Massime antroposofiche
14/15/16

M

14) “La seconda forma dell’”io”, a cui si è accennato nella esposizione della massima precedente, si presenta come “immagine” dell’io. Divenendo coscienti di questo carattere d’immagine, si getta anche luce sull’essenza del pensiero, nella quale l’”io” appare alla coscienza ordinaria. Con ogni sorta di considerazioni si cerca il “vero io” nella coscienza ordinaria. Ma un serio esame di quello che la coscienza sperimenta mostra che in essa non si può trovare il “vero io”; bensì che in essa riesce a palesarsene un semplice riflesso in forma di pensiero, il quale è meno di un’immagine. Si è giustamente afferrati dalla realtà di questo fatto, quando si proceda verso l’”io” come immagine che vive nel corpo eterico. E solo così si è giustamente stimolati alla ricerca dell’io come della vera entità dell’uomo”.

Fate attenzione, perché la “seconda” forma dell’Io, di cui qui si parla, è quella “immaginativa”, caratterizzata al primo punto della massima precedente: tale forma – dice infatti Steiner – “si presenta come immagine dell’io”, e non quindi come sua rappresentazione (ch’è “meno di un’immagine”).
E che differenza c’è tra il rappresentare e l’immaginare? Lo sappiamo: il primo, retto dal corpo fisico, ci fornisce un’immagine solida (definita) della realtà sensibile, mentre il secondo, retto dal corpo eterico, ci dà un’immagine fluida della realtà extrasensibile.
“Divenendo coscienti di questo carattere d’immagine – prosegue Steiner -, si getta anche luce sull’essenza del pensiero, nella quale l'”io” appare alla coscienza ordinaria”.
Parliamo spesso, da antroposofi, di “pensiero vivente”; ma come si fa a capire se il pensiero è “vivente”? E’ presto detto: è “vivente” se ci consente di riconoscere “a naso” l’astrazione (intellettualistica) e se “getta anche luce” sulla natura “morta” del pensiero “che regge l’autocoscienza ordinaria”.
Ridando vita al pensiero, saliamo infatti a un grado superiore di coscienza dal quale ci è possibile osservare quello che gli è subordinato: ossia, quel grado di coscienza ordinario che prima non potevamo vedere perché ci stavamo, per così dire, “dentro”. Solo uscendone e oggettivandolo è possibile osservare e comprendere la natura “morta” (meccanica, discreta o algoritmica) del movimento del pensiero (riflesso) che lo caratterizza.
“Con ogni sorta di considerazioni – dice ancora Steiner – si cerca il “vero io” nella coscienza ordinaria”.
Allo stato di veglia godiamo della coscienza dell’Io, allo stato di sonno la perdiamo. Non siamo quindi in grado di mantenere l’autocoscienza durante il sonno.
Perché? Perché l’ordinaria coscienza dell’Io (del soggetto) si regge, durante la veglia e grazie alla percezione sensibile, sulla coscienza del non-Io (dell’oggetto). Quando ci si addormenta, al dileguare della coscienza del non-Io si accompagna infatti il dileguare di quella dell’Io.
Non si tratta perciò di attutire od obliare lo stato di veglia (come consigliano alcuni presunti “maestri”), bensì di intensificarlo e svilupparlo (mediante l’attività del pensiero e l’esercizio interiore) tanto da riuscire a estenderne qualitativamente la portata (così da arrivare a conquistare, un giorno, la cosiddetta “continuità della coscienza” e dell’autocoscienza).
“Si è giustamente afferrati dalla realtà di questo fatto – conclude Steiner -, quando si proceda verso l'”io” come immagine che vive nel corpo eterico. E solo così si è giustamente stimolati alla ricerca dell’io come della vera entità dell’uomo”.
Come vedete, non si dice che, nella sfera eterica (e mediante la coscienza immaginativa), si raggiunge il “vero” Io, ma che, a questo livello, “si è giustamente stimolati alla ricerca dell’io come della vera entità dell’uomo”.
Sappiamo, infatti, che la realtà eterica (vivente e immaginativa) è deputata a mediare tra la realtà sensibile e quella sovrasensibile: non si può pertanto varcare (in modo sano) la “soglia”, che divide la realtà eterico-fisica da quella animico-spirituale (vigilata dai due “Guardiani”), se non si attraversa attivamente e lucidamente la realtà eterica.
L’ordinaria coscienza dell’Io è sì, insomma, un’autocoscienza, ma un’autocoscienza riflessa.
Pensate a quando ci guardiamo allo specchio. Stiamo davanti allo specchio, ma la nostra immagine sta nello specchio, e gli aderisce a tal punto da farci credere che gli appartenga.
Ebbene, quando l’Io si riflette nello specchio cerebrale accade qualcosa di simile: l’Io vede la propria immagine nel cervello e crede allora che gli appartenga.
Che ne consegue? Che se il cervello, per una qualsiasi ragione, va in malora, si crede che sia andato in malora l’Io, e non la coscienza riflessa dell’Io.
Ne volete un piccolissimo esempio? A Renato Farina, autore di Maestri (1), che riporta questa affermazione di Don Giussani: “Il mio corpo si disfa. Lo sento dissolvere, ma mentre avanza questa putrefazione, il mio io si fa più chiaro”, il giornalista non sa far di meglio che rispondere: “Tu puoi credere che sia un segno dell’immortalità dell’anima, oppure pensare, come me, che Luigi Giussani abbia avuto un gran culo (sic! ) a scampare l’alzheimer, l’arteriosclerosi, l’ictus, la schizofrenia, l’epilessia, l’apoplessia, la neoplasia, l’aneurisma e tutte quelle catastrofi, come in generale la vecchiaia, che, intaccando il corpo, intaccano e disintegrano senza rimedio anche l’io e quanto del nostro io vorremmo salvare con le nostre belle favole” (2).
Ignora, dunque, che al mondo non ci sono solo le “belle favole”, raccontate da Lucifero, ma anche le “brutte favole” (materialistiche), raccontate da Arimane: ossia da un’entità che, avendo per habitat la “menzogna”, spaccia appunto la “disintegrazione della coscienza dell’Io” per quella “dell’Io”.
Intendiamoci, nessuno pensi di poter sviluppare una sana e piena autocoscienza senza muovere da quella corporea o spaziale; dice infatti Steiner: “La via del cuore passa per la testa”; e Scaligero ribadisce: “Nessuno può diventare un Io se prima non è stato un ego”.
Chiunque voglia davvero intraprendere un cammino scientifico-spirituale, e non limitarsi a vagheggiare o sognare l’Io spirituale, deve perciò prendere le mosse dall’autocoscienza rappresentativa: deve cioè muovere dal grado di coscienza al quale l’evoluzione naturale ci ha portato, e al quale le forze arimaniche vorrebbero arrestarci e fissarci.

15) “La comprensione della forma in cui l’io vive nel corpo astrale conduce a sentire nel giusto modo il rapporto dell’uomo col mondo spirituale. Questa forma dell’io è immersa per l’esperienza comune nelle oscure profondità dell’incosciente. In queste profondità l’uomo si collega per mezzo dell’ispirazione con la spiritualità universale. Davanti alla coscienza ordinaria sta solo un debolissimo riflesso sentimentale di questa ispirazione che, dalle vastità del mondo spirituale, domina nelle profondità dell’anima”.

Eccoci arrivati al passaggio dall’autocoscienza retta dal corpo eterico a quella retta dal corpo astrale: eccoci arrivati, cioè, alla realtà animica.
Ricordiamoci, infatti, che “il corpo eterico, essendo soprasensibile, è qualcosa nell’uomo che può essere afferrato solamente da una conoscenza immaginativa, qualcosa che però può essere guardato appunto dall’esterno per la conoscenza soprasensibile“, mentre “il corpo astrale è qualcosa che può essere sperimentato solo interiormente, entro il quale noi stessi dobbiamo essere per poterlo sperimentare, come pure la quarta parte costitutiva che dobbiamo afferrare qui nel mondo fisico: l’io” (3).
“Questa forma dell’io – dice Steiner – è immersa per l’esperienza comune nelle oscure profondità dell’incosciente”.
L’esperienza immaginativa somiglia infatti a quella subcosciente del sogno, con la differenza che quella immaginativa è un’esperienza spirituale, mentre quella onirica è un esperienza naturale: per fare la prima, si deve conquistare un grado superiore di veglia (passando dal pensiero “passivo” a quello “attivo” o “vivente”); per fare la seconda basta andare a dormire.
Non abbiamo più dunque a che fare, adesso, col grado (eterico) del sogno, ma con quello (astrale) del sonno (senza sogni).
“In queste profondità – prosegue Steiner -, l’uomo si collega per mezzo dell’ispirazione con la spiritualità universale”.
In quanto collegata “con la spiritualità universale”, l’anima è una sorta di Pantheon popolato di molteplici e diverse qualità o entità (tanto che potremmo definirla “politeistica”). Dal momento, tuttavia, che non ne siamo normalmente coscienti, dobbiamo allora sviluppare, al di là di quella immaginativa (quale “sogno vigile”), la coscienza ispirata (quale “sonno vigile”).
Teniamo comunque presente che ciò di cui siamo incoscienti, non cessa per questo di agire e di dare conto di sé: magari in forma di sentimento o presentimento.
“Davanti alla coscienza ordinaria – dice appunto Steiner – sta solo un debolissimo riflesso sentimentale di questa ispirazione”.
Qual è dunque il compito? Quello di penetrare, con i mezzi offertici dalla scienza dello spirito, nelle regioni subcoscienti e incoscienti dell’anima (“L’antroposofia – afferma Steiner – non è altro che lo stimolo a tirar fuori le forze di conoscenza giacenti nelle profondità delle anime”) (4).
Come ho già avuto occasione di dire, tanto la psicoanalisi di Freud quanto la psicologia analitica di Jung non sono state in grado, a dispetto delle intenzioni e delle aspirazioni dei loro fondatori (in special modo di Jung), di scoprire e portare alla luce il tesoro (spirituale) racchiuso nell’inconscio.
Fatto si è che nelle leggende non ci sono solo i tesori, ma anche i draghi che li sorvegliano. Chiunque vada alla ricerca di tesori, deve perciò munirsi di un arma atta a sconfiggerli.
E qual è l’arma capace di sconfiggere i draghi che si sono impadroniti dei tesori della vita, dell’anima e dello spirito? La risposta è una, e una soltanto: la spada del pensiero.
Si tratta però di una spada che va anzitutto sfilata, come insegna la storia di Artù, dalla “roccia” o, come insegna quella di Siegmund (padre di Sigfrido), dal “tronco del frassino”: vale a dire, dal cervello che di norma l’imprigiona.
Avete presente l’Arcangelo Michele raffigurato da Guido Reni? Bene, vi siete mai chiesti per quale ragione Michele incalzi con la sua spada Arimane, ma non lo trafigga? E’ semplice: non lo trafigge perché è la spada stessa che impugna a farlo indietreggiare, costringendolo così a rientrare nei ranghi: vale a dire, in quel territorio della morte di cui è legittimo sovrano, ma i cui confini cerca incessantemente e arbitrariamente di varcare, approfittando dell’incoscienza umana Ben si capisce, quindi, il perché Steiner dica in questa conferenza – lo traduco: “Coltivare l’antroposofia diventa così un dovere; la conoscenza diventa un qualcosa che davvero sentiamo, un qualcosa di cui siamo responsabili” (5).
Dobbiamo trovare dunque il coraggio di assumerci questa responsabilità, procedendo con grande prudenza, modestia e serietà.
Permettete, per finire, che vi legga questo significativo passo di Hegel: “Quanto alla filosofia genuina, noi vediamo come l’immediata rivelazione del divino e il buon senso, che non si è mai curato di coltivarsi con la filosofia né con altra forma del sapere, si considerino senz’altro quale perfetto equivalente e ottimo surrogato della lunga via della cultura, di quel ricco e profondo movimento per cui lo spirito giunge al sapere, quasi come si decanta la cicoria quale surrogato del caffé. E’ penoso notare come l’insipienza e il pacchianismo senza gusto né linea, incapace di fermare il pensiero su proposizioni astratte singolarmente prese, e ancor meno sul loro nesso, si atteggino ora a libertà e tolleranza del pensiero, ora a genialità” (6).

16) “La terza forma dell'”io” ci introduce nell’entità autonoma dell’uomo entro un mondo spirituale. Suscita il senso che l’uomo, con la sua natura terrestre-sensibile, sta davanti a se stesso soltanto come la manifestazione di quel che egli è in realtà. Con ciò gli è dato il punto di partenza per una vera conoscenza di sé, perché quel sé, che configura l’uomo nella sua verità, si rivelerà alla conoscenza solo quando si progredisca dal pensiero dell’io all’immagine di esso, dall’immagine alle forze che la creano e, da lì, ai portatori spirituali di tali forze”.

Dopo aver considerato la forma eterica e quella astrale, occupiamoci adesso della forma che assume l’autocoscienza allorché l’Io arriva all’Io (allo spirito): allorché torna, cioè, a se stesso.
Che cosa succede a questo livello? Succede che cessiamo di riconoscerci come un corpo (fisico) che occupa uno spazio, come un corpo (eterico) che occupa un tempo o come un corpo (astrale) ch’è un insieme di qualità (un carattere), per riconoscerci, finalmente, come un Io: vale a dire, come una “entità autonoma entro un mondo spirituale”.
Se prima credevamo che il corpo (fisico) fosse il nostro essere, ora invece sappiamo di essere un Io (spirituale), del quale il corpo è la manifestazione. Questo grado dell’autocoscienza, dice appunto Steiner, “suscita il senso che l’uomo, con la sua natura terrestre-sensibile, sta davanti a se stesso soltanto come la manifestazione di quel che egli è in realtà”.
Avete presente l’hic et nunc dei filosofi (proprio quello, magari, dell’hegeliana Fenomenologia dello spirito di cui vi ho letto prima un passo)? Ebbene, nell’hic et nunc (nello spazio e nel tempo) ciascuno di noi appare, ma non è.
Viene meno, così, l’ordinaria identificazione dell’essere con l’apparire (dell’Io col corpo fisico): identificazione che è, come sostiene la psicoanalisi (freudiana), un inconscio “meccanismo di difesa” dalla cui azione patogena si dovrebbe guarire per mezzo della psicoterapia.
Questo è vero sul piano psichico, ma è ancor più vero su quello animico-spirituale (dove si opera la guarigione del “vecchio Adamo”).
Ascoltate quanto afferma al riguardo Steiner: “La concezione spirituale del mondo, la somma di verità spirituali che abbiamo attinta dalle altezze del cosmo, fluirà entro le anime umane; così per l’umanità dell’avvenire diventerà essa stessa un rimedio curativo alimentato dall’interiorità più profonda dell’uomo. In avvenire la scienza dello spirito diventerà sempre più un farmaco per le anime” (7).
Come si sa, però, che ogni paziente presenta un’inconscia “resistenza” alla psicoterapia (benché abbia voluto sottoporvisi), così ciascuno di noi presenta (benché l’abbia scelta) una “resistenza” ancor più sottile, tenace e caparbia (in quanto sostenuta dalle forze ostacolatrici) alla scienza dello spirito: “resistenza” che ovviamente aggrava, in barba a ogni pur brillante argomentazione, lo stato dell’anima (un libro di Viktor Frankl è per l’appunto intitolato: La sofferenza di una vita senza senso) (8).
Ascoltate questi versi di Arsenij Tarkovskij (padre del regista Andrej), riferiti – come scrive Paola Pedicone – “a Puškin che prendeva lezioni di “ateismo puro” da un inglese di passaggio”:

Giusto Dio, non sarà che anch’io
andrò per la sua stessa strada
di vita in vita mancando il segno,
mancando il senso dell’esistenza? (9)

Pensate ad esempio al corpo. Potreste mai convincerlo a ingurgitare un cibo tossico senza reagire? Ebbene, lo stesso vale per l’anima, quando la si costringa a ingurgitare – come purtroppo oggi accade – falsità, bruttezze o cattiverie.
E’ doveroso comunque ricordare, a proposito di “resistenze”, questo particolare (e spesso trascurato) avvertimento di Scaligero: “A un determinato momento, si sa che lo sforzo, le discipline, il rigore dell’ascesi sono mezzi dell’ego ancora incapace di realizzare la propria estinzione: che apra il varco all’Io Superiore. Questo è presente nell’Io di ogni momento, nell’ego che gli si oppone e perciò si sforza di sopravvivere mediante la concentrazione, mediante la meditazione, mediante l’ascesi. Occorre che l’ego esaurisca tutte le velleità di elevazione, perché questa elevazione si realizzi come sua morte, sua resurrezione. La sua Crocifissione quotidiana non ha senso, se non conosce la Morte e la Resurrezione” (10).
“Con ciò – conclude Steiner – gli è dato [all’uomo] il punto di partenza per una vera conoscenza di sé, perché quel sé, che configura l’uomo nella sua verità, si rivelerà alla conoscenza solo quando si progredisca dal pensiero dell’io all’immagine di esso, dall’immagine alle forze che la creano e, da lì, ai portatori spirituali di tali forze”.
E’ questa – come ormai sappiamo – una gerarchia di gradi o livelli di coscienza e di autocoscienza che va assolutamente rispettata.
Fatto si è che uno dei tanti pregi della scienza dello spirito è costituito dal suo metodo (incarnante il suo spirito): ossia da un metodo (da un pensiero) che cerca costantemente, lucidamente ed umilmente di adeguarsi alla realtà.
Mai, nel nostro cammino conoscitivo, deve dunque venir meno l’amore per la realtà, l’amore per il mondo così com’è, e non come piacerebbe, alle nostre brame, che fosse.

Note:

1) cfr. R.Farina: Maestri – PIEMME, Milano 2007;
2) cfr. il Giornale, 6 gennaio 2008;
3) R.Steiner: L’evento della morte e i fatti del dopo-morte – PSICHE, Torino 1997, pp. 11 e 12;
4) R.Steiner: Vita da morte a nuova nascita – PSICHE, Torino 1997, p. 87;
5) R.Steiner: The etherisation of the blood – R.Steiner Press, London 1971, p. 36;
6) W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 41;
7) R.Steiner: Il Vangelo di Luca – Antroposofica, Milano 1996, p. 143;
8) cfr. V.Frankl: La sofferenza di una vita senza senso – ELLE DI CI, Torino 1978;
9) P.Pedicone-A.Lavrin: I Tarkovskij. Padre e figlio nello specchio del destino – Tracce, Pescara 2008, p. 145;
10) M.Scaligero: Manuale pratico della meditazione – Tilopa, Roma 1984, p. 81.

Scarica PDF

Di Lucio Russo
Per qualsiasi informazione o commento, potete inviare una e-mail al seguente indirizzo: info@ospi.it



Nel campo sottostante è possibile inserire un nome o una parola. Cliccando sul pulsante cerca verranno visualizzati tutti gli articoli, noterelle o corrispondenze in cui quel nome o parola è presente