Antropologia (24)

A

Cominciamo l’ottava conferenza.

Dice Steiner: “Se voi stessi possedete una conoscenza approfondita, e compenetrata di volontà e di sentimento, della natura dell’uomo in formazione, sarete anche in grado di educare e istruire nel modo giusto. Grazie a un istinto pedagogico che si risveglierà in voi, potrete applicare nei singoli campi ciò che, riguardo al fanciullo in via di sviluppo, vi risulterà da questa scienza compenetrata di volontà. Ma tale scienza dev’essere davvero qualcosa di reale, vale a dire di fondato sopra una vera conoscenza del mondo dei fatti” (p. 129).

Dobbiamo fare particolare attenzione a non confondere la conoscenza “compenetrata” di volontà e di sentimento – di cui parla Steiner – con la conoscenza “investita” o “virulentata” dalla volontà e dal sentimento: a non confondere, cioè, il pensiero reale, e per ciò stesso intrinsecamente “forte”, con il pensiero astratto, e per ciò stesso “debole”, reso estrinsecamente forte da pulsioni istintive o emotive. La forza del primo è infatti quella del sentire e del volere interni al pensare, mentre la forza del secondo è quella del sentire o del volere esterni al pensare, e quindi la forza (apparente e ingannevole) dell’assolutismo, del dogmatismo o del fanatismo.
Afferma Steiner che la conoscenza approfondita “della natura dell’uomo in formazione” è in grado di risvegliare in noi un “istinto pedagogico”.
Nessuno, infatti, può più ormai contare su quell’”istinto pedagogico” cui ricorrevano un tempo gli uomini, e cui ricorrono tuttora gli animali.
Ciò che non dà più la natura può però tornare a darlo lo spirito. Com’è possibile, infatti, un’immediatezza (incosciente) della natura, così è possibile un’immediatezza (cosciente) dello spirito (che sta, per così dire, un’”ottava sopra”). Non ci si può però elevare dall’una all’altra, se non si affronta e supera, anzitutto, la prova della mediazione neuro-sensoriale.
A tal fine, oggi studiamo, pensiamo, meditiamo e pratichiamo esercizi interiori. Verrà un giorno, però, in cui tutto questo non sarà più necessario, poiché i nostri sforzi si saranno convertiti (“entrandoci nel sangue”) in “istinto”: in un istinto, se si vuole, “acquisito”, e non più “naturale”.
Un insegnante in cui abbia cominciato a risvegliarsi (almeno un poco) tale forza, saprà quasi sempre cosa fare, perché gli verrà suggerito (ispirato) dall’istinto dello spirito o, per meglio dire, dallo spirito quale istinto.

Dice Steiner: “Sappiamo che il periodo interessante l’educazione e l’istruzione nel loro complesso, è quello che racchiude i due primi decenni della vita. Sappiamo inoltre che anche la vita complessiva del fanciullo, riguardante questi due primi decenni, è tripartita. Fino alla seconda dentizione, il fanciullo ha un carattere ben determinato, che si esprime specialmente nel fatto di essere un individuo imitatore, di voler imitare tutto quanto vede nell’ambiente che lo attornia. Dal settimo anno fino alla pubertà, egli vuole invece accogliere sulla base dell’autorità di persone a lui maggiori tutto quanto ha da sapere, sentire e volere. E solo con la pubertà l’uomo comincia ad anelare a potersi mettere in rapporto col mondo esterno attraverso al giudizio proprio. Perciò dobbiamo badare che, quando abbiamo davanti a noi dei ragazzi nell’età scolastica, dobbiamo sviluppare in loro quell’uomo che, dal più profondo essere della loro stessa natura, richiede un’autorità che lo guidi. Educheremo male se non siamo in grado di esercitare un’autorità rispetto ai fanciulli di questa età” (pp. 129-130).

Abbiamo già detto, una sera, che l’autorità di cui parla Steiner va intesa come “autorevolezza”, e non come “autoritarismo” (cfr. 16° incontro), tant’è che sono proprio gli insegnanti privi della prima a ripiegare spesso sul secondo (o, per converso, sul “permissivismo”); e abbiamo anche detto che costituisce un reale peccato di “omissione” l’abbandonare a se stessi i “ragazzi nell’età scolastica”, mancando così di “sviluppare in loro quell’uomo che, dal più profondo essere della loro stessa natura, richiede un’autorità che lo guidi”.
Andiamo quindi avanti.

Dice Steiner: “L’uomo, quale essere terreno, ha il compito, tra la nascita e la morte, di compenetrare a poco a poco con la logica, con tutto ciò che lo rende capace di pensare logicamente, ciò che da un lato si estrinseca come pensare conoscitivo. Ma voi, come maestri ed educatori, dovrete tenere nello sfondo la logica che possedete. Ché, naturalmente, la logica è qualcosa di specificamente scientifico, e al bambino la si deve apportare soltanto attraverso il proprio comportamento generale. Ma, come insegnante, si deve pure avere in sé l’essenziale della logica” (p. 130).

“L’essenziale della logica” è il Logos. Ricordate, infatti, quante volte abbiamo detto che non solo esistono la logica dello spazio, la logica del tempo e la logica della qualità, ma che esiste pure la “logica delle logiche”, vale a dire il Logos?
Vediamo dunque su quali elementi si basano tali logiche.

Dice Steiner: “In ogni attività logica, vale a dire pensante e conoscitiva, abbiamo sempre tre elementi. Prima di tutto abbiamo continuamente ciò che denominiamo “conclusione” (…) Questa attività del concludere è la più cosciente dell’uomo; l’uomo non potrebbe esprimersi mediante il linguaggio se non attraverso continue conclusioni; non capirebbe ciò che altri gli dice se non potesse continuamente accogliere in sé delle conclusioni (…) La prima cosa che eseguiamo è una conclusione, la seconda è un giudizio, l’ultima a cui perveniamo nella vita è un concetto. Naturalmente noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività, ma se non la compissimo, non condurremmo una vita cosciente atta a farci intendere, attraverso il linguaggio, con altri esseri umani” (pp. 130-131).

Per ben intendere questo passo, dobbiamo tenere presente:
1) che al posto di “conclusione”, possiamo mettere “rappresentazione”. Steiner usa infatti il primo di questi termini, perché ha in mente – come vedremo tra poco – il “sillogismo” (“Tutti gli uomini sono mortali; Caio è un uomo; dunque Caio è mortale”), che è costituito appunto da una “conclusione” (“Caio è mortale”), da una “premessa minore” (“Caio è un uomo”) e da una “premessa maggiore” (“Tutti gli uomini sono mortali”).
La “premessa minore” e la “premessa maggiore” sono dei giudizi; il giudizio è un rapporto tra concetti. Si formula infatti un giudizio tutte le volte in cui si mettono in rapporto tra loro dei concetti, mentre si formula un sillogismo (quale archetipo, per così dire, del “ragionamento”) tutte le volte in cui si mettono in rapporto tra loro dei giudizi.
Tanto la conclusione che la rappresentazione sono perciò frutto del giudicare; tanto è vero che Hegel asserisce – come abbiamo già ricordato una sera – che “ogni cosa è un sillogismo”.
“Questa attività del concludere – afferma del resto Steiner – è la più cosciente dell’uomo”; anche per questo aspetto, dunque, l’attività del concludere equivale a quella del rappresentare;
2) che una cosa è l’inconscio processo creativo che, muovendo dall’Io, discende prima ai concetti, poi ai giudizi, e infine alla cosciente conclusione o rappresentazione, altra il cosciente processo conoscitivo che, muovendo all’inverso dalla conclusione o rappresentazione, risale prima ai giudizi, poi ai concetti, e infine all’Io.
Quando Steiner afferma che “noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività”, dobbiamo pertanto pensare al processo “creativo”, mentre quando dice che “la prima cosa che eseguiamo è una conclusione”, che “la seconda è un giudizio”, e che “l’ultima a cui perveniamo nella vita è un concetto”, dobbiamo pensare al processo “conoscitivo”.

Dice Steiner: “Se consultate i testi di logica, specialmente quelli un po’ antichi, troverete citato il sillogismo divenuto celebre: “Tutti gli uomini sono mortali: Caio è un uomo, dunque Caio è mortale”. Caio è la più famosa delle personalità logiche. Ebbene, questa separazione dei tre giudizi “tutti gli uomini sono mortali”, “Caio è un uomo”, “dunque Caio è mortale”, avviene in realtà solo nell’insegnamento della logica. Nella vita i tre giudizi s’intessono l’uno nell’altro, sono una cosa sola, perché la vita si svolge continuamente in un pensare conoscitivo” (p. 132).

Un conto, infatti, è l’uso naturale e spontaneo della logica, altro lo sforzo di studiare e analizzare la logica in modo “specificamente scientifico”, nell’intento – come abbiamo appena detto – di portare alla luce tutto ciò che presuppongono o implicano le ordinarie conclusioni o rappresentazioni.
Occorre sottolineare, tuttavia, che studiare e analizzare la logica in modo “specificamente scientifico” non significa ancora “sperimentarla” in modo “scientifico-spirituale”. Che cosa fa infatti la coscienza ordinaria allorché conduce tale analisi? E’ presto detto: si “rappresenta” (astrattamente) anche i giudizi e i concetti; ne prende cioè coscienza (riflessa) senza salire affatto di livello, e senza perciò penetrare in quel mondo subcosciente o sognante in cui si svolge il giudicare, né in quello incosciente o dormiente in cui sono i concetti.
Osserva giusto Hegel (nella Scienza della logica): “Non è colpa dell’oggetto della logica, se questa par vuota, ma solo della maniera come quell’oggetto viene inteso”.

Dice Steiner: “La conclusione può vivere solamente nello spirito vivente umano, soltanto qui ha una vita sana, cioè solamente dove si svolge nella vita pienamente sveglia. Ciò è molto importante per l’insegnamento (…) Voi rovinate l’anima del fanciullo quando lavorate in modo che alla memoria vengano affidate conclusioni belle e fatte (…) Se tali conclusioni già fatte (quale risultato dell’istruzione previamente ricevuta, in famiglia o in altre scuole – nda) sono radicate troppo fortemente nelle anime dei fanciulli, lasciamole piuttosto giacere laggiù, e cerchiamo di far loro tirare delle conclusioni riguardo alla vita presente. Anche il giudizio si sviluppa, naturalmente nella vita pienamente sveglia. Ma il giudizio può già discendere nei sostrati dell’anima umana, là dove questa sogna. La conclusione non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna, solo il giudizio può farlo. Dunque, ogni giudizio che noi ci formiamo sul mondo, scende nelle profondità dell’anima sognante. Ma che cos’è quest’anima che sogna? Come abbiamo visto, essa è piuttosto affine al sentimento. Se dunque nella vita formuliamo dei giudizi e poi, distaccandoci da questa formulazione, proseguiamo a vivere, portiamo sì quei giudizi con noi attraverso il mondo, ma li portiamo entro il sentimento (…) Secondo il modo in cui insegnerete ai fanciulli a giudicare, formerete le loro abitudini psichiche. Di questo dovete essere ben coscienti. Infatti nella vita l’espressione del giudizio è la frase, e con ogni frase che pronunciate davanti a un fanciullo voi contribuite a portare un atomo alle sue abitudini animiche. Perciò il maestro, che già possiede l’autorità, dev’essere sempre cosciente che ciò che egli dice va ad imprimersi nelle abitudini psichiche dei bambini” (pp. 132-133).

Abbiamo detto e ripetuto che una cosa è la morta rappresentazione cosciente, altra la viva immagine pre-cosciente. Questa scaturisce infatti direttamente dal giudizio, mentre quella ne scaturisce indirettamente, poiché è frutto del rispecchiarsi dell’immagine (pre-cosciente) nello specchio cerebrale.
Dire – come fa Steiner – che “la conclusione non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna”, e che “solo il giudizio può farlo”, è come dire, perciò, che la rappresentazione “non dovrebbe mai scendere dove l’anima sogna”, e che “solo l’immagine può farlo”, in quanto questa, essendo frutto diretto del giudicare, è in rapporto altrettanto diretto col sentimento.
Evitare d’inculcare nella memoria del fanciullo “conclusioni belle e fatte”, vuol dire dunque evitare d’imbottirlo di “rappresentazioni definite” o, per l’appunto, di “definizioni”.
Afferma sempre Steiner che l’attività della conclusione o della rappresentazione è “sana” soltanto quando “si svolge nella vita pienamente sveglia”. E’ nel corso della veglia e in virtù di tale attività, che ci è dato infatti conoscere quanto nel mondo, al pari delle conclusioni o rappresentazioni, è privo di vita, e quindi statico o immobile.
I giudizi (le immagini pre-coscienti), in quanto vivi e mobili, possono dunque modificarsi e accompagnare così in modo fluido la crescita animica del fanciullo, mentre le conclusioni (le rappresentazioni) – come dirà tra breve Steiner – precipitano nella sua anima come “pietre” o “calcoli”, ingenerandovi una sorta di “litiasi”.
Inutile aggiungere che la rappresentazione (la conclusione) in tanto non dovrebbe mai scendere, regredendo, dove l’anima “sogna”, in quanto dovrebbe anzi salire, progredendo, dove l’anima “immagina”: dove vive, ossia, la coscienza immaginativa.

Dice Steiner: “Passiamo ora dal giudizio al concetto; constateremo che i concetti che formiamo discendono nel più profondo dell’essere umano, discendono (se consideriamo la cosa dal punto di vista dello spirito) fino nell’anima dormiente, quella cioè che continuamente lavora alla formazione del corpo. L’anima che veglia non lavora intorno al corpo; l’anima che sogna vi lavora un po’ e dà origine a quello che sta alla base dei nostri gesti abituali. Ma l’anima che dorme agisce fin dentro le forme del corpo (…) I giudizi possono soltanto vivere nella vita di sogno semicosciente; soltanto le conclusioni possono dominare nella vita di veglia pienamente cosciente. Questo significa che bisogna far grande attenzione a che tutto quello che si riferisce alle conclusioni sia ben discusso coi fanciulli; non si devono far loro sempre assimilare delle conclusioni già formate, ma solo ciò che matura poi in concetti. Ma a questo scopo, che cosa è necessario? Immaginate di formare dei concetti, ma dei concetti morti. Voi inoculate negli uomini dei cadaveri concettuali, fin dentro il loro corpo, quando date loro dei concetti morti. Come dev’essere dunque il concetto, che trasmettiamo agli uomini? Dev’essere vivente se si vuole che l’uomo possa vivere con esso. Se inoculerete nel bambino di nove o dieci anni dei concetti in modo che l’uomo a trenta o quarant’anni li possegga ancora nell’identico modo, gli inoculate dei cadaveri concettuali, poiché i concetti non si sviluppano anch’essi con l’uomo mentre si sviluppa. Dovete dare al bambino dei concetti tali che possano evolversi nel corso ulteriore della vita” (pp. 133-134-135-136).

Abbiamo visto che l’esperienza viva e reale dell’attività (pre-cosciente) dell’immaginare, di quella (subcosciente) del giudicare e della realtà (incosciente) dei concetti è cosa ben diversa dalle astratte rappresentazioni che, dell’immaginare, del giudicare e dei concetti, normalmente ci facciamo. Com’è impossibile, infatti, fotografare o dipingere l’acqua che scorre o la pioggia che cade senza per questo fermare o irrigidire il loro movimento, così è impossibile rappresentarsi l’immaginare o il giudicare senza votarli alla stessa fine. A dimostrare poi la fine cui va incontro, in tal modo, la realtà dei concetti, basta il “nominalismo”: ovvero, l’ordinaria convinzione che i concetti siano solo dei “nomi”.
Inoculare nel bambino dei concetti morti vuol dire dunque inoculargli (come fanno i “catechismi” laici o religiosi) delle rappresentazioni “belle e fatte”, e quindi, in sostanza, dei “pre-giudizi”: ossia dei giudizi che, radicandosi e fissandosi precocemente nell’anima, finiscono col paralizzarne l’empito conoscitivo, e quindi la sua stessa capacità di crescere. Occorre insomma offrire al bambino dei “pensati” che siano “cotti – per così dire – al punto giusto”, in modo tale da non sclerotizzare o rammollire il pensare: lo sclerotizzano infatti i pensieri “crudi” (di cui è ghiotto Arimane) e lo rammolliscono invece quelli “scotti” (di cui è ghiotto Lucifero).
Fatto sta che una delle principali differenze tra il pensiero che usiamo chiamare “vivente” e quello che usiamo chiamare invece “riflesso” (o, con Scaligero, “dialettico”), risiede appunto nel fatto che il primo cresce con noi, mentre il secondo, non essendo in grado di farlo, crea una discrasia, a dir poco imbarazzante, tra la nostra età anagrafica e quella animica.
Ciò dipende comunque dal fatto che l’Io, non avendo forma, può prendere tutte le forme, e quindi “tra(n)s-formarsi”, mentre l’ego, in quanto identificato con la forma assegnatagli dalla natura (dal karma), paventa il mutamento o il divenire allo stesso modo in cui paventa il perire.

Roma, 20 aprile 2000

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Di Lucio Russo
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