Massime antroposofiche
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M

Abbiamo visto che l’uomo ha avuto prima un’esperienza immediata dello spirito o degli spiriti, poi una mediata dal corpo astrale, poi ancora dal corpo eterico e infine dal corpo fisico.
E’ il “tramonto” degli Dèi: ossia di esseri che, dopo essere stati sperimentati non più come “spiriti” (quali sono), ma come “anime” e come “vita”, vengono infine sperimentati come realtà sensibili (come “oggetti” o “fenomeni”).
(Canta Hördelin [1770-1843], compagno di studi e di stanza, allo Stift di Tubinga, di Hegel e Schelling: “Numi benigni! E’ miseranda pena / la vita di colui che non conosce / la vostra luce. Nel selvaggio seno, / non gli si placa mai l’interna zuffa: / notte gli è il mondo: e non fiorisce, a lui, / gioia veruna in voluttà di canto” [1].)
Nella misura in cui l’uomo sperimenta gli Dèi come realtà sensibili (Eolo, ad esempio, come il vento, e non più il vento come Eolo), sperimenta anche se stesso come corpo fisico e, di conseguenza, come ego.
Questa “caduta” degli Dèi e dell’uomo è giunta a compimento allorché il corpo eterico si è interamente inserito, in specie nel polo cefalico, nel corpo fisico. In un Socrate o in un Platone, infatti, la testa eterica non coincideva ancora con quella fisica.
Per effetto di questa “caduta”, nasce, come abbiamo visto, il pensiero “meccanico”: ossia un pensiero che non diventa meccanico perché si cimenta con la meccanica (perfino “celeste”), bensì si cimenta con la meccanica perché è diventato meccanico (perché l’eterico si è immerso, come abbiamo appena detto, nel fisico).
Si tratta di un pensiero ch’è in grado di sperimentare lo spazio, giacché le cose vi si trovano giustapposte, ma che, non essendo in grado di sperimentare il tempo, si limita a misurarlo, spazializzandolo.

Domanda: E’ questo il cosiddetto “pensiero riflesso”?
Risposta: Si può dire anche così, ben sapendo, però, che possono essere “riflessi” i pensieri, ossia i concetti o le idee (in forma di “pensati” o di “rappresentazioni”), ma non il pensare. Questo è infatti una forza che, sul piano fisico, non tanto si “riflette” quanto piuttosto si muove, come abbiamo detto, non più in modo continuo, bensì in modo discontinuo.

Tenendo presente questo, cominciamo a leggere la lettera, intitolata: Il compito di Michele nella sfera di Arimane (19 ottobre 1924).

(…) Nell’ultima lettera ho accennato, da un punto di vista, a questa svolta importante [quella determinata, circa cinque secoli fa, dall’avvento dell’anima cosciente]. Si possono osservare i tempi primordiali dell’evoluzione, e si vede come sia venuta trasformandosi nell’uomo la forza dell’anima che presentemente è attiva come forza dell’intelligenza” (p. 75).

Ho ricordato, una sera, il libro di Erich Neumann: Storia delle origini della coscienza (lettera 7/9/1924).
Tale storia (quella della Sophia) non è, come crede Neumann (seguendo Jung), psicologica, né astrattamente “mitica” o “simbolico-archetipica”, bensì, come mostra Steiner, una reale vicenda spirituale (dice Pietro: “Noi non abbiamo seguito astute favole (miti) ma vi abbiamo comunicato la forza e la presenza-avvento di Nostro Signore Gesù Cristo”) (2).
Potremmo paragonarla, volendo, a una lentissima manovra di atterraggio: l’umanità scende pian piano di quota e tocca infine terra (tenendo tuttavia presente, come osserva Steiner, che “lo spegnersi della chiaroveggenza e l’affermarsi della coscienza limitata al piano fisico si compie in epoche diverse presso i diversi popoli”) (3).
L’importante “svolta” cui fa riferimento Steiner è rappresentata da questo “toccare terra” e dal conseguente trasformarsi della forza delle nostre anime in quella “forza dell’intelligenza” che si è oggi arrivati perfino a “misurare”.

Nel campo della coscienza umana appaiono ora pensieri morti, astratti. Questi pensieri sono vincolati al corpo fisico dell’uomo; l’uomo deve riconoscerli come generati da lui stesso” (p. 75).

L’uomo deve riconoscere “come generati da lui stesso” i “pensieri morti, astratti”, allo stesso modo in cui uno specchio, ove ne fosse capace, dovrebbe riconoscere “come generate da lui stesso” le immagini che riflette.
Possiamo dire che tali immagini sono “morte” o “astratte”, ma anche che sono un “non-essere”.
Lo specchio, infatti, è un essere “morto” (un oggetto), chi si specchia è un essere “vivo” (un soggetto), mentre ciò che viene prodotto dal loro incontro è solo un’immagine: ossia appunto un “non-essere”, un’ombra o, come direbbe Hegel, una “parvenza” (fumus).
Ascoltate, al riguardo, queste parole di László Földényi: “Nessuno guarda dallo specchio per restituire lo sguardo. Proviamo pure a guardarci negli occhi: il nostro sguardo s’immerge in pupille estranee, che fissano inanimate il nulla. Non guardano né fuori né verso l’interno. E’ uno sguardo morto, rigido e se lo osserviamo a lungo ci sembra anche spettrale (…) Cerchiamo la presenza della vita in qualcosa di inanimato. In questo modo però la vita stessa diventa inanimata. Senza vita, rigida, spettrale” (4).
Dall’essere del pensiero, l’uomo genera dunque il suo non-essere (dice Paolo: “Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in Dio” – 1Cor 13,12).

(…) Passando al corpo fisico, i pensieri perdono la loro vitalità. Diventano morti; sono formazioni spiritualmente morte. Prima, pur appartenendo agli uomini, erano ancor sempre, al tempo stesso, organi delle entità divino-spirituali a cui l’uomo appartiene. Esse, n e l l a s o s t a n z a, volevano nell’uomo. E perciò l’uomo si sentiva, per mezzo loro, vitalmente collegato col mondo spirituale” (p. 76).

Pensate, senza andare troppo lontano, all’Iliade: chi è Omero se non un uomo che porge l’orecchio al canto della “Diva”? E chi sono Ettore e Achille se non uomini mediante i quali s’incontrano o scontrano gli Dèi?
Siamo all’incirca nel IX sec. a.C.: ben prima, quindi, che maturi, con Aristotele (384-322 a.C.), l’anima razionale-affettiva e, con questa, quella logica “analitica” (statica) che ha imperato per più di duemila anni, fino a quando non è apparsa, cioè, la logica “speculativa” o “dialettica” (dinamica) di Hegel (1770-1831).
(“Si sarebbe portati a dire che, con la Logica di Hegel, il più peculiare anelito dell’umanità venga alla luce nella sua massima elevatezza” [5].)
Siamo dunque in un periodo in cui i pensieri, come dice Steiner, “pur appartenendo agli uomini, erano ancor sempre, al tempo stesso, organi delle entità divino-spirituali”, e non ancora, quindi, quelle “formazioni spiritualmente morte” che s’imporranno a partire, secondo quanto abbiamo detto e ripetuto, dal quindicesimo secolo in avanti.
(In Nascita e sviluppo storico della scienza, che vi ho già consigliato di consultare, Steiner colloca la nascita della scienza tra il 1440, anno in cui vede la luce il De docta ignorantia di Nicola Cusano, e il 1543, anno in cui vede la luce il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico [6].)
Dice Steiner: “Passando al corpo fisico i pensieri perdono la loro vitalità. Diventano morti; sono formazioni spiritualmente morte”.
Vedete, pur di “vivere delle esperienze”, cosa di cui si ha oggigiorno gran voglia, si è pronti a fare anche cose a dir poco curiose, bizzarre o strane.
Mai che venga in mente, però, di “vivere delle esperienze” col pensiero, nel pensiero o attraverso il pensiero.
Eppure, ricordate quanto dice Steiner ne La filosofia della libertà? Ve lo rileggo: “Si troverà strano che qualcuno voglia cogliere in “meri pensieri” l’essere della realtà. Ma chi consegue veramente la vita nel pensare, arriva a vedere come, entro l’ambito di quella vita, alla ricchezza interiore e all’esperienza riposante su di sé e nello stesso tempo moventesi in se stessa non possa essere neppure paragonato, e tanto meno anteposto, il vibrare in puri sentimenti o il guardare l’elemento della volontà (…) Nessun altra attività animica dell’uomo è così facile a misconoscersi quanto il pensare. Il volere, il sentire, continuano a riscaldare l’anima anche in seguito, nel rivivere lo stato d’animo originale. Troppo facilmente, invece il pensare, nella rievocazione, lascia freddi: esso sembra inaridire la vita dell’anima. Ma questo è proprio soltanto l’ombra fortemente attiva della sua realtà intessuta di luce e immergentesi con calore nelle manifestazioni del mondo. Questo immergersi avviene con una forza fluente entro la stessa attività pensante, la quale è forza d’amore di natura spirituale (…) Chi, cioè, si rivolge al pensare essenziale, trova in esso tanto il sentimento, quanto la volontà, e questi ultimi anche nel profondo della loro realtà; chi si distoglie dal pensare e si volge al “puro” sentire e volere, perde invece in questi la vera realtà” (poiché trova – aggiungiamolo – sempre e soltanto se stesso) (7).
Decisivo è dunque accorgersi della natura morta del pensiero ordinario. So che non è facile, che non succede subito, che ci vogliono anzi anni di fedele e tenace impegno, ma so pure che viene prima o poi il momento in cui questo ci diviene tanto chiaro quanto ci è chiara, ad esempio, la natura salata o dolce di ciò che gustiamo.
Questa esperienza è però tutt’altro che piacevole, poiché ci rende dolorosamente consapevoli dell’ordinario e quotidiano vaniloquio: non solo di quello praticato, come si usa dire, nei “bar”, ma anche, se non soprattutto, di quello praticato dai “maestri” o dagli “esperti” nei cosiddetti “luoghi di cultura”, più o meno paludati. Ci rende cioè consapevoli del fatto che girano un’infinità di parole spacciate per pensieri (8) (dice Mefistofele: “… proprio dove il concetto manca ecco la parola giungere a proposito a prenderne il posto. Eccellenti le discussioni a base di parole, ottimi i sistemi fondati sulle parole; …) (9); non solo, ma ci rende pure consapevoli di come, da un lato, la realtà vada avanti in forza delle sue leggi o della sua logica, mentre, dall’altro, una “legione” d’intellettuali ne discetti (più o meno amabilmente), pur non conoscendone in realtà che un quarto: vale a dire, la sola parte inorganica.
E’ stato da poco pubblicato un libro intitolato: Per un’ecologia cristiana, scritto a quattro mani da Hélène e Jean Bastaire (10).
Vi si afferma, a più riprese, che “Dio è tutto in tutti”. D’accordo, ma se “Dio è tutto in tutti”, e anche perciò nelle “cose”, come mai la scienza non ve lo trova? Perché Dio – si potrebbe rispondere – non è nella scienza o perché la scienza non è in Dio.
Ma c’è di più: la scienza non trova Dio nelle “cose”, perché nella sfera quantitativa che indaga c’è solo la spoglia o il cadavere di Dio.
La scienza ha quindi ragione nel non trovare nelle “cose” il Dio vivente di cui parla la religione (“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” – Lc 29,38), ma ha insieme il torto, vuoi di non riconoscervi il Dio morto o, nelle parole di Galilei, le “impronte del Creatore”, vuoi di non riconoscere (cosa ancora più grave) il Dio vivente in se stessa: nel profondo, cioè, della propria attività conoscitiva (La scienza non ha bisogno di Dio: questo il titolo di un recentissimo lavoro di Edoardo Boncinelli) (11).
Non si tratta dunque di stabilire se Dio è o non è “tutto in tutti”, ma di distinguere in quale modo, forma o veste si presenti ai diversi livelli in cui si articola la realtà (o si articola il “tutto”).
Dice appunto Goethe: “”Credo in un Dio!” Questa è una bella, encomiabile frase; ma riconoscere Dio là dove si manifesti, e sotto qualunque aspetto, è in realtà la beatitudine in Terra” (12).
Grazie alla scienza dello spirito, sappiamo infatti che Dio si presenta come morte sul piano fisico, come vita sul piano eterico, come anima sul piano astrale, e come “Io sono” (“Colui che è”) sul piano spirituale.
Che cosa ci ricorda questo? Ancora una volta il Prologo del Vangelo di Giovanni: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, neppure una delle cose create è stata fatta [fisico]. In lui era la vita [eterico], e la vita era la luce degli uomini [astrale]. E la luce risplende fra le tenebre; ma le tenebre [l’ego] non l’hanno ricevuta” – Gv 1,3-5).

Con i pensieri morti egli si sente separato dal mondo spirituale. Si sente completamente trasferito nel mondo fisico.
Ma con ciò egli è posto nella sfera della spiritualità arimanica. Questa non esercita un grande potere nelle regioni in cui le entità delle gerarchie superiori tengono l’uomo nella loro sfera, in modo sia da agire esse medesime nell’uomo, come nelle epoche primordiali, sia da agirvi, come più tardi, mediante il loro riflesso compenetrato di anima o di vita. Finché dura questa azione delle entità sovrasensibili entro l’agire umano, vale a dire fino circa al secolo quindicesimo, le forze arimaniche hanno soltanto un potere che debolmente risuona in seno all’evoluzione umana
” (p. 76).

Quando il corpo eterico arriva a coincidere (nel polo cefalico) con il corpo fisico, l’uomo “si sente completamente trasferito nel mondo fisico”, e per ciò stesso “posto nella sfera della spiritualità arimanica” o della morte.
Abbiamo visto, a questo proposito, che Arimane, finché sta al suo posto, non può essere considerato un ostacolatore.
Mettiamoci però (si fa per dire) nei suoi panni: mentre sta nella sua sfera a fare ciò che deve, vede arrivare l’uomo, cioè un essere che, incurante degli ammonimenti di Lucifero (extra ecclesiam nulla salus), con un quarto di sé (col corpo fisico) si è introdotto nel suo regno, e che con gli altri tre quarti (col corpo eterico, col corpo astrale e con l’Io) ne è rimasto invece fuori.
Quale migliore occasione, dunque, per tentare d’impadronirsi di questo temerario intruso, inculcandogli a viva forza l’idea ch’è fatto solo di materia (di ciò che guarda caso governa), e che tutto il resto non è che morbosa fantasia o prava superstitio?

(…) Così l’uomo si trova alla fine di una corrente di evoluzione nella quale la sua entità si è sviluppata da una spiritualità divina che, quanto a sé, va da ultimo a morire nell’astratta intelligenza dell’uomo.
L’uomo non è rimasto in quelle sfere, in quella spiritualità divina, da cui trae la sua origine.
Ciò che iniziò cinque secoli fa per la coscienza dell’uomo era già avvenuto, rispetto ad una sfera più vasta della sua entità complessiva, nell’epoca in cui il mistero del Golgota giunse a manifestazione terrena. Fu allora che, in modo non avvertibile per la coscienza allora esistente nella maggior parte degli uomini, l’evoluzione dell’umanità venne scivolando a poco a poco, da un mondo in cui Arimane ha poco potere, in un mondo in cui il suo potere è grande. Questo scivolare in un altro strato del mondo raggiunge il suo compimento appunto nel secolo quindicesimo
” (pp. 76-77).

Quando l’uomo, spinto dalla seduzione di Lucifero, ha preso a scivolare verso il regno di Arimane (avendo peccato contro il Padre o contro il “volere divino”, e non potendo più restare perciò in Dio), il mondo spirituale gli ha concesso la grazia di poter disporre di un possente “antidoto” (“Io ho vinto il mondo”): un antidoto (il Dio ch’è nell’uomo), come spiega Steiner nella sue conferenze su Il Vangelo di Giovanni (13), che agisce sul piano eterico-fisico, ma che, per poter agire anche su quello animico-spirituale, attende che l’uomo stesso trovi il coraggio di “assumerlo”, e di tradurre così la sua potenza in atto (“Chiedete e vi sarà dato”, “Bussate e vi sarà aperto”).
La nostra evoluzione, dunque, o sarà un’evoluzione libera, vale a dire cosciente e volontaria, o non sarà un’evoluzione.
Sapete che cosa disse, se non ricordo male, Nietzsche? Che si sarebbe ricreduto il giorno in cui avesse visto negli occhi dei cristiani la gioia di essere dei redenti.
“Il cristianesimo – afferma infatti Berdjaev – non è solo fede in Dio ma anche fede nell’uomo, nella possibilità di portare alla luce il divino nell’uomo” (14).
Ciò serve a capire, ove ce ne fosse ancora bisogno, che il cristianesimo (il Cristo in noi) non va predicato, bensì realizzato e testimoniato.

L’influsso che Arimane esercita sull’uomo in questo strato del mondo è possibile, e può esercitare la sua azione deleteria, per il fatto che l’azione divina, congenere all’uomo, qui è morta. Ma l’uomo non sarebbe potuto giungere allo sviluppo della sua libera volontà in nessun altro modo che trasferendosi in una sfera in cui non fossero viventi gli esseri divino-spirituali a lui collegati fin dal primo principio” (p. 77).

Lucifero e Arimane, in quanto entità spirituali (attive, rispettivamente, nel mondo sub-astrale e nel sub-Devachan inferiore) (15), sono più potenti dell’uomo (recita il Pater Noster formulato da Steiner: “Non lasciare che il tentatore agisca su di noi oltre la misura delle nostre forze”).
Possiamo però tenerli a bada, vincerli e perfino redimerli, se riusciamo a mettere in campo l’Io: quell’Io (spirituale) ch’è appunto inabitato dalla forza salvifica e redentrice del Logos.
Che cosa ci succede altrimenti? Quello che ci succede purtroppo tutti i giorni: di finire nelle loro mani, e di trasformarci così in burattini.
Dice Goethe che “la quantità e la qualità devono essere considerate come i due poli del mondo apparente” (16).
Ebbene, Arimane, in quanto demone della morte, è anche il demone della quantità. E che cos’è la quantità? Una qualità priva di qualità, e quindi una qualità che si nasconde dietro la quantità (dietro il “quanto”).
Il suo regno dell’inganno o della menzogna è dunque un contro-regno qualitativo (quello, come ho detto, del sub-Devachan inferiore) mascherato da (neutro) regno quantitativo.
Il che risulta evidente quando ci si sforza – come fa oggi la scienza – di ridurre il qualitativo al quantitativo, o quando quest’ultimo, come nel caso ad esempio di Fermi (lettera 31/8/1924), ma non solo ovviamente nel suo, diventa quasi un’ossessione.
Sentite che cosa disse un giorno Goethe a Eckermann: “Io onoro la matematica, come la sublime e la utilissima delle scienze; purché però la si impieghi a proposito: e non sopporto che si voglia abusarla in campi, che non le appartengono, e dove quella nobile scienza apparisce come un assurdo. Come se non esistesse altro che quello che si può dimostrare matematicamente! E’ come se uno potesse esser tanto pazzo da non credere all’amore della sua bella, soltanto perché essa non è in grado di dimostrarglielo matematicamente! Matematicamente potrà dimostrargli la sua dote, non il suo amore” (17).
Vedete, può capitare di sognare che i topi ci invadano la casa, che si cominci con un bastone ad ammazzarli, ma che da ogni topo morto ne vengano fuori orribilmente altri due, vivi e vegeti.
Che cosa fare nel caso di un incubo del genere? E’ semplice: procurarsi al più presto (s’intende nel sogno) un gatto.
Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire che l’ego non può misurarsi con Lucifero e Arimane, ma può chiamare l’Io (in cui è il Logos) a farlo. Com’è vero, infatti, che quando il gatto non c’è i topi ballano, così è vero che quando il gatto c’è i topi scappano (diceva Scaligero: “Il Cristo vince senza combattere”).
“La pietà non ha limiti”, afferma Steiner: anche Lucifero e Arimane devono farci perciò compassione.
Bisogna stare attenti, però, a che questo non divenga un alibi per non affrontarli o una foglia di fico per nasconderci la verità.
La vera pietas o la vera compassione non s’improvvisa (come potrebbe illudersi di fare l’ego), ma la si conquista nella medesima misura in cui si conquistano la vera anima e il vero Io.
Ricordiamoci che Lucifero e Arimane servono l’evoluzione dell’umanità, ma solo a patto che l’uomo li contenga: che non li lasci cioè esorbitare dalla sfera delle loro diverse e rispettive competenze.
Solo chi riesca, in virtù dell’Io e del Cristo che lo inabita, a redimersi, può dunque redimere anche gli ostacolatori.

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Di Lucio Russo
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