsi di fasi evolutive di uno stesso essere che assume la forma di farfalla dopo aver rivestito quella di crisalide, e la forma di crisalide dopo aver rivestito quella di bruco: perché tutti sanno, insomma, che la farfalla non è che il futuro del bruco e della crisalide, mentre il bruco e la crisalide non sono che il passato della farfalla.
Ma per quale ragione, allora, si ritiene “politicamente scorretto” giudicare, nell’ambito del divenire di una stessa umanità, una civiltà più evoluta di un’altra? Per quale ragione, cioè, si ritiene scorretto il “relativismo naturale”, ma non il “relativismo culturale”? E’ semplice: perché il materialismo adotta la concezione evoluzionistica per la sola sfera del corpo e della natura, convinto com’è che l’evoluzione dell’anima o della cultura non ne costituisce che un epifenomeno (o una “sovrastruttura”).
A tale concezione, esso dà, per di più, un’impronta darwinistica: cioè a dire, un’impronta che, qualora venisse data pure all’evoluzione della cultura, giustificherebbe la sopraffazione, da parte delle culture più forti, di quelle più deboli. Solo una concezione evoluzionistica spiritualizzata (cristificata) potrebbe infatti distinguere serenamente i più evoluti dai meno evoluti, poiché insegnerebbe ai primi (nello spirito della “lavanda dei piedi”) ad aiutare, amare e servire i secondi, e non a sopraffarli. Ma il liberalismo – si obietterà – è idealistico, non materialistico; è vero, ma è idealistico in chiave nominalistica, e per ciò stesso materialistica. Friedrich Engels, avendolo ben capito, diceva infatti: “Il nominalismo rappresenta l’elemento principale dei materialisti inglesi, come esso è, in generale, la prima espressione del materialismo” (8).
In realtà, la coscienza moderna può credersi razionalista, illuminista, idealista, spiritualista o quant’altro, ma è di fatto materialista (ed egoista). E lo è perché la modernità e l’autocoscienza sono sorte nel momento stesso in cui l’Io e il pensiero hanno cominciato a prendere coscienza di sé (cogito, ergo sum) riflettendosi nel corpo fisico o, più precisamente, nella corteccia cerebrale. “Passando al corpo fisico, – spiega infatti Steiner – i pensieri perdono la loro vitalità. Diventano morti; sono formazioni spiritualmente morte” (9).
Può rendersene conto, però, solo chi abbia occhi per quel processo evolutivo che, muovendo dall’anima “senziente” (3564-747 a.C.), dà prima vita all’anima “razionale o affettiva” (747 a.C.-1413 d.C.) e poi all’anima “cosciente”: ossia a quell’anima che, calandosi nel mondo fisico e facendovi leva, comincia a emanciparsi dai precedenti e cogenti rapporti con il mondo spirituale e ad aprire così la strada all’individualismo e alla scienza moderna (che nasce, non a caso, quale “meccanica”). “L’uomo – osserva appunto Steiner – non sarebbe potuto giungere allo sviluppo della sua libera volontà in nessun altro modo che trasferendosi in una sfera in cui non fossero viventi gli esseri spirituali a lui collegati fin dal principio” (10).
Lo scrittore egiziano Sayyd Qutb (fatto impiccare da Nasser nel 1966) credeva, al riguardo, di poter rimproverare all’Occidente di aver confinato Dio nella sfera dei cieli per allontanarlo in tal modo “dalla società ordinaria” (11). E’ vero, ma quello che Qutb non capiva è che un Dio presente teocraticamente nella “società ordinaria”, è ben diverso da un Dio che, dopo esserne stato allontanato, vi venga riportato laicamente, liberamente e spiritualmente da ogni singolo uomo, o, in altre parole, che un Dio che sta al di fuori e al di sopra dell’Io è ben diverso da un Dio che sta all’interno dell’Io.
Dal nostro punto di vista, non è dunque azzardato contrapporre al materialismo liberale (che si guarda dal potere), il materialismo aggressivo e illiberale dei totalitarismi (che bramano il potere).
Sostiene sempre Berman che alle origini del fondamentalismo islamico c’è l’influenza di quelle dottrine europee e occidentali nelle quali l’aspirazione alla libertà si è venuta a coniugare con una morbosa attrazione per la morte, l’omicidio e il suicidio.
“Il vero pericolo – ha per l’appunto affermato nel corso di un’intervista – non è solo al Qaida, ma il culto della morte e del suicidio come atto di ribellione alla società borghese. E’ un’idea nata in Occidente, scritta nelle poesie di Baudelaire e nei libri di Dostoevskij, e diventata poi movimento di massa con il fascismo, il franchismo, il nazismo e il comunismo. In Occidente è stata sconfitta, ma è stata esportata nel mondo islamico e lì si è sviluppata” (12).
Noi siamo invece convinti che l’Occidente non ha sconfitto tale idea, e che per capire quel che è accaduto nel Novecento, e quel che sta accadendo oggi, non basta – come fa Berman – inscrivere i totalitarismi nella categoria dei fenomeni irrazionali o patologici, ma occorre anche scoprire (e non certo al solito livello politico-economico) il “senso” del non-senso o la “razionalità” dell’irrazionalità (“La confusione – diceva Henry Miller – è un ordine incompreso”) (13).
Ammesso, infatti, che alle origini del fondamentalismo islamico si ritrovi l’influenza delle dottrine indicate da Berman (ma che erano state già messe in luce – come ricorda – da Albert Camus, ne L’uomo in rivolta), resta sempre da spiegare come mai il sano impulso alla libertà, che ha reso possibile la nascita e la maturazione scientifico-naturale dell’anima cosciente e dell’ego, si sia successivamente alterato, pervertito e corrotto tanto da trasformarsi in un impulso distruttivo e autodistruttivo.
In una nostra recente “noterella”, abbiamo in proposito osservato: “L’evoluzione (liberale) dell’individualismo europeo e occidentale ha ieri patito la regressione autoritaria e collettivistica del comunismo, del fascismo e del nazismo, e rischia oggi di patire quella del fondamentalismo islamico, perché è rimasta fissata, inconsciamente, al suo primo e basale stadio “egoico”: ossia a uno stadio (quello dell’habeo, ergo sum) che si fonda sul pensiero intellettuale o rappresentativo, strettamente vincolato agli organi di senso fisici e al cervello (alla neocorteccia)” (14).
Fatto si è che la coscienza della libertà, basata – come quella liberale – sul corpo fisico e sul pensiero astratto (sull’io corporeo o, tutt’al più, psichico), avrebbe dovuto evolversi, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, nella direzione scientifico-spirituale indicata (nel 1894) da Steiner ne La filosofia della libertà (15), permettendo così all’ego (l’“unico” di Max Stirner) (16) di tramutarsi in un Io o in un Sé spirituale (e, sul piano collettivo, alla cosiddetta società “capitalistico-borghese” di trasformarsi in un “organismo sociale triarticolato”) (17).
Questo però non è avvenuto, e l’impulso volto a realizzare moralmente la morte dell’ego e la sua resurrezione nell’Io o nel Sé spirituale, si è allora convertito in un impulso volto a realizzare materialmente (e quindi nichilisticamente) la morte del corpo.
Come si vede, l’impulso originario (l’ispirazione originaria) si è alterato e corrotto per il fatto stesso di essere stato interpretato materialisticamente (vale a dire, dalla coscienza intellettuale o rappresentativa, e non da quella “ispirativa”).
Per meglio intendere questa particolare dinamica, si provi a immaginare qualcuno cui venga dato, in sogno, il consiglio di andare in giro nudo. Non è difficile capire, in questo caso, che il seguire tale suggerimento essendo più schietti e sinceri (mettendosi più “a nudo”) è cosa del tutto diversa dal seguirlo andando in giro in costume adamitico. In tanto è cosa del tutto diversa, però, in quanto il suggerimento del sogno è stato seguito e attuato, in un caso, sul piano spirituale o morale e, nell’altro, sul piano materiale.
Incontro alle ispirazioni che risalgono dall’inconscio dovrebbe essere dunque portato un pensare che, comprendendole, accogliendole e attuandole per quello che sono, non le corrompa o snaturi. Non è il pensiero astratto che può però soddisfare un’esigenza del genere.
“Nel percorso dall’inconscio al conscio – osserva in proposito Steiner – l’aspirazione alla libertà di pensiero si tramuta nel suo contrario (…) Bisogna osservare con cura (…) da un lato la superficie dell’anima nella coscienza abituale, dall’altro il profondo dell’anima, le regioni dell’inconscio (…) L’umanità contemporanea (…) non sa ancora che nell’effettiva profondità inconscia della sua anima aspira a conoscenze spirituali” (18).
Da questo punto di vista, il male risulta dunque effetto, più che di una privatio boni (Agostino), di una dislocatio boni: effetto, cioè, di una esiziale trasposizione, sul piano sensibile (ossia, al di qua della “soglia”), di quanto dovrebbe essere viceversa realizzato sul piano extrasensibile (ossia, al di là della “soglia”).
Tutta la storia del Novecento – dice Berman – è anche “la storia della riluttanza, da parte del liberalismo stesso, a capire i suoi nemici acerrimi”.
Ma il liberalismo ha avuto, e tuttora ha “riluttanza” a capire non solo “i suoi nemici acerrimi”, ma anche se stesso e la propria ingravescente malattia: quella stessa malattia che gli viene invece costantemente e spietatamente rammentata dai suoi nemici.
Ne Il futuro sarà dell’Islam, il già citato Sayyd Qutb la descriveva ad esempio così: “L’ispirazione, l’intelligenza e la morale dell’uomo stavano degenerando. Le relazioni sessuali stavano scendendo “a un livello inferiore a quello delle bestie”. L’uomo era miserabile, ansioso e scettico, le sue “funzioni di base non operative, debilitate e atrofizzate”, “sofferente di afflizioni, ansia, malattie nervose e mentali, perversione, idiozia, follia e manie criminali”. L’uomo stava girovagando “senza meta”, “ammazzando la monotonia e la stanchezza con mezzi che stremano la mente, il corpo e i nervi: usando narcotici, alcol e simili idee oscure e pervertite, dottrine disperate e ambigue come l’esistenzialismo e le disastrose ideologie analoghe”; e tutto ciò perché gli europei e gli occidentali “hanno perso contatto con la loro stessa anima” (19).
Orbene, una descrizione del genere sarà pure unilaterale, ma non si può dire che non risponda affatto a verità. Come potrebbero, del resto, non perdere contatto “con la loro stessa anima” degli uomini cui il materialismo (e quello, in specie, delle odierne neuroscienze) insegna che esiste un cervello (addirittura “emotivo”) (20), e non un’anima?
Per concludere, non ci sentiamo di dire dunque che questo: “Liberalismo cura te stesso, e vedrai che, con lo sparire della tua malattia, spariranno anche i tuoi acerrimi nemici”.

Note:

01) P.Berman: Terrore e liberalismo – Einaudi, Torino 2004, pp. XI-XII;
02) ibid., p.28;
03) ibid., p.70;
04) ibid., p.XI;
05) ibid., pp. 54-55;
06) ibid., pp.32 e 33;
07) R.Cubeddu: Atlante del liberalismo – Ideazione, Roma 1997, p.12;
08) F.Engels: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza – Edizioni in lingue estere, Mosca 1947, p.15;
09) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.76;
10) ibid., p.77;
11) P.Berman: op.cit., p.99;
12) Il Foglio, 3 luglio 2003;
13) sostiene al riguardo Berman che è “l’antica ingenuità liberale dell’Ottocento” a portare a credere che “anche l’irragionevole deve essere, in qualche modo, ragionevole” (p.150). C’è una bella differenza, tuttavia, tra il ricercare la “ragionevolezza” dell’irragionevole nelle regioni più profonde e incoscienti della vita dell’anima, e il ricercarla invece sul piano ordinario come fanno tutti quelli che sono banalmente convinti – per dirla ancora con Berman – “che il mondo agisca in modo sensato, senza misteri, contraddizioni, ombre o follia” (p.182);
14) noterella, 7 ottobre 2004;
15) cfr. R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
16) cfr. M.Stirner: L’unico e la sua proprietà – Mursia, Milano 1993;
17) cfr. R.Steiner: I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980;
18) R.Steiner: La questione sociale: un problema di consapevolezza – Antroposofica, Milano 1992, pp.84-85;
19) P.Berman: op. cit., pp.82-83;
20) cfr. Daniel Goleman: Intelligenza emotiva – Rizzoli, Milano 1996.

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Di Francesco Giorgi
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