Vino e otri

V

In un nostro precedente articolo (1), a commento di un’affermazione fatta da Benedetto XVI nel corso del suo noto discorso tenuto a Regensburg (nel settembre 2006), abbiamo scritto: “A nostro avviso, c’è però poco da sperare che una “teologia impegnata nella riflessione biblica”, in chiave anacronisticamente dottrinaria e dogmatica, possa davvero entrare “nella disputa del tempo presente” (a meno che tale disputa, come quasi sempre accade, non si risolva in chiacchiere). Basterebbe considerare un solo fatto: un tempo, per poter conoscere l’uomo, bisognava conoscere Dio; oggi, per poter conoscere Dio, bisogna conoscere l’uomo. Ch’è come dire che, un tempo, si doveva muovere dalla teologia per arrivare all’antropologia, mentre, oggi, si deve muovere dall’antropologia per arrivare alla teologia”.
Ebbene, sempre Benedetto XVI, nel suo recente Gesù di Nazaret, scrive: “Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo” (2).
“Solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo”: come si vede, si rimane nell’orbita dell’anima razionale o affettiva e del processo deduttivo, e quindi in un’orbita che si trova al di qua di quella dell’anima cosciente e del processo induttivo (3).
Si riconosce infatti, giustamente, che un conoscere scientifico-naturale “che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo”, ma anziché auspicare o promuovere un conoscere scientifico-spirituale che, varcando tale limite, possa raggiungerla, si preferisce versare il “vino nuovo” (l’incarnazione del Logos o – come dice il Papa – “l’effettivo ingresso di Dio nella storia reale”) (4) nell’”otre vecchio” dell’anima razionale o affettiva.
Non è però così (e la realtà lo va dolorosamente dimostrando) che si può sperare di arginare, né tantomeno di superare, il profondo smarrimento in cui è caduta, e sempre più sta cadendo, l’attuale coscienza cristiana (o cristianità) europea (5).
“Nessuno – ammonisce infatti il Vangelo – versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi” (Mr 2,22).
Incuranti di questo ammonimento, i rappresentanti della modernità perseverano però nel versare nell’”otre nuovo” (nell’anima cosciente) il “vino vecchio” (la metafisica scientista e materialista) (6), mentre quelli della Chiesa perseverano nel versare il “vino nuovo” nell’”otre vecchio” (nell’aristotelismo e nel tomismo).
Non abbiamo qui però intenzione di discutere il libro (7), né di operare un confronto tra la gesuologia di Benedetto XVI (in cui si distingue il “Gesù storico” dal “Gesù della fede”) e la cristologia di Steiner (in cui si distingue la persona di Gesù dall’entità del Cristo). Vorremmo piuttosto approfittare di questa lettura per mettere in evidenza un paio di sintomi dell’azione limitante esercitata dall’anima razionale o affettiva (madre della filosofia greca, ma anche del diritto romano).
Il primo è questo.
L’anima razionale o affettiva (la cui evoluzione va – come sappiamo – dal 747 a.C. al 1413 d.C.) riconosce sì, astrattamente, che “in principio era la Parola”, ma è portata poi di fatto ad agire come se “in principio” fosse la “Scrittura”: come cioè se “in principio” fosse una realtà divenuta (scripta manent), e non una realtà in divenire (verba volant), e non si potesse pertanto far altro che darsi instancabilmente alla sua (analitica e scolastica) interpretazione.
Una realtà “divenuta” è però una realtà che, giacendo nello spazio e non vivendo nel tempo, risulta necessariamente affine a quella scolpita (una volta per sempre) nelle tavole della “Legge”, così come le sue interpretazioni (gli accertamenti e le attribuzioni di significato) risultano conseguentemente affini a quelle dei giuristi (i puntuali e continui rimandi ai testi della Sacra Scrittura non ricordano forse, ad esempio, i rimandi agli articoli di legge o ai loro commi?) (8).
Il Papa afferma – è vero – che “gli autentici interpreti della Sacra Scrittura” sono “i santi” (9); ma è noto che gran parte di questi “autentici interpreti della Sacra Scrittura”, dichiarati “santi” dopo la loro morte, non sono stati in vita riconosciuti e trattati come tali dai teologi o dalle gerarchie ecclesiastiche (ne è un moderno esempio la posizione assunta dalla Chiesa, nella persona di Padre Agostino Gemelli, nei riguardi di Padre Pio).
E’ significativo dunque che, in questo libro, il Papa: sottolinei insistentemente gli elementi di continuità tra il Nuovo e il Vecchio Testamento; sostenga che il Vangelo di Giovanni è basato “totalmente sull’Antico Testamento” (in contrasto con il teologo evangelico Rudolf Bultmann (1884-1976) che lo riteneva invece “radicato nello gnosticismo e dunque estraneo alla matrice veterotestamentaria e giudaica” (10); parli del “Discorso della montagna” o delle “Beatitudini” come della “nuova Torah, portata da Gesù” (11), di Gesù come del “nuovo Mosè” (12) o come di Colui che “siede sulla “cattedra” come maestro di Israele e come maestro dell’umanità in generale” (13); e del “battesimo nel Giordano” (ossia del momento in cui – secondo la scienza dello spirito – il Cristo s’incarna in Gesù) come del momento in cui Gesù riceve “una sorta di investitura formale nell’incarico” (14).
Ciò non vuol dire, naturalmente, che manchi di sottolineare, quali elementi di novità, che Gesù, in quanto (unigenito) “Figlio di Dio”, è ben più di un “profeta”, che, in Lui, “la Legge è diventata Persona” (15) o che “la “legge di Cristo” è la libertà” (16).
Il tutto ha comunque uno spiccato carattere “dotto” e “intellettuale”, e non c’è perciò da sperare che possa contribuire a cambiare (spiritualmente) le cose.
Fatto si è – diciamolo – che andare, da spiriti liberi, al di là della “Legge” (per compierla) e della “Scrittura” (per vivificarla), muovendo in modo consapevole e devoto incontro all’eterno flusso di grazia della Parola (Spiritus ubi vult spirat), fa in genere paura (17), allo stesso modo in cui fa paura il sentirsi mancare il terreno sotto i piedi o il “camminare sulle acque”.
Ma non è questa – ci si potrebbe in ogni caso domandare – la medesima paura che afferrò e irretì il “giovane ricco”, cui il Cristo aveva detto: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21)?
Si rifletta: quale Dio può dire: “Vieni e seguimi”, se non un Dio che non giace nello spazio, ma che vive e procede nel tempo, e che, per ciò stesso, diviene mentre è ed è mentre diviene?
Il secondo sintomo è questo.
Abbiamo detto, in precedenza, che l’anima razionale o affettiva (retta dal sentire nel pensare), in ragione della sua immatura autocoscienza (che si affermerà, in forma egoica, solo con l’avvento – dopo il 1413 – dell’anima cosciente, madre della scienza), tende ad agire come se “in principio” fosse la “Scrittura”, e non la “Parola”: come cioè se “in principio” fosse un “oggetto”, e non un “soggetto”. La sua albeggiante e ancora timida coscienza dell’Io la porta infatti a sentire l’Io come Essere (trascendente), ma non ancora l’Essere come Io (come Spirito immanente) (18).
A questo proposito, e dal momento che lo ricorda anche il Papa, proviamo a riprendere il racconto biblico: “Mosè disse a Dio: “Ecco, io vado dai figli d’Israele e dico a loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha inviato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. Che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. E aggiunse: “Così dirai ai figli d’Israele: “Io-sono mi ha inviato da voi”” (Es 3,13-14).
Io-sono”, “Questo è il mio nome” (Es 3,15), dice dunque Dio.
Questa “risposta di Dio – osserva Benedetto XVI – è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé semplicemente: “Io sono colui che sono” – Egli è, e basta. Questa affermazione è insieme nome e non-nome”. Dio, infatti, “è per sua natura uno solo”, e non può per questo “entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un nome in mezzo ad altri nomi” (19).
In tutta modestia, vorremmo però far notare che Dio dice che “Io-sono” è il Suo nome, e non il Suo “nome e non-nome”; così come Giovanni dice, nel suo Prologo, “Ma a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel Suo nome (e non nel Suo “nome e non-nome”), diede il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
Fatto sta che “Io-sono” può valere come un “non-nome” (o come un nome “impronunciabile”) per un soggetto che si riferisca a un altro soggetto, ma non per un soggetto che si riferisca a sé stesso.
“Gesù – afferma ancora il Papa – attribuisce al suo Io una normatività che nessun maestro di Israele e neppure un dottore della Chiesa può pretendere per sé. Colui che parla in questo modo non è più un profeta in senso tradizionale, ambasciatore e fiduciario di un altro; è Egli stesso punto di riferimento della retta via, Egli stesso fine e centro” (20); e aggiunge: l’”Io di Gesù” parla “all’altezza stessa della Torah, all’altezza di Dio” (21).
Vero, verissimo; ma perché “l’Io di Gesù” può attribuirsi un siffatto potere o una siffatta autorità? Perché non è – come spiega la scienza dello spirito – l’io (storico) di Gesù, ma l’Io (metastorico e universale) del Cristo: ovvero l’Io di Colui che in tanto afferma: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse io sono” (Gv 8,58) o “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), in quanto il Suo Io (di Figlio) è della stessa sostanza dell’”Io-sono” (del Padre).
Per quale ragione abbiamo dunque detto che, un tempo, “si doveva muovere dalla teologia per arrivare all’antropologia, mentre, oggi, si deve muovere dall’antropologia per arrivare alla teologia”?
Perché, sia coloro che conoscono l’uomo solo come corpo (gli scienziati materialisti), sia coloro che lo conoscono come corpo e anima, ma non anche come spirito o Io individuale (i cattolici), possono conoscere il Padre (come un Dio trascendente), ma non il Figlio, inabitante appunto l’Io di ogni singolo essere umano, né, tantomeno, lo Spirito Santo.
“l’Io di Gesù – dice il Papa – non è un Ego caparbio che ruota intorno a se stesso” (22).
D’accordo, ma se si distinguesse (come si dovrebbe) la realtà dell’Io da quella della coscienza dell’Io, si capirebbe che l’”Ego caparbio” non è il vero Io dell’uomo, bensì il frutto ancora acerbo (e purtroppo in gran parte già guasto) della coscienza materiale (o tutt’al più psichica) che l’uomo ne ha.
Tutto ciò suscita, comunque, dei gravi interrogativi: si può realmente conoscere il Padre (l’Amore) se non si conosce il Figlio (23)? E si può realmente conoscere il Figlio se non si conosce lo Spirito Santo? E si può realmente conoscere lo Spirito Santo, se non si conosce lo spirito umano e, in specie, il rapporto vigente tra la realtà spirituale dell’Io e quella della sua ordinaria (profana) coscienza egoica?
“Sia santificato il Tuo nome”, recita il Pater noster; ma quale senso avrebbe una simile invocazione se il nome di Dio (“Io-sono”) non fosse anche il nome dell’uomo: cioè a dire quell’Io che la modernità ha finora conosciuto come ego (come io empirico), e che, proprio per questo, ha bisogno di essere “santificato”?
Scrive sempre Benedetto XVI: “La filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù” (24).
Ma per diventare ed essere sempre di più “figli di Dio” (e fratelli di Cristo) dovremmo sviluppare e spiritualizzare l’attuale coscienza dell’Io (“Il Signore – osserva giustappunto il Papa – ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza”) (25), e non darci moralisticamente a mortificare, reprimere o negare l’ego (26).
Solo riconoscendo, con il soccorso dello Spirito di Verità (“aiutati, che Dio ti aiuta”), che il nome di Dio è anche il nome dell’uomo (in quanto creato “a Sua immagine”) è possibile infatti redimere l’ego, e potersi infine ritrovare e riconoscere, in qualità di esseri spirituali, nell’Io del Figlio e, grazie a questo, nell’“Io-sono” del Padre (nell’Amore).

Note:

01) cfr. Teologia e scienza, 9 gennaio 2007;
02) J.Ratzinger – Benedetto XVI: Gesù di Nazaret – Rizzoli, Milano 2007, p. 327;
03) per chi non avesse familiarità con i concetti di “anima senziente”, “anima razionale o affettiva” (che, nella sfera religiosa, potrebbe essere anche detta “scolastica o mistica”) e “anima cosciente”, riportiamo il seguente brano di Steiner: “L’Io vive dunque nell’interiorità umana, e prima che l’uomo si sia destato a tal segno da poter trasformare coscientemente i suoi istinti, le sue passioni, ecc., l’Io si è già creato, nel corpo astrale, l’anima senziente. Nel corpo eterico o vitale, l’Io, ancora in uno stato precosciente, si è creato ciò che usiamo denominare anima razionale o affettiva. E, infine, nel corpo fisico, l’Io si è creato l’organo di un membro animico interiore, che chiamiamo anima cosciente. In conclusione, dobbiamo distinguere nell’uomo tre arti o membri dell’anima, entro i quali opera l’Io: l’anima senziente, l’anima razionale o affettiva e l’anima cosciente. Per la scienza dello spirito quest’anima umana non è dunque un quid evanescente e nebuloso, bensì una parte interiore della natura umana, che comprende l’anima senziente, l’anima razionale o affettiva e l’anima cosciente” – R.Steiner: Metamorfosi della vita dell’anima – Tilopa, Teramo-Roma 1984, p. 12;
04) ibid., p. 11;
05) Steiner, già nel 1924, scriveva: “Nell’epoca dell’anima cosciente dovrebbe avvenire un totale oscuramento del mondo spirituale per la coscienza dell’uomo, se l’anima cosciente non riuscisse a fortificarsi tanto da poter volgere indietro lo sguardo con comprensione verso la sua origine divina” – R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 143;
06) riferendosi a questi rappresentanti della modernità, Steiner scrive: “La forza del sole spirituale getta i suoi bagliori nelle loro anime, il Cristo opera; ma essi non possono ancora accorgersene. La forza dell’anima cosciente domina nel corpo, ma essa non può ancora penetrare nell’anima” – ibid., p. 134;
07) dichiara il Papa, nella sua “Premessa”: “Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magistrale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (cfr. Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi” – ibid., p. 20;
08) scrive Ermenegildo Bertola: il fondamento di tutta la dottrina dei Farisei “è questo: la verità è già stata manifestata da Dio all’umanità, sia con gli scritti mosaici, la Torah scritta, sia attraverso le tradizioni orali che si sono venute formando, la Torah orale. Nella Torah scritta e nella Torah orale è contenuta tutta la realtà divina; in esse tutti i problemi sono stati risolti, esse sono le norme di pensiero e di azione che devono essere guida per la vita umana. Il compito dunque dell’uomo non è la speculazione razionale, non la ricerca di nuove verità, le quali già esistono perfette nella rivelazione, ma soltanto quella della esegesi, quella dell’amplificazione della Torah orale, ricercando le verità nascoste nel sacro testo. L’opera del fariseismo è dunque la “Misdrasch”, la ricerca. Infatti l’esegesi fu l’unica scienza che poté svilupparsi in un popolo come quello giudeo, ove la concezione della verità era che essa era già tutta contenuta in un libro” – E.Bertola: La filosofia ebraica – Bocca, Milano 1947, p. 49;
09) J.Ratzinger- Benedetto XVI: op. cit., p. 102;
10) ibid., pp. 275-276;
11) ibid., p. 91;
12) ibid., p. 88;
13) ibid., p. 89;
14) ibid., p. 47; nell’ultimo capitolo del libro, dedicato alle “affermazioni di Gesù su se stesso”, il Papa spiega che tale “incarico” è quello di essere il Cristo (il Messia). Scrive infatti: “Egli è una cosa sola con il suo ufficio; il suo incarico e il suo Io sono inseparabili: Così il suo incarico è diventato a buon diritto parte del suo nome” – ibid., p. 367;
15) ibid., p. 311;
16) ibid., p. 126;
17) questa paura è collegata a quello che Benedetto XVI chiama il “timore “teofanico””: ossia “il timore che assale l’uomo quando si vede esposto direttamente alla presenza di Dio” – ibid., p. 402;
18) cfr. Dall’ontologia alla scienza dell’Io, 5 giugno 2006;
19) J.Ratzinger- Benedetto XVI: op. cit., p. 173;
20) ibid., p. 115;
21) ibid., p. 142;
22) ibid., p. 145;
23) “Conosce il Padre – ricorda il Papa – solo colui al quale il Figlio lo “voglia rivelare”” – ibid., p. 390;
24) ibid., p. 168;
25) ibid., p. 253;
26) scrive Ermenegildo Bertola: “Con la Torah l’individualismo è abolito e nulla è più lontano dalla mentalità ebraico-biblica che i moderni particolarismi” – E.Bertola: op. cit., p. 22.

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Di Francesco Giorgi
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