Antropologia (22)

A

Riprendiamo subito a leggere.

Dice Steiner: “Se ci si vuole veramente accostare alla realtà, e specialmente alla realtà della natura umana, ci si deve render conto che ogni divisione va operata in un elemento unitario, ma che se si guardasse solamente all’astratta unità, non si imparerebbe mai a conoscere nulla. Se d’altra parte non si separasse una cosa dall’altra, il mondo resterebbe sempre nell’indeterminatezza, come di notte tutti i gatti appaiono grigi. Chi vuol afferrare tutto in astratte unità, vede il mondo tutto in grigio su grigio. Chi invece volesse soltanto dividere, distinguere e separare, non arriverebbe mai a una vera conoscenza, ma resterebbe solo negli elementi isolati” (p. 119).

Diceva Goethe: “Solo colui che sa dividere può unire”. Sembrerebbe ovvio, ma non è così.
I tipi astenici (tendenzialmente meccanicisti) sanno infatti dividere, ma non unire, mentre i tipi stenici (tendenzialmente mistici) sanno unire, ma non dividere. L’unilaterale disposizione dei primi all’analisi costituisce infatti un habitat favorevole alle forze arimaniche, mentre quella dei secondi alla sintesi costituisce un habitat favorevole alle forze luciferiche.
Sull’analisi e la sintesi (Olschki, Firenze 1935), così s’intitola, ad esempio, un lavoro dell’ormai dimenticato filosofo italiano Pasquale Galluppi (1770-1846); ma avrebbe potuto intitolarsi altrettanto bene: Sull’inalazione e l’esalazione, oppure: Sulla diastole e la sistole, poiché quello costituito dall’analisi e dalla sintesi è appunto un ritmo, che può alterarsi, al pari di ogni altro, in una direzione o in quella opposta, ingenerando delle patologie.
Laddove prevale il moto centrifugo dell’analisi si teme naturalmente quello centripeto della sintesi, e si tende pertanto a indugiare e a tergiversare onde allontanare il momento in cui si dovrebbe, tirando le somme, concludere o decidere (impegnando maggiormente la volontà). Laddove prevale all’inverso il moto centripeto della sintesi si teme naturalmente quello centrifugo dell’analisi, e si tende pertanto ad affrettare o a “trinciare” il giudizio (non impegnando a sufficienza il pensiero).
Teniamo presente che il moto dell’analisi è anti-patico, mentre quello della sintesi è sim-patico. La vera conoscenza – come abbiamo visto – presuppone però un sano rapporto animico tra la forza dell’anti-patia (del pensiero) e quella della sim-patia (della volontà).
I meccanicisti, che sanno dividere, ma non unire, sono dunque coloro che – come si suol dire – “vedono gli alberi, ma non la foresta”, mentre i mistici, che sanno unire, ma non dividere, sono coloro che “vedono la foresta ma non gli alberi”.
I mistici – come sappiamo – aspirano a ricongiungersi all’Uno. E non hanno torto, perché, partendo dall’Uno, siamo arrivati al molteplice e, partendo dal molteplice, siamo chiamati a tornare all’Uno. Essi però non tornano pazientemente, gradualmente e lucidamente all’Uno, bensì si precipitano o si gettano, per così dire, nell’Uno, in modo tutt’altro che paziente, graduale e lucido (scientifico-spirituale).
Potrebbe essere forse interessante ricordare, al riguardo, che lo psichiatra e psicoanalista austriaco Wilhelm Reich (1897-1957), noto seguace eterodosso di Freud e pioniere dell’Analisi del carattere (Sugarco, Milano 1994 – ndr), ha parlato appunto, in termini fortemente critici, di una società “mistico-meccanicistica”. Si tratta, in effetti, di una grande intuizione, come pure è quella che lo ha portato ad affermare che una società del genere non può che commettere L’assassinio di Cristo (Sugarco, Milano 1994 – ndr).
Proprio il suo caso, sta tuttavia a confermare – lo abbiamo detto un paio di sere fa – ch’è rischioso, per l’equilibrio interiore, avere esperienze “extraordinarie” (come magari delle grandi intuizioni) e cercare di comprenderle col pensiero “ordinario”.
E’ stato infatti il suo “naturalismo” a far prendere a Reich “fischi per fiaschi”: a impedirgli cioè di comprendere che la cosiddetta “energia orgonico-cosmica” è in verità quella eterica, che la società “mistico-meccanicistica” è in verità quella luciferico-arimanica, che “l’assassinio di Cristo” è in verità quello dello spirito e dell’Io (che ne veicolano la Persona), e che sarebbe quindi il caso di auspicare e promuovere una rivoluzione spirituale, e non – com’egli ha fatto – una “rivoluzione sessuale”.
“Ci accusano – osserva Steiner – di mettere il mondo sossopra. Il fatto vero è che il mondo è già sossopra, e che per mezzo della scienza dello spirito bisogna metterlo con la testa in su e i piedi in giù” (p. 112).
Ma eccoci arrivati al punto in cui si affronta l’estesiologia.

Dice Steiner: “L’uomo ha, in tutto, dodici sensi. Se nella scienza ordinaria si distinguono soltanto cinque, sei o sette sensi, dipende solo dal fatto che questi sono particolarmente appariscenti e gli altri (che completano il numero dodici) lo sono meno” (pp. 119-120).

E’ importante sapere che i sensi sono dodici, e non solamente “cinque, sei o sette”, ma è altrettanto importante enumerarli, non – come siamo abituati a fare – alla rinfusa, bensì secondo un preciso e obiettivo ordine gerarchico.
Ho infatti anticipato, una sera, che Steiner distingue i sensi che ci mettono in rapporto (in con-tatto) con il nostro mondo interno (quelli “propriocettivi” del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio), sia dai sensi che ci mettono in rapporto col mondo esterno (quelli “eterocettivi” dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore), sia dai sensi (quelli dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io) che ci mettono in rapporto con “l’interno dell’esterno” (con l’interiorità del mondo esterno).
Posso ora aggiungere che il senso dell’Io sta in relazione con quello del tatto, il senso del pensiero con quello della vita, il senso del linguaggio con quello del movimento, il senso dell’udito (com’è risaputo) con quello dell’equilibrio, il senso del calore con quello dell’olfatto, e il senso della vista con quello del gusto.
Cominciamo dunque a esaminarli, partendo dal senso dell’Io.

Dice Steiner: “La percezione del mio proprio io nella interiorità è qualcosa di diverso dal riconoscimento di un’altra persona come io. La percezione di un altro io proviene dal senso dell’io, come la percezione del colore dal senso della vista, del suono dal senso dell’udito (…) Tale organo non ha nulla a che vedere con ciò che fa sì che ciascuno sperimenti il proprio io. Vi è un’immensa differenza tra lo sperimentare il proprio io ed il percepire l’io in un altro, poiché quest’ultima percezione è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza), mentre l’esperienza del proprio io è un processo volitivo” (pp. 120-121).

Lo sperimentare interiormente il proprio io, in quanto processo volitivo, si basa dunque sulla sim-patia, mentre il percepire esteriormente l’io di un altro, in quanto processo conoscitivo, si basa sull’anti-patia. Vedremo appunto che queste due forze svolgono un preciso ruolo anche nell’attività del senso dell’Io.
In che cosa consiste la cosiddetta “cognizione sensibile”? E’ ovvio: nella conoscenza di ciò che percepiamo attraverso i sensi. E che cosa percepiamo attraverso i sensi? Ad esempio, gli esseri del mondo minerale, vegetale e animale. Ma con questi esseri non abbiamo lo stesso rapporto che abbiamo con gli altri esseri umani. Infatti, incontrando un essere minerale, incontriamo un corpo fisico (che ha il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io nel mondo spirituale); incontrando un essere vegetale incontriamo un corpo fisico e un corpo eterico (che hanno il corpo astrale e l’Io nel mondo spirituale); incontrando un essere animale incontriamo un corpo fisico, un corpo eterico e un corpo astrale (che hanno l’Io nel mondo spirituale). Solo incontrando un altro essere umano, incontriamo dunque un Io che sta qui, sulla Terra, come il nostro.
Ne consegue che ci è possibile osservare, per così dire, dall’”alto” (dell’Io) gli esseri minerali, vegetali e animali, ma che ci è impossibile fare lo stesso con i nostri simili.

Dice Steiner: “Ciò che avviene, quando stiamo di fronte ad un altro, è il processo seguente: percepiamo per brevi momenti quella persona, ed essa fa su di noi un’impressione. Quella impressione ci disturba nella nostra interiorità; noi sentiamo che quella persona, che in fondo è un essere uguale a noi, fa su di noi un’impressione che è come un attacco. Per conseguenza noi, interiormente ci “difendiamo”, ci opponiamo all’attacco, diventiamo interiormente aggressivi contro di esso. Poi questa nostra aggressività si paralizza, cessa; quindi l’altro può nuovamente fare un’impressione su di noi. Così abbiamo il tempo di aumentare di nuovo la nostra forza aggressiva e compiamo un’altra aggressione. Indi nuovamente questa viene meno, l’altro fa una nuova impressione su di noi, e così via di seguito. Questo è il rapporto che si stabilisce quando una persona sta di fronte ad un’altra percependone l’io: dedizione all’altra persona – difesa interiore – dedizione all’altro – difesa interiore – simpatia – antipatia – simpatia – antipatia. Non parlo ora della vita del sentimento, ma dello starsi di fronte per mezzo della percezione” (pp. 121-122).

Per quale ragione l’impressione che un’altro Io fa su di noi “ci disturba nella nostra interiorità”, tanto da essere avvertita “come un attacco”? Proprio perché – lo abbiamo appena detto – l’Io umano può toccare percettivamente gli esseri minerali, vegetali e animali senza essere a sua volta toccato, come invece gli accade quando tocca percettivamente un altro essere umano.
In questo caso, il moto di sim-patia con il quale andiamo incontro ai primi, si trasforma in un moto in cui si alternano sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione).
Se il moto di sim-patia supera di troppo quello di anti-patia (come può capitare nei tipi stenici: cioè in quelli aperti, socievoli e facilmente influenzabili), c’è il rischio che si finisca col confondere il proprio Io con quello dell’altro, con l’identificarvisi, o col dipenderne. Se succede il contrario (come può capitare nei tipi astenici: cioè in quelli chiusi, schivi e difficilmente influenzabili), c’è invece il rischio che si finisca con l’allontanare o evitare gli altri.
Nel primo caso, ci si richiama insomma (inconsciamente) al principio: “Vita tua, mors mea”; nel secondo, al principio: “Mors tua, vita mea”.

Dice Steiner: “Ma un’altra cosa avviene: mentre si svolge la simpatia, voi vi addormentate, per così dire, nell’altra persona; quando si svolge l’antipatia vi risvegliate di nuovo, ecc.. E’ un alternarsi continuo di veglia e sonno di brevissima durata, che si svolge in vibrazioni, ogni volta che stiamo di fronte a un’altra persona; e lo dobbiamo all’esistenza del senso dell’”io”. Questo è organizzato in modo che investiga l’io dell’altro non già nella propria volontà sveglia, ma in una volontà dormiente, e poi con tutta rapidità fa trapassare nella conoscenza l’informazione ottenuta in quello stato dormiente, cioè la comunica al sistema nervoso” (p. 122).

Diceva Jung – l’ho già ricordato – che “gli inconsci si parlano”. Alla luce di quanto abbiamo appena letto, sarebbe però meglio dire: “gli inconsci (le volontà dormienti), unendosi grazie alla sim-patia, si toccano o tastano, e poi, allontanandosi grazie all’anti-patia, mettono i frutti del loro toccare o tastare a disposizione della coscienza (del sistema nervoso).
Ciò che più importa, comunque, è capire che l’Io dell’altro può essere solamente intuìto: ossia afferrato, ordinariamente, dall’anima senziente (dall’anima inconsciamente intuitiva) o, in via del tutto eccezionale, da una coscienza che abbia già raggiunto il grado intuitivo.
Ascoltate, appunto, quanto scrive Steiner (ne I gradi della conoscenza superiorendr): “Nell’ispirazione le esperienze dei mondi superiori esprimono il loro significato. L’osservatore vive nelle qualità e nelle azioni degli esseri di quei mondi superiori. Quando segue col suo io una linea o una forma (…) egli sa tuttavia di non trovarsi dentro l’essere stesso, bensì dentro le sue qualità e attività. Già nella conoscenza immaginativa egli sa di non sentirsi fuori, ma dentro le immagini colorate; sa però altrettanto esattamente che tali immagini colorate non sono esseri indipendenti, ma qualità di esseri. Nell’ispirazione egli diviene cosciente di unificarsi con le azioni degli esseri stessi, con le manifestazioni della loro volontà; solo nell’intuizione egli stesso si immedesima con esseri che sono in sé completi. Ciò può avvenire nel giusto modo soltanto se tale unificazione si fa senza spegnere il proprio io, ma conservando integra la propria individualità. Il perdersi in un altro essere, comunque ciò avvenga, è male. Perciò solo un io, consolidato in se stesso in alto grado, può immergersi senza danno in un altro essere. Si è afferrato qualcosa intuitivamente solo quando di fronte a questo “qualcosa” si ha la sensazione che vi si manifesta un essere che ha la medesima natura e la medesima coesione interiore dell’io”.
A che cosa serve dunque, di norma, la sim-patia? A “unificare” il nostro Io con l’Io dell’altro; e l’anti-patia? A evitare che il nostro Io si “perda” nell’Io dell’altro. Solo dopo aver sviluppato la coscienza intuitiva saremo infatti in grado di “immergerci” in un altro Io senza dover ricorrere all’anti-patia per conservare integra la nostra individualità.

Risposta a una domanda
La coscienza immaginativa ci consente di distinguere il vivente dal non vivente e di percepire la forza che rende appunto “vivente” il vivente. La coscienza ispirativa ci consente invece di discernere e distinguere, a un superiore livello, le qualità. Grazie a questa, il nostro rapporto con le cose e con gli altri diventa dunque più intimo, dal momento che la qualità è carattere o anima. Ma chi è ad avere tale qualità, carattere o anima? Chi ne è cioè il soggetto o il portatore? A questa domanda, può rispondere solo la coscienza intuitiva, poiché è l’unica coscienza in grado di cogliere l’essenza delle cose e degli altri, al di là del corpo, della vita e dell’anima.
Certo, ogni contenuto che percepiamo deve arrivare, attraverso il corpo, all’Io, in quanto è l’Io a portargli incontro quel concetto di cui prendiamo poi coscienza nell’anima (in forma di rappresentazione).
Ha ragione, perciò, nel sostenere che ogni dato percettivo s’incontra con l’Io. Deve però considerare, come ho cercato di spiegare, che, per l’Io, un conto è riconoscere un tavolo, un garofano o un gallo, un conto è riconoscere un altro Io. I primi li riconosce infatti nel corpo astrale (nel “regno delle Madri” di Goethe), mentre il secondo non può riconoscerlo che in se stesso; per farlo, – come abbiamo visto – deve però, seppure per qualche istante, lasciargli il posto o, come dice Steiner, “addormentarsi”.
Mi sembra di ricordare che quando ci occupammo de La filosofia della libertà vi invitai a immaginare, al riguardo, una circonferenza nella quale se ne trovino inscritte altre tre di diametro progressivamente minore. Che cosa fa dunque la prima? E’ semplice: comprende le altre tre.
Ma come la circonferenza maggiore comprende quelle minori, così l’Io umano comprende l’Io (la specie, che non sta sulla Terra) degli esseri minerali, vegetali e animali, ma non l’Io (individuale) dell’altro essere umano (che sta invece sulla Terra). Questo, infatti, deve essere immaginato come una circonferenza coincidente. Ma è proprio perché è tale, che si pone allora il problema (comportante “attacco” e “difesa”) di un Io che, sovrapponendosi a un altro Io, rischia per ciò stesso di oscurarlo o eclissarlo (volendo, ciò che dice Steiner lo si potrebbe perciò dire anche così: in prima istanza, l’Io dell’altro eclissa il mio Io, poi il mio eclissa il suo, poi ancora il suo eclissa il mio, e così via).

Dice Steiner: “Se si guarda bene il fenomeno, la cosa principale nella percezione dell’altra persona è proprio la volontà, ma quella volontà che si svolge dormendo. E ciò che sta in mezzo tra i diversi momenti in cui dormendo si compie la percezione dell’io di un altro, è già conoscenza, perché l’atto percettivo viene rapidamente respinto nella regione dove domina il sistema nervoso” (p. 123).

L’Io degli altri lo assumiamo insomma “a piccoli sorsi”: allo stesso modo, cioè, in cui assumiamo di solito una bevanda bollente. Grazie alla sim-patia e al sonno (del volere) ne mettiamo in bocca un “sorso”, e grazie all’anti-patia e alla veglia (al pensare), subito ci affrettiamo a deglutirlo (per poi ricominciare).

Roma, 6 aprile 2000

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Di Lucio Russo
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