Antropologia (1)

A

Avvertenza

L’amico Roberto Marcelli ci ha di nuovo fatto avere (e gliene siamo come sempre grati) la trascrizione di un corso di studio, tenuto da Lucio Russo (dal novembre 1999 al luglio 2000), sul ciclo di conferenze di Rudolf Steiner, intitolato: Antropologia (prima parte dell’opera: Arte dell’educazione – Antroposofica, Milano 1991).
Si tratta di trentaquattro incontri che c’impegneremo a pubblicare periodicamente, come abbiamo fatto nelle precedenti occasioni (La filosofia della libertà e Le opere scientifiche di Goethe), dopo averli opportunamente rielaborati (con il concorso dell’autore).

1° Incontro

Cominciamo col dire che questo ciclo di quattordici conferenze, nato (nel 1919) come “corso pedagogico” per gli insegnanti (in occasione della fondazione della Libera Scuola Waldorf), dovrebbe interessare non solo gli educatori, gli psicologi o i medici, ma chiunque avverta l’esigenza di conoscere realmente se stesso. Se è comprensibile, infatti, che non tutti s’interessino, che so, di botanica, di chimica o di fisica, è difficile al contrario immaginare che qualcuno possa non interessarsi di antropologia: vale a dire, della conoscenza (scientifica) di sé. Tanto più che il nostro modo di giudicare la realtà implica sempre – come sottolineato ad esempio da Viktor Frankl (psichiatra e fondatore della “logoterapia”) – un qualche presupposto antropologico o una qualche immagine dell’uomo.
Tale presupposto, quando è incosciente, è però un pregiudizio. Un presupposto cosciente lo si può infatti discutere, riesaminare ed eventualmente modificare, mentre uno incosciente s’impone come un dogma.
In campo antropologico, il più diffuso e deleterio di questi pregiudizi è costituito dall’idea che l’uomo sia un “animale intelligente”.
Chiunque non voglia rinunciare allo spirito scientifico, ma non voglia al contempo accontentarsi di sapere “che animale è” (“che pesce è”), non può pertanto far altro che rivolgersi all’antroposofia: ossia, all’unica scienza in grado – come dice Steiner – di dare all’uomo “coscienza della sua umanità”.

Dice Steiner: “All’inizio di questa nostra attività preparatoria, vogliamo anzitutto considerare il modo migliore di stabilire, fin nei particolari, un collegamento con le potenze spirituali che in certo modo hanno affidato a ciascuno di noi il mandato di questo lavoro. Queste parole iniziali vanno perciò considerate come una specie di preghiera alle potenze spirituali che staranno dietro di noi mentre ci assumiamo questo compito” (p. 17).

Affrontare un compito nel modo giusto, significa affrontarlo con lo spirito giusto, e affrontarlo con lo spirito giusto significa entrare in comunione, nell’anima, con lo spirito giusto (con lo Spirito di Verità).
Sappiamo che tutto il nostro impegno, nello studio e nell’esercizio interiore, è volto a raggiungere questo fine: a riallacciare cioè un rapporto con quel mondo spirituale dal quale, di norma, ci troviamo tagliati fuori.
Non è stato sempre così. Un tempo, l’uomo era nello spirito, e non era perciò libero. Al momento della caduta (del cosiddetto “peccato originale”), egli è stato però espulso dal mondo spirituale. Reciso il cordone ombelicale che lo univa a quel mondo, si è venuto allora a trovare in un regno nel quale lo spirito lo ha rimesso a se stesso e alla sua coscienza, e non lo domina più, come continua invece a fare con la natura.
In quanto libero, l’uomo può però tanto riallacciare (in forma nuova) l’originario legame, quanto smarrirsi o perdersi.
Steiner rivolge dunque un appello alle “potenze spirituali”, poiché intraprendere una iniziativa “per il bene del mondo” vuol dire agire con “spirito di servizio”, e quindi con una disposizione animica caratterizzata da una (extraordinaria) sintesi di libertà e volontà di servizio, di gioia e sacrificio di sé.
Gli spiriti luciferici sono infatti in grado di dare (a modo loro) la libertà e la gioia, ma non la volontà di servizio e del sacrificio di sé, mentre quelli arimanici sono in grado di dare (a modo loro) la volontà di servizio e del sacrificio di sé, ma non la libertà e la gioia.

Dice Steiner: “L’epoca in cui viviamo attualmente cominciò alla metà del secolo XV; e solo oggi, dai sostrati spirituali, sorge in certo modo la conoscenza di ciò che in quest’epoca è da farsi nei riguardi dell’educazione umana. Finora gli uomini, anche quando si sono posti i problemi pedagogici con la migliore volontà del mondo, lavorarono sempre con metodi dell’educazione antica, della quarta epoca postatlantica dell’evoluzione. Molto dipenderà dal fatto che noi, sin dall’inizio, impariamo a comprendere che dobbiamo dare al nostro lavoro un determinato indirizzo adatto all’epoca nostra; non già perché esso debba avere un valore universale per tutta l’evoluzione umana, ma perché è quello precisamente richiesto dai bisogni della nostra epoca” (p. 19).

Una sana (santa) volontà di servizio rende anzitutto un servizio allo Spirito del tempo: nel caso specifico, allo Spirito della quinta epoca post-atlantica, dell’anima cosciente o della modernità.
Dal momento che ogni processo evolutivo implica delle fasi, il problema di ciò che è opportuno o inopportuno fare (non solo, ovviamente, in campo educativo) non può venir posto in modo generico o astratto. E’ bene fare, infatti, ciò che richiede la fase di sviluppo che si sta attraversando, ed è male, sia continuare a fare quanto si era fatto durante una fase precedente, sia anticipare quanto dovrebbe essere fatto solo in una fase successiva.
Come si vede, il male nasce anche dall’anacronismo.
E che cosa ci chiede il nostro tempo? Quali sono i suoi particolari impulsi? Teniamo ben presente che questi, per poter venire alla luce, hanno bisogno di noi. Premono infatti quali forze nell’inconscio, ma non possono venire alla luce da soli (per non violare, così, la nostra libertà). Per potersi (creativamente) realizzare devono perciò attendere che l’uomo integri saggiamente la loro forza con la loro forma: cioè a dire, la loro essenza volitiva con la loro essenza di pensiero (che l’uomo deve ricercare e scoprire).
Abbiamo iniziato parlando di antropologia. Bene, se studiassimo botanica ci guadagneremmo una scienza o una coscienza degli esseri vegetali, mentre studiando antropologia ci guadagniamo una scienza o una coscienza dell’essere umano; dal momento, però, che siamo esseri umani, guadagnandoci tale scienza o coscienza, ci guadagniamo al tempo stesso un’autocoscienza.
Ogni questione antropologica è dunque una questione di autocoscienza. E può forse, l’uomo, prendere coscienza di sé, della natura spirituale del proprio Io, se gli si continua a insegnare – come si fa oggi – che è soltanto un “animale intelligente”?
Mi è capitato di leggere, poco tempo fa, che Giacomo Casanova (1725-1798), il celeberrimo tombeur de femmes, amava dire che avrebbe creduto allo spirito se questo fosse stato in grado di dargli lo stesso piacere che gli davano i sensi. Ma come dalla foto di una femme non si può di certo ricavare lo stesso piacere che si ricava dall’incontro con una femme reale, così dall’ordinaria rappresentazione (astratta) dello spirito non si può ricavare la stessa gioia che si ricava dall’incontro con lo spirito reale.
Può essere interessante notare che Casanova era un uomo del Settecento: cioè a dire, un uomo del secolo dei “lumi”, ma anche delle “luci rosse”. Per convincersene, basti pensare al Marchese de Sade e al suo Justine o le sventure della virtù, o ancor più a Denis Diderot, che pubblica tanto la dotta Encyclopédie quanto il licenzioso I gioielli indiscreti. Da un lato dunque i “lumi”, dall’altro le tenebre: ovvero, da un lato la ratio algida e astratta, dall’altro la libido focosa e concreta.
E si può forse sperare che una ratio di tal genere (del genere, ad esempio, di quella di Voltaire) possa venire felicemente e umanamente a capo di una forza che, lasciata a se stessa, può possedere l’ego e spingerlo verso l’animalità? No, di certo.
Solo una viva e piena esperienza della realtà (calda e luminosa) dello spirito potrebbe infatti consentirci di rimettere a posto le cose. Ho detto a bella posta: “rimettere a posto le cose”, perché al mondo c’è posto per tutto (vale a dire, per il logos, per il pathos e per l’eros).
Ciò che non va, ciò che genera il male, è solo il dis-ordine (il caos).
Ricordiamolo: le entità ostacolatrici non sono entità creatrici; non possono perciò creare, ma possono mettere in dis-ordine il creato, tanto da arrivare ad alterare, quando non a rovesciare, la cosiddetta “scala (o gerarchia) dei valori” (recita il Prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta”).
L’anacronismo è dunque un dis-ordine; e affrontare i problemi posti dalla modernità con gli strumenti fornitici, in passato, dall’anima razionale o affettiva (la cui fase evolutiva è terminata nel 1413 d.C.) è per l’appunto anacronistico.
Viviamo nell’epoca dell’anima cosciente, e questa esige che si affrontino i problemi (in primo luogo quello di riallacciare un vivo rapporto con il mondo spirituale) con spirito scientifico (scientifico-spirituale).
Molti ancora s’illudono, invece, di poterli affrontare e risolvere con i vecchi arnesi della filosofia, della teologia o dell’umanesimo astratto. Emanuele Severino, ad esempio, sostiene (a ragione) che tutti questi mezzi si dimostrano impotenti a fronteggiare o arginare il sempre più crescente potere della “tecnica” (della téchne). Ma in tanto si dimostrano tali in quanto questo strapotere (dis-umano) costituisce – checché ne pensi Severino – un fenomeno radicalmente nuovo. E come si potrebbe dominare un fenomeno così nuovo con strumenti ormai obsoleti, quali, ad esempio, la filosofia greca, il diritto romano, il tomismo, la metafisica scientista e materialista, se non addirittura il “ritorno a Parmenide”, come auspicato (a torto) da Severino?
Fatto si è che l’anima razionale o affettiva ancora spadroneggia: teorizza, elucubra, discetta, predica e dibatte, ma si rivela del tutto incapace di risolvere sul serio i problemi. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che non è un’anima “pratica”. Dal punto di vista umano, “pratica” non è infatti la cultura “classica” (luciferica), che esalta l’uomo mortificando la tecnica, e “pratica” non è la cultura “scientifica” (arimanica), che esalta la tecnica mortificando l’uomo.
“Molto – dice Steiner – dipenderà dal fatto che noi, sin dall’inizio, impariamo a comprendere che dobbiamo dare al nostro lavoro un determinato indirizzo adatto all’epoca nostra; non già perché esso debba avere un valore universale per tutta l’evoluzione umana, ma perché è quello precisamente richiesto dai bisogni della nostra epoca”.
Ci viene dunque chiesto di farci da parte, per fare largo ai “bisogni dell’epoca” (dice appunto il Battista: “Bisogna che egli cresca ed io diminuisca”). Per far questo, non c’è bisogno di mortificare la carne o d’indossare il cilicio, basta aprire la propria anima, attraverso la conoscenza, alle necessità del mondo, del tempo e dell’evoluzione. Ciò che occorre, in altre parole, è riuscire a volere (da Io) ciò che vuole lo Spirito del tempo (che non è ciò ch’è trendy o “alla moda”), tanto da poter arrivare a dire: “Sia fatta la Tua volontà”. Ci si deve però arrivare liberamente, e soltanto per amore. Superfluo ricordare che prima di poter pronunciare parole del genere, tale Spirito lo si deve imparare a pensare e a conoscere.

Dice Steiner: “Il materialismo ci ha portati a perdere, tra l’altro, anche ogni coscienza dei compiti tutti speciali di un’epoca speciale; ed è invece importantissimo che, come prima cosa, ci rendiamo chiaramente conto di questa verità: che ogni epoca ha i suoi compiti particolari da assolvere. I fanciulli che vi verranno affidati avranno già raggiunto una certa età; non dimenticate perciò che, prima che voi ne assumiate l’educazione e l’istruzione, essi saranno per lo più passati per l’educazione, e spesso anche per la mal-educazione, da parte dei loro genitori (…) Dedicandoci al nostro lavoro, non dimentichiamo che tutta la cultura contemporanea, fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa, è basata sull’egoismo dell’umanità, è indirizzata verso l’egoismo degli uomini” (p. 19).

Pensiamo, ad esempio, alla nascita della filosofia. Partendo dai cosiddetti pre-socratici (Pitagora, Eraclito, Parmenide, ecc.), attraverso Socrate e Platone, giungiamo ad Aristotele.
Ebbene, che cosa vediamo realizzarsi in questa successione? E’ presto detto: il passaggio dall’immaginazione al concetto, e quindi l’approdo, grazie ad Aristotele, a quella logica “analitica” (statica) che è rimasta sostanzialmente invariata fino al giorno in cui Hegel ha varato (seppure in forma ancora astratta) la logica “dialettica” o “speculativa” (dinamica).
E qual è allora il compito del nostro tempo? Quello di passare, superando l’astrazione, all’inverso e scientemente, dal concetto all’immaginazione. Quanti sono partiti, un giorno, dall’immaginazione hanno avuto il compito di partorire il concetto; noi, che partiamo dal concetto (dalla coscienza intellettuale), abbiamo viceversa il compito di partorire l’immaginazione (la coscienza immaginativa).
Per questo, Steiner ha scritto La filosofia della libertà, e per la stessa ragione uso ripetere che non si può capire tale opera se non ci si è portati al di là dell’anima razionale o affettiva.
Ricordate che cosa vi si afferma? Che nel momento in cui pensiamo siamo a tal punto presi dall’oggetto della nostra osservazione, da lasciar passare inosservato il pensare con cui lo pensiamo. Questo succede, però, solo quando si pensa in modo scientifico-naturale. In tutti gli altri casi, infatti, non si è presi dall’oggetto, ma dal proprio narcisismo o dal proprio egoismo: in breve, da se stessi.
Certo, l’odierno pensiero scientifico riesce a essere “preso” dall’oggetto, e a essere quindi “oggettuale” (come direbbe Freud), solo quando si trova alle prese con la realtà inorganica. Allorché pretende di osservare e studiare, allo stesso modo, la realtà vivente, animica o spirituale, cessa infatti di essere tale, riprende a essere “narcisistico” (come direbbe sempre Freud) e si dà a elucubrare od opinare.
La coscienza oggettiva o rappresentativa dovrebbe essere invece il fondamento (la “roccia”) sul quale edificare, gradualmente, una coscienza superiore (la “casa”). Il cosiddetto “ben dell’intelletto” è in effetti un “bene” (uno dei doni dello Spirito Santo), ma soltanto se lo si utilizza quale base scientifico-naturale per lo sviluppo della coscienza scientifico-spirituale.
Sul piano evolutivo, la coscienza scientifico-naturale ha già dato, però, tutto ciò che poteva e doveva dare, e ove si manchi – come si sta mancando – di perseguire lo scopo per cui ci è stata data, prende allora a corrompersi: a regredire, ad esempio, dall’intelletto realistico all’intellettualismo astratto (nei termini de La filosofia della libertà, dal “realismo ingenuo” al “realismo metafisico”).
Avverte giusto il Cristo, riferendosi a quanti “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
Dice Steiner “che tutta la cultura contemporanea, fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa, è basata sull’egoismo dell’umanità, è indirizzata verso l’egoismo degli uomini”.
Si stia ben attenti a non prendere queste parole in senso moralistico. Non si tratta infatti di una “predica”, ma di una “diagnosi”. L’autocoscienza egoica non è, in realtà, che un’autocoscienza provvisoria. Steiner ha più volte parlato dell’ego come del “veicolo dell’Io”: come cioè di una realtà il cui compito è appunto “veicolare” (sul piano psico-fisiologico) l’attività di quell’Io spirituale che (non dimentichiamolo) veicola, a sua volta la forza del Logos.
La “prova” (evolutiva) dell’ego è dunque importante, e non ci s’illuda di poterla evitare. Scaligero ha appunto detto: “Nessuno può diventare un Io, se prima non è stato un ego” (ch’è come dire che nessuno può diventare il Soggetto della coscienza scientifico-spirituale, se prima non è stato il soggetto di quella scientifico-naturale).
Sarebbe bene altresì ricordare che è stata necessaria una sofferta e lunga lotta per permettere all’ego (all’individualismo moderno) di affermarsi. Se un tempo si è dovuto lottare per far venire alla luce l’ego, oggi si deve pertanto lottare perché, dal seno stesso dell’ego, venga alla luce l’Io (il “Sè spirituale”).
Sappiamo che l’Io si manifesta sul piano fisico, sul piano eterico e su quello astrale, e che l’ego non è che il risultato della prima (e più bassa) delle sue manifestazioni. “Grande” è dunque l’ego, in quanto manifestazione dell’Io; “piccolo” è dunque l’ego, in quanto sua manifestazione finita (psicofisica).
Vediamo però adesso il perché la cultura contemporanea è basata sull’egoismo, “fino alla sfera più spirituale, a quella religiosa”.

Dice Steiner: “Si guardi, ad esempio, un problema che afferra l’uomo fin nel profondo, il problema dell’immortalità. Persino la predicazione religiosa sviscera questo problema in modo da toccare negli uomini la corda del loro egoismo. E’ infatti l’egoismo che suscita in essi il desiderio di non perdere il proprio essere nel varcare le porte della morte, ma di conservare in pieno il proprio io. A tale egoismo, per quanto raffinato, fa appello oggi, in larga misura, anche ogni confessione religiosa, nei riguardi dell’immortalità, parlando agli uomini in modo da far dimenticare per lo più uno dei termini della vita umana, per mettere in rilievo l’altro, da concentrare cioè l’attenzione sulla morte, dimenticando la nascita” (pp. 19-20).

E’ in effetti impossibile risolvere il problema della vita dopo la morte senza risolvere quello della vita prima della nascita. E’ quindi segno di egoismo pre-occuparsi (magari angosciosamente) di quel che sarà, senza occuparsi per nulla di ciò che è stato.
Non è difficile capire che la cosa riveste particolare importanza per l’educazione.

Dice Steiner: dobbiamo divenire coscienti del fatto che “la vita fisica quaggiù è una continuazione della vita spirituale, e che, con l’educazione, abbiamo da proseguire ciò che entità superiori hanno compiuto sino allora senza l’opera nostra. Solo la consapevolezza che la nostra azione sull’essere umano in formazione dev’essere il proseguimento di ciò che entità superiori hanno fatto prima della nascita, darà alla nostra opera educativa l’intonazione giusta” (p. 20).

Ogni volta che nasce un bambino, prende a vivere sulla Terra un Io che ha appena abbandonato il mondo spirituale (“Mi percepivo – scrive Nikolaj Berdjaev, nell’autobiografia – come un essere non proveniente da “questo mondo” e incapace di adattarsi a “questo mondo””), così come ogni volta che muore un uomo, prende a vivere nel mondo spirituale un Io, che ha appena abbandonato la Terra. Nascita e morte sono solo perciò due momenti (per quanto cruciali) del nostro incessante divenire.
Ricordiamoci che il corpo eterico e il corpo fisico sono corpi intessuti, rispettivamente, di tempo e di spazio: che sono cioè corpi, per così dire, “esistenziali”. Un Io che si trasferisce, con la nascita, dalla sfera dell’essere in quella dell’esistere entra pertanto nel tempo e nello spazio, mentre un Io che si trasferisce, con la morte, dalla sfera dell’esistere in quella dell’essere ne fuoriesce.
Dice Steiner che “solo la consapevolezza che la nostra azione sull’essere umano in formazione dev’essere il proseguimento di ciò che entità superiori hanno fatto prima della nascita, darà alla nostra opera educativa l’intonazione giusta”. Il che equivale a dire che solo tale consapevolezza ci permetterà di educare con lo spirito “giusto”.
Qual è infatti il maggior pericolo? Che l’ego, pur di non rinunciare a se stesso (pur di non “perire e divenire”, direbbe Goethe), prenda ad imitare o scimmiottare l’Io (di cui ha sentito parlare). E da che cosa si può riconoscere (non solo in campo educativo) un ego che imita o scimmiotta l’Io (come pare faccia il “diavolo”, che appunto per questo è stato detto “la scimmia di Dio”)? Per esempio dal fatto che, se è tipologicamente “nevrastenico”, conosce la croce, ma non la gioia o la “letizia”, mentre, se è tipologicamente “isterico”, conosce la gioia o la “letizia”, ma non la croce: dal fatto, insomma, che gli è ignoto, in entrambi i casi, quello Spirito che ha detto: “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero”, e che, soprattutto, ha vinto la croce mediante la croce (ha raggiunto la gioia attraverso la sofferenza).

Roma, 4 novembre 1999

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Di Lucio Russo
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