Antropologia (23)

A

Stasera, prima di occuparci degli altri sensi, vorrei dire ancora qualcosa su quello dell’Io.
Afferma Scaligero che viene un momento in cui siamo folgorati dal pensiero: “L’altro è”. Da un lato, ci folgora dunque il pensiero: “Io sono”; dall’altro, il pensiero: “L’altro è”.
Sia l’uno che l’altro, prima di averli quali “pensieri”, li abbiamo però quali “percezioni”; e “vi è un’immensa differenza – abbiamo letto – tra lo sperimentare il proprio io ed il percepire l’io in un altro, poiché quest’ultima percezione è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza), mentre l’esperienza del proprio io è un processo volitivo”.
Lo “sperimentare il proprio io”, è infatti un’auto-percezione (volitiva e sim-patica) che dipende in primo luogo dai sensi “propriocettivi” (del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio), mentre il “percepire l’io in un altro” è una etero-percezione (nella quale si alternano sim-patia e anti-patia) che dipende dal senso dell’Io, ed “è essenzialmente un processo conoscitivo (o almeno simile alla conoscenza)”.
Dice Goethe ch’è il giudizio a ingannare, e non i sensi. Mai, come nel caso del senso dell’Io, è possibile verificare la validità di questa affermazione. Sia in noi stessi, sia nell’altro, percepiamo infatti l’Io spirituale (l’Io reale che passa da una vita terrena all’altra), ma ce lo rappresentiamo poi, giudicando (con il concorso dei sensi eterocettivi e dei nervi), come un io psico-fisico o ego (come un Io che vive una volta sola).
L’Io auto-percepito ed etero-percepito è dunque un essere reale, mentre quello rappresentato è un essere apparente o illusorio (in quanto riflesso psico-fisico dell’Io reale). Osserva giusto Heschel: “Tentare di capire che cosa significhi essere una persona è la premessa indispensabile per metter ordine nell’esistenza. Sarebbe una sventura vivere senza un nome, e un disastro vivere senza un’identità interiore. Un nome lo riceviamo e lo ricordiamo, semplicemente; la nostra identità spirituale dobbiamo invece conquistarla, trovarla, acquisirla, accrescerla; è in funzione di essa che dobbiamo vivere” (cfr. 3° incontro).

Risposta a una domanda
Immagini di avere di fronte a sé un gatto. Il suo Io prima lo percepisce, poi integra (inconsciamente) tale percezione con il relativo concetto, per farsene così una cosciente rappresentazione. Orbene, il suo Io può far questo, per così dire, con tutta calma, perché il gatto, in quanto privo di un Io individuale, non lo costringe a passare il più rapidamente possibile dall’iniziale movimento sim-patico della percezione a quello successivo e anti-patico della conoscenza. Allorché percepisce un essere umano, cioè a dire un suo pari, il suo Io deve invece affrettarsi a passare dal primo al secondo di tali movimenti, per evitare il rischio, indugiando in quello sim-patico della percezione, di perdersi nell’altro, o, indugiando in quello anti-patico della conoscenza, di perdere l’altro.
Fatto sta che l’Io, per dirla banalmente, può percepire il gatto restando tranquillamente seduto sulla propria sedia, mentre può percepire l’altro Io soltanto cedendogliela, nel timore che quello possa offendersi e andarsene, ma tornando prontamente a sedervi, nel timore che l’altro vi si possa sistemare e non restituirgliela più.
Ricorda ciò che ha detto Steiner? “Il perdersi in un altro essere, comunque ciò avvenga, è male. Perciò solo un io, consolidato in se stesso in alto grado, può immergersi senza danno in un altro essere”.

Ma passiamo adesso al “senso del pensiero”, detto anche, da Steiner, del “concetto” (in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia).

Dice Steiner: “Poi abbiamo un altro senso, separato da quello dell”io” e da tutti gli altri sensi, ed è quello che io chiamo il senso del pensiero. Non è quello che percepisce i propri pensieri, ma quelli di altre persone. Anche a questo proposito gli psicologi hanno rappresentazioni veramente comiche. Anzitutto sono talmente influenzati dall’idea che il pensiero e il linguaggio formano una cosa sola, che credono che col linguaggio venga sempre accolto anche il pensiero. E’ un’assurdità, perché col senso del pensiero potreste percepire i pensieri, sia che essi vengano espressi con dei gesti esteriori, sia col linguaggio parlato. Il linguaggio non fa che “trasmettere” i pensieri. Ma questi dovete percepirli per se stessi, per mezzo di un altro senso speciale” (p. 123).

Notiamo che, per il fatto stesso di avere un senso “dell’Io” e un senso “del pensiero” o “del concetto”, dovrebbe risultar chiaro che l’Io è cosa diversa dal pensiero o dal concetto, e che la differenza che c’è tra la natura del primo e quella del secondo è analoga a quella che c’è tra l’anima cosciente e l’anima razionale o affettiva.
Pur avendo presente che le rappresentazioni (coscienti) sono una cosa e le immagini (pre-coscienti) un’altra, e che l’anima cosciente – come non abbiamo mai mancato di sottolineare – è in primo luogo attenta, scientificamente, al percetto, mentre l’anima razionale o affettiva è in primo luogo attenta, logicamente o filosoficamente, al concetto, non sempre si realizza tuttavia – secondo quanto afferma Steiner – che, ove si prescinda “dal contenuto della vita di pensiero”, “non c’è differenza qualitativa tra la vita di pensiero come tale e la vita di sogno”, e ch’è dunque “il rapporto che abbiamo col mondo, quando ci serviamo dei sensi, quello che ci dà l’autocoscienza”; infatti, aggiunge, “con la vita dei sensi affluisce nello stesso tempo in noi ciò che dà alle nostre ordinarie immagini conoscitive contorni netti e definiti. E’ anche qualcosa che il mondo esterno ci dà; se non ce lo desse, grazie all’azione combinata dei sensi e dei pensieri realizzeremmo soltanto una vita di fantasia, non potremmo avere la vita quotidiana con i suoi nitidi contorni” (la conferenza da cui sono stata tratte queste citazioni, del 7 gennaio 1921, è stata di recente pubblicata in italiano, nel volume: Il rapporto delle diverse scienze con l’Astronomia – Antroposofica, Milano 2007 – ndr).

Dice Steiner: “Poi abbiamo il vero e proprio senso del linguaggio. Quindi i sensi dell’udito e del calore, di vista, gusto, olfatto, e il senso dell’equilibrio. Noi abbiamo una coscienza sensoria di trovarci in uno stato di equilibrio. Per una certa percezione sensoria sappiamo in quale rapporto stiamo tra destra e sinistra, tra davanti e dietro, e come tenerci in equilibrio per non cadere. E quando il nostro organo del senso dell’equilibrio viene distrutto, non possiamo più reggerci e cadiamo, proprio come non possiamo più metterci in relazione coi colori quando il nostro occhio è guastato. Ma oltre a questo senso dell’equilibrio abbiamo anche un senso per i nostri propri movimenti, che ci fa distinguere se siamo in moto o in riposo, e se i nostri muscoli sono tesi o no. Inoltre abbiamo anche il senso della vita, per percepire la disposizione in cui, nel senso più largo, si trova il nostro corpo (se ci sentiamo più o meno “in forma” – nda). Molte persone ne sono addirittura dipendenti (quelle cosiddette “ipocondriache” – nda). Esse percepiscono se hanno mangiato troppo o troppo poco, se sono stanche o no, e per conseguenza sentono benessere o malessere. Tale percezione delle condizioni del proprio corpo si riflette nel senso della vita. Abbiamo così indicato tutti i dodici sensi che l’uomo effettivamente possiede” (pp. 123-124).

In realtà, ne abbiamo visti undici, poiché manca ancora da vedere il senso del tatto, che completa, con quelli della vita, del movimento e dell’equilibrio, il quaternio dei sensi legati soprattutto alla volontà.

Dice Steiner: “Dopo aver eliminato la possibilità di una obiezione pedantesca sul carattere conoscitivo di alcuni fra i sensi (quelli “superiori” dell’udito, del linguaggio, del pensiero e dell’Io – nda), perché abbiamo constatato che anche tale carattere di conoscenza riposa in modo occulto sulla volontà (sulla percezione – nda), possiamo ora procedere oltre nella suddivisione dei sensi. Ne troviamo anzitutto quattro, il tatto, il senso della vita, il senso del movimento e quello dell’equilibrio, che sono specialmente compenetrati di attività volitiva. Si può ben sentire come nella percezione dei movimenti, anche quando li eseguiamo stando fermi in piedi, s’introduca il volere. Una volontà calma opera anche nella percezione del nostro equilibrio. Nel senso della vita la volontà opera molto fortemente, e così pure nel tatto poiché, quando tastiamo qualcosa, avviene una presa di posizione tra il nostro volere e l’oggetto fuori di noi. Insomma, possiamo ben dire che i quattro sensi ora elencati sono sensi volitivi in senso ristretto” (p. 124).

Abbiamo detto, giovedì scorso, che il senso dell’Io sta in rapporto col senso del tatto, il senso del pensiero con quello della vita, il senso del linguaggio con quello del movimento, il senso dell’udito con quello dell’equilibrio, il senso del calore con quello dell’olfatto, e il senso della vista con quello del gusto.
I quattro sensi “conoscitivi” stanno dunque in rapporto con i quattro “volitivi”, mentre i quattro intermedi, più legati al sentimento, stanno in rapporto tra loro (il senso del calore con quello dell’olfatto e il senso della vista con quello del gusto – non si dice infatti, a tavola: “Anche l’occhio vuole la sua parte”?).

Dice Steiner: “Altri quattro sensi, quelli dell’olfatto, del gusto, della vista e del calore, sono principalmente sensi del sentimento. La coscienza ingenua ne sente l’affinità col sentimento, sopra tutto nel fiutare e nel gustare. Che non lo si senta altrettanto per la vista e il calore, ha le sue buone ragioni. Nel senso del calore non si osserva l’affinità col sentimento, ma se ne fa una cosa sola col tatto, cioè si distingue e si confonde in modo ugualmente errato. Il tatto è in realtà molto più dipendente dalla volontà, mentre il senso del calore dipende solo dal sentimento” (p. 125).

Che il senso del tatto sia in rapporto con quello dell’Io, e che dipenda, forse più di ogni altro, dalla volontà inconscia, potrebbe dimostrarlo ad esempio il fatto che Pasquale Galluppi si dichiara convinto, nel suo Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, che “la nostra esistenza intellettuale incomincia colla percezione del me, che percepisce un fuor di me”: che incomincia, ossia, laddove un Io s’incontra o si scontra, in virtù appunto del tatto, con un non-Io.
Ma ascoltiamo quanto Steiner dice di questi sensi, in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia: “Usciamo dall’uomo (da ciò di cui ci parlano, ossia, i sensi del tatto, della vita, del movimento e dell’equilibrio – nda) e osserviamolo là dove incomincia la sua azione scambievole col mondo esterno. Abbiamo il primo rapporto di scambio quando uniamo a noi la sostanza e quindi la percepiamo (…) Perché si possa odorare la rosa, essa deve esalare sostanza gassosa”.
Col gusto, “non si percepisce direttamente la sostanzialità, ma il corpo deve prima venir disciolto dai succhi della bocca Qui può venir percepito solo un rapporto scambievole tra la lingua e quel corpo. Le cose non ci dicono soltanto che cosa esse sono in quanto a sostanza, ma ci rivelano anche gli effetti che possono produrre. Il rapporto di scambio tra l’uomo e la natura è ora divenuto intimo (…) Con l’odorato, il corpo prende le cose così come sono. Il senso del gusto è già più complicato, per cui le cose ci rivelano ora qualcosa di più sulla loro intima natura”.
Con la vista, “possiamo già distinguere se qualcosa lascia filtrare la luce oppure no (…) L’occhio è un organo così mirabile, perché consente di penetrare nella natura delle cose molto più profondamente di quanto sia possibile con gli altri organi di senso dei quali abbiamo appena parlato (…) Se ad esempio, con l’occhio vediamo la rosa rossa, attraverso la superficie ci viene rivelato l’interno. Noi vediamo soltanto la superficie, ma poiché essa è determinata dall’interno, per suo mezzo impariamo a conoscere fino ad un certo grado l’interno”.
Col senso del calore, infine, penetriamo “ancor più a fondo nell’intimo di una cosa. Nel colore abbiamo solo ciò che si svolge alla superficie. Il ghiaccio è al contrario in tutto e per tutto freddo, e così anche per l’acciaio incandescente il calore attraversa tutto il corpo (…) Il senso del calore penetra intimamente nei sostrati delle cose”.
Ecco così illustrati, seppur brevemente, tutti e dodici i sensi. Occorre però tenere presente che in ogni atto percettivo vengono sempre impegnati più sensi, quando non addirittura tutti e dodici. In modo diverso, ovviamente, a seconda della natura di tale atto.

Dice Steiner: “Quando l’uomo percepisce un cerchio colorato, egli dice grossolanamente: io vedo il colore e vedo anche la rotondità del cerchio, la forma circolare. Ma così si confondono due cose del tutto diverse tra loro. Mediante la vera e propria attività dell’occhio, separata dal resto, si vede da prima solamente il colore. La forma circolare, invece, la vediamo in quanto nella nostra subcoscienza ci serviamo del senso del movimento, seguendo inconsciamente nel corpo eterico, nel corpo astrale, una voluta circolare, e poi sollevandola nella nostra conoscenza. E solo quando il circolo, che abbiamo accolto mediante il nostro senso del movimento, è affiorato alla conoscenza, il circolo stesso, riconosciuto, si congiunge col colore percepito (…) La scienza ufficiale contemporanea non arriva fino a un modo di osservazione così sottile da far emergere la differenza tra la visione del colore e la percezione della forma con l’aiuto del senso del movimento, ma confonde tutto ciò in un’unica cosa (…) Ora potete penetrare nel senso profondo del nostro rapporto col mondo. Se non avessimo dodici sensi, dovremmo fissare come ebeti il mondo che ci attornia, senza potere, nella nostra interiorità, sperimentare la facoltà di giudicare. Ma poiché possediamo dodici sensi, abbiamo con ciò un numero abbastanza grande di possibilità di collegare degli elementi separati. Ciò che il senso dell’io sperimenta, possiamo congiungerlo con quello che sperimentano gli altri undici sensi; e ciò vale per ciascuno di essi. Otteniamo così un gran numero di permutazioni, per le connessioni dei sensi. Ma otteniamo inoltre un’altra grande quantità di possibilità a questo riguardo, quando congiungiamo il senso dell’io col senso del pensiero e con quello del linguaggio, e così via. Vediamo così in che maniera misteriosa l’uomo è collegato col mondo. Grazie ai suoi dodici sensi, le cose si scompongono per lui nelle loro parti costitutive, ed egli deve mettersi in grado di ricomporle” (pp. 125-126-127).

In questo momento, ad esempio, i vostri sensi suddividono me, che parlo, in dodici parti diverse: il vostro senso della vista mi sperimenta infatti in un modo, quello del linguaggio in un altro, quelli del pensiero e dell’Io, in altri ancora, e così via.
Nell’impatto con i vostri sensi, vengo quindi inconsciamente “notomizzato” o “analizzato”, e reso, per ciò stesso, da “uno”, “molteplice”.
Dal momento che la vostra coscienza mi sperimenta però come “uno”, s’impone la domanda: se sono i sensi a trasformare, o a “solvere”, l’uno nel molteplice, chi è allora a ri-trasformare, o a “coagulare”, il molteplice nell’uno?
Non crediate che sia il cervello. Ascoltate, infatti, quanto scrive John Eccles (in Come l’Io controlla il suo cervellondr): “Finora è stato impossibile sviluppare qualsiasi teoria neurofisiologica che spieghi il modo in cui si possa raggiungere la sintesi di una diversità di eventi cerebrali, affinché vi sia un’esperienza cosciente unificata di carattere globale o di Gestalt. Gli eventi cerebrali rimangono disparati, poiché essi sono essenzialmente i singoli effetti di innumerevoli neuroni che sono organizzati in moduli ed entrano così a far parte degli schemi spazio-temporali di attività. Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento”.
E chi è dunque a operare “la sintesi di una diversità di eventi cerebrali”? La risposta è pronta: l’Io, per mezzo dell’attività giudicante (del pensare).
Il giudicare – come abbiamo visto – sintetizza però concetti, e non percetti, ed è quindi necessario che l’Io trasformi prima questi in quelli. Dei concetti, in cui trasforma in modo immediato i percetti, l’Io stesso diviene poi cosciente allorché prende a servirsi della mediazione animica: allorché li trasferisce, cioè, dal corpo senziente all’anima senziente.
“Già nell’anima senziente – precisa appunto Steiner (in Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofiandr) – vive un pensare, seppure a livello inconscio, che viene alla luce solo nell’anima razionale e diventa consapevole solo nell’anima cosciente”.
Abbiamo così finito l’ottava conferenza. La prossima volta cominceremo la nona.

Roma, 13 aprile 2000

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Di Lucio Russo
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