Seconda parte: Il mistero di Michele – Massime antroposofiche 79/80/81 e 82/83/84 – 1°

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Ricordate ciò che abbiamo detto all’inizio del nostro studio? Che dovremmo imparare a distinguere il pensato (fisico) dal pensare (eterico), il pensare dalla coscienza pensante (astrale) e la coscienza pensante dall’Io (spirituale).
Possiamo adesso aggiungere che il “mistero di Michele” è il “mistero del pensare”, che “il mistero della Sophia” è il “mistero della coscienza pensante”, e che il “mistero del Cristo” è il “mistero dell’Io” (dell’”Io sono”).
Il “mistero del pensare” è il mistero di quella realtà eterica che fa da “ponte” (sensibile-sovrasensibile) tra il piano della realtà fisica e quello della realtà animico-spirituale.
Affermare che “la via del cuore passa per la testa” significa pertanto affermare che la via dell’Io e del Cristo (che lo inabita) passa per il pensare eterico (vivente) e per l’Arcangelo Michele.
Se vogliamo farci un quadro della lotta che Michele (quale “Principe delle milizie celesti”) conduce contro Arimane, dobbiamo immaginare che il primo ci indica la via che sale dal pensare riflesso a quello vivente, mentre il secondo ci attira sulla via che scende dal pensare riflesso all’organo cerebrale (alla corteccia): cioè su una via che ci vincola ancor più al corpo fisico.
Cominciamo dunque a leggere questa lettera, intitolata: All’inizio dell’epoca di Michele (17 agosto 1924).

Fino al secolo nono dopo il mistero del Golgota, la posizione dell’uomo di fronte ai suoi pensieri fu diversa da poi. Egli non aveva il sentimento di essere lui stesso il generatore dei pensieri che vivevano nella sua anima. Li considerava ispirazioni di un mondo spirituale. Anche quando pensava su ciò che percepiva con i suoi sensi, i pensieri erano per lui rivelazioni del mondo divino che gli parlava dagli oggetti sensibili” (p. 55).

Non è facile capire quale sia “la posizione dell’uomo di fronte ai suoi pensieri”, ossia la relazione dell’uomo (dell’Io) con i pensieri, se non si ha chiaro che è lecito sentirsi “generatori” delle rappresentazioni, ma non dei concetti, dal momento che questi, come abbiamo detto e ripetuto, sono mondo tanto quanto i percetti (i contenuti delle percezioni).
Fatto si è (anche se per lo più lo s’ignora) che un conto è il concetto, altro la nostra coscienza del concetto (così come, banalmente, un conto è l’albero, altro la nostra coscienza dell’albero).
“Il concetto – recita questo Dizionario di filosofia – è un’idea astratta e generale in quanto fissa alcuni caratteri permanenti di un gruppo di individui tra loro simili, caratteri che poi vengono attribuiti a tutti gli individui che entrano nel gruppo considerato” (1).
Come vedete, si crede che sia “astratta” la natura del concetto, e non – come si dovrebbe – quella della nostra coscienza del concetto.
Mai si sarebbe affermato, d’altronde, il nominalismo (ch’è alla base del materialismo) se la moderna coscienza del concetto fosse stata all’altezza della sua realtà spirituale.
In quale forma, infatti, ne abbiamo normalmente coscienza (o incoscienza)? Lo abbiamo detto: in quella della “rappresentazione” (mediata dai sensi fisici e dalla corteccia).
Ricordate queste parole de La filosofia della libertà? “La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione (…) La rappresentazione è dunque un concetto individualizzato” (2).
Per quale ragione, dunque, l’uomo, prima del “secolo nono dopo il mistero del Golgota” (cioè nel corso dello sviluppo dell’anima senziente e agli inizi di quello dell’anima razionale-affettiva), “non aveva il sentimento di essere lui stesso il generatore dei pensieri che vivevano nella sua anima”? E’ semplice: perché lo è andato tanto più sviluppando quanto più si è andata evolvendo e consolidando, in lui, l’anima cosciente (l’autocoscienza egoica), e quindi la coscienza rappresentativa del concetto.

Chi è dotato di veggenza spirituale comprende questo sentimento perché, quando all’anima si palesano realtà spirituali, non si ha mai il sentimento di stare dinanzi alla percezione spirituale e di formare da sé i pensieri per comprenderla; si vede invece il pensiero che è contenuto nella percezione, e che è dato nella medesima, altrettanto oggettivamente quanto la percezione stessa” (p. 55).

Abbiamo detto che, in virtù della coscienza scientifico-naturale (quale espressione più alta della coscienza ordinaria), prima percepiamo (mediante i sensi fisici) e poi pensiamo, mentre, in virtù della coscienza scientifico-spirituale, prima pensiamo e poi percepiamo (mediante i sensi spirituali).
Ciò che percepiamo mediante il senso immaginativo, il senso ispirato e quello intuitivo non ha però bisogno, come ciò che percepiamo mediante i sensi fisici, di essere poi pensato, perché è già pensiero: ma un pensiero resosi a tal punto vivo e corposo da equivalere a un percetto (a un luminoso contenuto di percezione).

Domanda: Potresti fare un esempio?
Risposta: Considera, che so, il concetto di “bellezza”. Un conto è credere che la bellezza sia un’idea astratta, altro sapere che è un’entità spirituale, e che lo è in quanto è in forma appunto d’idee (o di concetti) che le entità spirituali si presentano al pensiero umano.
Siamo abituati a dire, ad esempio, che Afrodite era la Dea greca della bellezza o che Poseidone era il Dio greco del mare, mentre sarebbe più appropriato dire che, per i greci, la bellezza e il mare erano delle entità spirituali o degli Dèi.

Col secolo nono (e si intende che queste indicazioni si riferiscono alla media di un’epoca perché il trapasso avviene del tutto gradualmente), spuntò nelle anime umane la luce dell’intelligenza personale-individuale. L’uomo ebbe il sentimento: “Io formo i pensieri”. Questo formare i pensieri divenne l’elemento preponderante della vita animica, di modo che i pensanti scorsero l’essenza dell’anima umana nel suo comportamento intelligente”(p. 55).

Per “intelligenza personale-individuale” va intesa la coscienza rappresentativa, giacché la rappresentazione è per l’appunto un “concetto individualizzato”.
Lo spuntare della “luce dell’intelligenza personale-individuale” è lo spuntare dell’ego (della coscienza rappresentativa dell’Io): ossia di una luce che sorge al tramontare di quella dell’intelligenza impersonale-universale (cosmica), e che rende con ciò possibile la libertà.
Siamo talmente identificati, oggi, con la coscienza rappresentativa e con le nostre opinioni che di tutto questo non ci rendiamo affatto conto.
Si usa parlare, ad esempio, di una concezione “platonica”, “aristotelica”, “cartesiana”, “hegeliana”, “marxiana” ecc.; ma che fine fa così la realtà? Possibile che nessuno sia disposto a rendersi tanto trasparente da permetterci di vedere, non lui, bensì, attraverso di lui?
Ricordate che cosa dice il Cristo dello Spirito Santo? Che ci “guiderà verso tutta la verità”, perché non ci “parlerà da se stesso” (Gv 16,13); è infatti lo Spirito “invisibile”, poiché è lo Spirito che non si vede, ma attraverso il quale si vede (la realtà, o, il che è lo stesso, Dio).
Ritengo per questo improprio parlare (come spesso si fa) di una concezione “steineriana”, dal momento che Steiner, in tanto è riuscito a fare quel che ha fatto, in quanto è riuscito a superare (in nome dello spirito scientifico o, per l’appunto, dello “Spirito di verità”) la propria soggettività: perché si è insomma reso grande facendosi piccolo (“Bisogna che Egli cresca – dice il Battista – ed io diminuisca” – Gv 3,30) (3).
Morale della favola: è inutile biasimare o condannare l’egoismo, oppure voler eliminare, come pretenderebbero i marxisti, la “proprietà privata dei mezzi di produzione”, se non si comincia a eliminare, sul piano animico, la “proprietà privata dei pensieri”. E’ insieme a questa, infatti, che sono nati l’ego e il sentimento (tipicamente borghese) dell’habeo ergo sum.
Dovremmo realizzare, insomma, non solo che il pensare ci è dato per percepire i pensieri allo stesso modo in cui l’occhio ci è dato per percepire i colori o l’orecchio per percepire i suoni, ma anche che l’uomo non è “generatore” della realtà (e delle idee che ne costituiscono l’essenza), bensì della coscienza della realtà (e del pensare che ne afferra l’essenza).

Prima di allora si era avuta dell’anima una rappresentazione immaginativa. Non si vedeva la sua essenza nella capacità di formare pensieri, ma nel suo partecipare al contenuto spirituale dell’universo. Si stimava che le entità spirituali soprasensibili pensassero, che esse agissero nell’uomo e che anche pensassero in lui. Si sentiva come anima ciò che del mondo spirituale soprasensibile viveva così nell’uomo” (pp. 55-56).

Ho ricordato, una sera, la “logica dell’essere”, la “logica dell’essenza” e la “logica del concetto” di Hegel.
Riprendendo i termini (tomistici) che abbiamo usato studiando La filosofia della libertà, potremmo dire che quella dell’essere è la logica del pensiero ante-rem, che quella dell’essenza è la logica del pensiero in-re, e che quella del concetto è la logica del pensiero post-rem.
Potrebbe divenire più chiaro, così, come il graduale svanire di ogni consapevolezza, tanto del pensiero in-re, quanto, e a maggior ragione, del pensiero ante-rem, sia dovuto all’unilaterale imporsi del pensiero post-rem.
Sono due, in sostanza, le principali conseguenze di tale processo evolutivo (al quale siamo però debitori – non dimentichiamolo – della nostra libertà “da”): la prima è che non solo è venuta meno l’antica continuità tra il pensiero umano (post-rem) e il pensiero cosmico (in-re e ante-rem), ma ha preso addirittura corpo un’opposizione tra il pensiero umano, giudicato “immanente”, e quello cosmico, giudicato “trascendente”; la seconda è che il pensiero post-rem, una volta scisso da quello in-re e ante-rem, si è trasformato in un pensiero, potremmo dire, supra-rem (sulla cosa): vale a dire, in un pensiero del tutto soggettivo (“fenomenico”, direbbe Kant), e quindi incapace di cogliere l’essenza della realtà (la realtà “in sé”).

(…) un tempo gli uomini ricevevano i pensieri da Michele; Michele amministrava l’intelligenza cosmica. Dal secolo nono in poi gli uomini non sentivano più che Michele ispirava i loro pensieri. Questi erano sfuggiti alla sua signoria; cadevano dal mondo spirituale nelle singole anime umane.
La vita del pensiero venne ormai sviluppata in seno all’umanità. A tutta prima si fu incerti sulla natura del pensiero, e tale incertezza viveva nelle dottrine scolastiche. Gli scolastici si divisero in realisti e nominalisti. I realisti, di cui furono a capo Tommaso d’Aquino e quelli più vicini a lui, sentivano ancora l’antica parentela fra pensiero e oggetto. Vedevano perciò nei pensieri una realtà che vive negli oggetti. Consideravano i pensieri dell’uomo come una realtà che dagli oggetti penetra nell’anima. I nominalisti sentivano fortemente il fatto che l’anima forma i propri pensieri. Sentivano i pensieri soltanto come un elemento soggettivo che vive nell’anima e nulla ha da fare con gli oggetti. Credevano che i pensieri altro non fossero che nomi formati dagli uomini per gli oggetti (allora non si parlava di “pensieri”, ma di “universali”, ma questo non modifica la sostanza della considerazione fatta, perché i pensieri hanno sempre qualcosa di universale in confronto alle singole cose)
” (p. 56).

Per i realisti, il pensiero era una realtà che “vive negli oggetti” (in-re) e che “dagli oggetti penetra nell’anima” (post-rem), mentre, per i nominalisti, che sentivano “fortemente il fatto che l’anima forma i propri pensieri”, il pensiero era, come abbiamo appena detto, una realtà supra-rem: ossia “un elemento soggettivo che vive nell’anima e nulla ha da fare con gli oggetti”.
Notiamo dunque il paradosso: da una parte, ci sono coloro che vogliono restare vicini a Michele e, dall’altra, coloro che invece se ne allontanano, ma che, proprio per il fatto di allontanarsene, portano avanti l’evoluzione nella direzione della libertà (“da”).
Ciò non deve meravigliare, giacché quanto è positivo in una determinata fase evolutiva può diventare negativo in un’altra (“L’ego fu un aiuto; – dice ad esempio Aurobindo – l’ego è l’ostacolo”) (4).
“All’alba della vita spirituale dei tempi nuovi” (5), allorché si preparava a nascere, cioè, l’anima cosciente (la modernità, la scienza) erano di fatto “rivoluzionari” i nominalisti e “conservatori” i realisti.
Oggi, invece (e questo a partire dal 1879, anno in cui s’inizia la nuova reggenza di Michele), sono “conservatori” (se non “reazionari”) i nominalisti e “rivoluzionari” i realisti: non già, si badi, i vecchi realisti dell’anima razionale-affettiva (come ad esempio i tomisti), ma i nuovi realisti dell’anima cosciente che vogliono riavvicinarsi a Michele per sviluppare la coscienza immaginativa e cominciare così a trasformare l’ego nel “Sé spirituale” (di cui l’uomo si approprierà però soltanto sul futuro Giove).

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Di Lucio Russo
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