Le opere scientifiche di Goethe (48)

L

La volta scorsa, abbiamo finito anche il secondo paragrafo del sedicesimo capitolo; stasera cominceremo quindi il terzo.

Scrive Steiner: “Come non si possono “dissolvere” i processi del mondo corporeo in una meccanica degli atomi, altrettanto poco si possono dissolvere in rapporti di energia. Così procedendo non si fa che distogliere l’attenzione dal contenuto del mondo reale dei sensi per rivolgerla a un’astrazione irreale, il cui misero fondo di qualità è pur ricavato anch’esso dal mondo sensibile. Non si può spiegare uno dei gruppi di qualità del mondo dei sensi: luce, colori, suoni, odori, sapori, condizioni di calore, ecc., “dissolvendolo” nell’altro gruppo di qualità del medesimo mondo sensibile: grandezza, forma, posizione, numero, energia, ecc.. Non questo “dissolvimento” di un genere di qualità nell’altro, può essere il compito della scienza naturale, bensì la ricerca di relazioni e rapporti tra le varie qualità percettibili del mondo sensibile” (p. 223).

Abbiamo detto, l’altra volta, che, per risalire dalla coscienza dello spazio e da quella del tempo alla coscienza della qualità, occorre varcare la soglia che separa la sfera dell’esistere da quella dell’essere. Questo non deve farci però dimenticare che il primo e più importante passo consiste nel risalire dalla coscienza (morta) dello spazio a quella (viva) del tempo.
Quanti vorrebbero portarsi – al pari di Ostwald – al di là della materia in nome dell’energia, non hanno in genere alcuna coscienza di che cosa essa sia: non hanno cioè alcuna coscienza di portarsi dalla sfera statica dello spazio a quella dinamica del tempo, o dalla regione in cui giacciono le cose a quella in cui agiscono invece le forze.
Sono convinti di superare così il materialismo, ma in realtà non lo superano; e non lo superano poichè attribuiscono il possesso dell’energia (in quanto “grandezza fisica”) alla sostanza, che le è subordinata (sub-stăntia), e non alla qualità (all’essenza), che le è sovraordinata.
Pensiamo ad esempio al cervello. Una cosa è il cervello come oggetto (fisico o anatomico), altra il cervello come attività (eterica o fisiologica). Oggigiorno, non pochi infatti sostengono ch’è impossibile attribuire l’attività mentale (extrasensibile) alla sostanza cerebrale (sensibile). Già, ma se tale attività, pur svolgendosi nel cervello, non è del cervello, di chi è allora? Quale ne è ossia il soggetto?
Come si vede, ci si arresta davanti alla soglia: ci si arresta, ossia, di fronte alla realtà di quell’essenza che in tanto si è incapaci di pensare nella sua natura extrasensibile, in quanto non si è stati in precedenza capaci di pensare la realtà dell’energia nella sua natura sensibile-extrasensibile (vale a dire, nella sua funzione mediatrice).
Fatto si è che, in natura, le sostanze (fisiche) sono subordinate alle forze (eteriche), le forze sono subordinate alle leggi (alle essenze del mondo astrale), e le leggi sono infine subordinate a un principio unico (l’Io), che tutte le sussume e armonizza.
Dice Steiner che “dissolvendo” i processi del mondo corporeo in rapporti di energia, “non si fa che distogliere l’attenzione dal contenuto del mondo reale dei sensi per rivolgerla a un’astrazione irreale”: ovvero, a un qualcosa che in tanto è “irreale” in quanto è stato appunto astratto o estratto dall’insieme reale di cui non è che parte o momento.
Essendo l’oggetto – come abbiamo detto – un insieme di qualità, sarebbe dunque doveroso ricercare quale sia l’essenza che comprende e sussume tutte le qualità, anziché promuoverne alcune al rango (primario) di “essenza” (oggettiva), degradando le altre a quello (secondario) di “manifestazione” (soggettiva).
E’ peraltro singolare, a questo proposito, che si stimi e ammiri tanto Kant, trascurando o ignorando, al contempo, la sua distinzione tra concetti “sovraordinati” e concetti “subordinati”: vale a dire, tra concetti (superiori), che comprendono e sussumono altri concetti, e concetti (inferiori), che sono viceversa compresi e sussunti da altri concetti. (“L’estensione o la sfera di un concetto – scrive infatti – è tanto più grande quante più cose stanno sotto quel concetto e possono essere pensate con esso” – Logica – Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 88).
Dice ancora Steiner: “Non questo “dissolvimento” di un genere di qualità nell’altro, può essere il compito della scienza naturale, bensì la ricerca di relazioni e rapporti tra le varie qualità percettibili del mondo sensibile”. Ogni “insieme” si caratterizza infatti per le qualità che comprende, ma, soprattutto, per la reciproca relazione in cui queste si trovano. Al riguardo, abbiamo già fatto, una sera, l’esempio delle parole. Prendiamo la parola orma: differisce forse dalla parola ramo per il numero delle lettere o per le consonanti e vocali che la compongono? No; differisce, piuttosto, per il modo in cui queste stanno in rapporto tra loro; tale rapporto non è però una “cosa”: cioè a dire, un quid che si possa vedere allo stesso modo delle singole consonanti e vocali; così come non sono “cose”, a maggior ragione, tanto il concetto espresso, mediante la prima relazione, dalla parola orma, quanto quello espresso, mediante la seconda, dalla parola ramo.
Come dunque il concetto si esprime, nella sfera del linguaggio, disponendo le consonanti e le vocali in una particolare relazione, così l’essenza si esprime, nel campo della natura (rammentiamoci della differenza, nella logica hegeliana, tra la logica del concetto e la logica dell’essenza), disponendo gli elementi (quali che siano) in una particolare relazione. Per scoprire l’essenza, è necessario pertanto risalire prima dagli elementi (fisici) alla relazione (eterica), e poi dalla relazione al mondo (astrale) delle essenze o delle idee.

Scrive Steiner: “Così scopriamo certe condizioni poste le quali una percezione sensibile ne tira necessariamente dietro a sé un’altra; e scopriamo che tra certi fenomeni esiste un nesso più intimo che non tra altri. Allora non allacciamo più tra loro i fenomeni nel modo in cui si offrono all’osservazione casuale; poiché riconosciamo che certe connessioni di fenomeni sono necessarie; di fronte a queste, altre sono accidentali. Goethe chiama le connessioni necessarie tra i fenomeni, fenomeni tipici o primordiali (Urphänomene). L’espressione di un fenomeno-tipo consiste sempre in ciò: che di una data percezione sensibile si dice ch’essa ne provoca necessariamente un’altra. Questa espressione è ciò che si chiama una legge naturale” (pp. 223-224).

Come vedete, non abbiamo più a che fare, qui, con la relazione “interna” tra le qualità di un singolo fenomeno, bensì con la relazione “esterna” tra due o più fenomeni. Ma ciò che vale per la prima vale anche per la seconda. Cos’altro si manifesta, infatti, mediante quella “connessione necessaria” che chiamiamo “legge naturale”, se non un’essenza (più ampia o più estesa) sovraordinata a quelle dei singoli fenomeni?
Ricordate che cosa ha detto Steiner? Che “Goethe pensa il mondo come un circolo di circoli” (Le Opere scientifiche di Goethe (15) – ndr). Ebbene, non stiamo appunto scoprendo che il mondo è un’essenza di essenze, un concetto di concetti o un’idea d’idee? Osserva giusto Hegel: “La verità è il movimento di lei in lei stessa”; “mediante siffatto movimento i puri pensieri divengon concetti e soltanto allora sono ciò che essi veramente sono: automovimenti, circoli; sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali” (Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 28 e 20).

Scrive Steiner: ”Il fenomeno-tipo rappresenta una connessione necessaria tra elementi del mondo della percezione”; e, dopo aver riportato la seguente affermazione di H.Helmholtz (Hermann von Helmholtz, 1821-1894 – nda): “E’ deplorevole che Goethe non abbia conosciuto a quel tempo la teoria ondulatoria della luce, allora già scoperta da Huyghens (Christian Huyghens, 1629-1695 – nda); questa gli avrebbe fornito un fenomeno-tipo molto più giusto ed evidente di quel processo tanto complicato e inadatto scelto da lui a questo scopo nei mezzi torbidi”, aggiunge: ”Il “dissolversi” dei processi sensibilmente percettibili in movimenti meccanici impercettibili è talmente diventato un’abitudine per i fisici moderni, ch’essi sembrano non accorgersi menomamente di porre un’astrazione al posto della realtà. Sentenze come quella di Helmholtz si potranno pronunciare solo dopo che saranno state eliminate dal mondo tutte le sentenze goethiane del genere di questa: “Il vertice della scienza sarebbe comprendere che il fatto è già teoria. L’azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale della cromatica. Ci si guardi dal cercare alcunché dietro ai fenomeni; essi stessi sono la teoria”. Goethe resta entro il mondo dei fenomeni; invece i fisici moderni raccolgono alcuni brandelli dal mondo dei fenomeni e li trasferiscono dietro i fenomeni, per poi derivare da quelle realtà ipotetiche i fenomeni della vera esperienza percepibile” (pp. 224-225).

Sapete che la via indicata da Steiner viene detta la “via del pensiero”. Tuttavia, alla luce di quanto abbiamo appena letto, potrebbe essere anche detta la “via della percezione”. Asserire – come fa Goethe – che il fenomeno è già teoria, equivale infatti ad asserire che il percetto è già concetto (ch’è quello che abbiamo tentato fin qui di dimostrare). Nella medesima misura in cui ci si allontana dalla percezione sensibile ci si allontana pertanto anche dal concetto o, il che è lo stesso, dalla percezione spirituale. Chi si allontana, sia dalla percezione sensibile, sia da quella spirituale, si allontana dunque dalla realtà, finendo fatalmente con lo smarrirsi in quelle astrazioni di cui sono assai ghiotte le forze ostacolatrici.
Abbiamo finito il terzo paragrafo. Cominciamo subito il quarto, ch’è peraltro assai breve.

Scrive Steiner: “Alcuni fisici più giovani affermano di non attribuire al concetto di materia in movimento nessun senso che vada oltre l’esperienza”. Cita poi un brano in cui uno di questi, Antonio Lampa (“che ha la singolare bravura di essere al tempo stesso seguace della teoria meccanica della natura e della mistica indiana”), polemizza con Ostwald, sostenendo (nelle “sue Notti di un cercatore, Braunschweig, 1893”) che la lotta di questi è donchisciottesca perché “il gigante del materialismo scientifico” non esiste, e così continua: “Lampa dev’essere designato come il tipo del naturalista contemporaneo normale. Questi applica la spiegazione meccanica della natura perché è comoda da maneggiare. Ma evita di riflettere sul suo vero carattere, perché teme di impigliarsi in contraddizioni che il suo pensiero non si sente pronto a superare. Come può uno che ama il chiaro pensare, congiungere un senso col concetto di materia, senza andare oltre il mondo dell’esperienza? In questo esistono corpi di determinata grandezza e posizione; vi sono movimenti e forze, e inoltre i fenomeni di luce, colore, calore, elettricità, vita, ecc.. L’esperienza non ci dice che la grandezza, il colore, il calore, ecc. siano attaccati a una materia. In nessun luogo noi possiamo trovare la materia entro il mondo dell’esperienza. Chi vuol pensarla deve aggiungerla all’esperienza col pensiero” (pp. 225-226).

Non conosco questo Antonio Lampa, ma il fatto che si tratti di un fisico che “ha la singolare bravura – come dice Steiner – di essere al tempo stesso seguace della teoria meccanica della natura e della mistica indiana”, mi fa inevitabilmente pensare al fisico americano Fritjof Capra (n.1939) che, nel suo noto Il Tao della fisica (Adelphi, Milano 1994), come si legge nel retrocopertina: “Spiega al lettore da una parte i concetti, i paradossi e gli enigmi della teoria della relatività, della meccanica quantistica e del mondo submicroscopico; e, dall’altra, gli fa assaporare il fascino profondo e sconcertante delle filosofie mistiche orientali”.
Chi “ama il chiaro pensare”, e si sforza perciò di procedere – per dirla con Scaligero – lungo La via della volontà solare (Tilopa, Roma 1986), non si lascia però ingannare o illudere da questo “materialismo mistico” o “misticismo materialistico”, poiché non fatica molto a riconoscerlo frutto del sinistro connubio tra le forze arimaniche (meccanicistiche) e quelle luciferiche (mistiche). Un frutto indubbiamente intelligente, anzi intelligentissimo; ci si deve però guardare dalla seduzione dei “cervelloni”, in quanto ciò ch’è più cerebrale non è necessariamente più umano. L’essere umano è infatti in parte “corteccia”, mentre gli esseri arimanici sono solo “corteccia”.
Dice Steiner che “in nessun luogo noi possiamo trovare la materia entro il mondo dell’esperienza”; in nessun luogo del mondo dell’esperienza possiamo in effetti trovare la materia “senza principio né fine”, “indistruttibile”, “eterna” o “immutabile”. E perché? Perché tale “materia” è un’idea, e non (come si crede, e si vorrebbe far credere) una cosa, dotata più o meno di energia.

Scrive Steiner: “Un tale aggiungere, col pensiero, la materia ai fenomeni del mondo dell’esperienza si riscontra nelle considerazioni fisiche e fisiologiche divenute familiari alla scienza naturale moderna sotto l’influsso di Kant e di Johannes Müller (…) Se non esistesse un occhio capace di sentire, non vi sarebbe nemmeno colore, ma solo etere in movimento: così crede lo scienziato moderno della natura (e così crede tuttora Boncinelli, quando dice – come abbiamo visto un paio di volte fa – che, in natura, il “giallo paglierino” non esiste – nda). L’etere sarebbe oggettivo, il colore soltanto soggettivo, formato unicamente nel corpo umano. Il prof. Wundt di Lipsia (Wilhelm Wundt, 1832-1920 – nda), che si sente a volte decantare come uno dei sommi filosofi contemporanei, dice perciò della materia ch’essa è un sostrato “che non ci diventa mai visibile esso stesso, ma sempre solo nei suoi effetti”. E, nella sua Logica, aggiunge che “una spiegazione scevra di contraddizioni dei fenomeni riesce solamente quando si presupponga un tale sostrato”. L’illusione cartesiana delle rappresentazioni chiare e confuse, è divenuta la rappresentazione fondamentale della fisica” (pp. 226-227).

Risposta a una domanda
Prendendo spunto da un’affermazione di Heisenberg, abbiamo detto, una sera (Le opere scientifiche di Goethe (12) ndr), che ciò ch’è vero è sempre utile, mentre ciò ch’è utile non sempre è vero, precisando poi che ciò ch’è vero è utile all’essere umano, mentre ciò che non è vero è utile a qualche altro essere; e poco tempo fa (Le opere scientifiche di Goethe (41) – ndr), abbiamo anche letto le seguenti parole di Steiner: “Bisogna avere il coraggio di ammettere tutto ciò di fronte alla scienza naturale contemporanea, nonostante le poderose ammirabili conquiste ch’essa ha da registrare nel campo della tecnica. Poiché tali conquiste non hanno nulla a che fare con un vero bisogno di conoscenza della natura (…) Altro è osservare i processi della natura per porre le loro forze al servizio della tecnica, altro è cercare, con l’aiuto di tali processi, di guardare più addentro nell’essenza della scienza naturale. Scienza vera è soltanto là dove lo spirito cerca appagamento dei suoi propri bisogni, senza scopi esteriori”.
Qual è dunque il problema? E’ che dell’appagamento dei bisogni dello spirito, senza scopi esteriori, non vi è quasi più traccia. La scienza moderna, che pure si era emancipata dalla filosofia medioevale, in quanto “ancella della teologia”, è ormai infatti divenuta, in specie dopo la seconda guerra mondiale, “ancella dell’economia”, e per ciò stesso ancilla sempre più dell’utile e sempre meno del vero; al punto che Federico di Trocchio (professore di Storia della Scienza all’Università di Lecce), nella prefazione del suo Le bugie della Scienza, è giunto a scrivere: “Imbrogliare è da sempre un’arte. Da qualche tempo è diventato anche una scienza. Proporrei di chiamarla imbrogliotica o meglio, come suggerisce Tullio De Mauro, imbroglionica. Si tratta di una disciplina d’avanguardia che non costituisce materia d’insegnamento ma fa ormai parte integrante del bagaglio culturale degli scienziati di professione. Essa non consiste nel rendere credibile l’incredibile e l’impossibile alla gente comune, come fanno astrologi, maghi, guaritori e volgari impostori, ma nel fare la stessa cosa con i propri colleghi. Il che è nello stesso tempo più facile e più difficile. Più facile perché spesso gli addetti ai lavori sono stranamente più ingenui degli ignoranti (…) Più difficile perché bisogna conoscere la materia e i dettagli delle tecniche sperimentali (…) L’imbroglionica è dunque la scienza che insegna agli scienziati come imbrogliare gli altri scienziati. Questi a loro volta convincono i giornalisti i quali infine seducono le masse” (Mondadori-DeAgostini, Milano 1994, pp. 3-4).
Occorre dire, però, che l’imbroglionica, prima ancora di essere – come dice di Trocchio – “la scienza che insegna agli scienziati come imbrogliare gli altri scienziati”, è la scienza con la quale Arimane insegna come imbrogliare anzitutto (e inconsciamente) se stessi.
Abbiamo finito anche il quarto paragrafo. La prossima settimana ci occuperemo del quinto.

Roma, 30 ottobre 2001

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Di Lucio Russo
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