Dall’essere allo spirito (2)

D

La scienza dello spirito distingue nel corpo tre livelli: quello fisico (minerale); quello eterico (vegetale); quello senziente (animale). Una cosa, quindi, è il corpo senziente (cui si devono le percezioni), altra l’anima senziente (cui si devono le sensazioni), altra ancora l’anima razionale-affettiva (cui si devono i concetti) e altra infine l’anima cosciente (cui si deve l’autocoscienza).
In tre conferenze dell’ottobre del 1909, Steiner ha fornito un’ampia caratterizzazione degli ultimi tre livelli.
Nella prima, dedicata all’educazione dell’anima senziente, così spiega la differenza tra questa e il corpo senziente: “Quando cominciamo a sperimentare interiormente siamo già al limite dell’anima senziente rispetto al corpo senziente o astrale che, ad esempio, trasmettendoci la percezione, fa sì che avvertiamo il colore della rosa. Dunque nell’anima senziente giacciono le rappresentazioni, ma giacciono altresì tutte le nostre simpatie e antipatie, i nostri sentimenti, le sensazioni che sperimentiamo di fronte alle cose” (10).
La percezione viene dunque mediata dal corpo senziente, mentre la sensazione e la rappresentazione vengono mediate dall’anima senziente (“Nell’anima senziente è contenuto infatti tutto ciò che si sperimenta interiormente, tutto ciò che di gioie e di dolori, istinti, passioni, disposizioni e affetti, si desta nell’anima, grazie allo stimolo immediato del mondo della percezione”) (11).
(Con il termine “percezione” ci riferiamo a un fenomeno, il processo percettivo, nel quale vanno distinte tre diverse realtà: quella iniziale dell’atto percettivo, ch’è un atto dell’Io; quella dei percetti [dei contenuti della percezione] che attraverso il corpo giungono all’Io; quella finale dell’immagine percettiva, che nasce nell’anima, ma rientra poi nel corpo per acquisire tridimensionalità. Dice Steiner: “La percezione [l’immagine percettiva] è una rappresentazione trasportata nel mondo esterno” [12]. “Rappresentazione” sta qui per immagine precosciente (“oniroide”); la “rappresentazione” cosciente è infatti un’immagine mnemonica, a breve termine [13].)
A tutt’oggi, la differenza tra la percezione e la sensazione non è chiara e s’ignora del tutto l’atto percettivo (poiché s’ignora l’Io). Stando a Cartesio, ad esempio, la sensazione sarebbe un’“affezione”; stando a Rosmini, una “passione”. Afferma invece Steiner: “Che cosa apprendo io investigando un oggetto tratto da un processo che nella mia coscienza si presenta quale sensazione? Nulla più che il modo in cui quell’oggetto risponde all’azione che parte dalla sensazione; in altre parole: il modo in cui una sensazione si estrinseca in un qualsiasi oggetto del mondo spaziale-temporale. Lungi dall’essere la causa che suscita in me la sensazione, quel processo spaziale-temporale è l’effetto della sensazione in un oggetto esteso nello spazio e nel tempo […] Il quid che ci viene trasmesso […] è la percezione […] Ma il come quella percezione si presenti in un determinato oggetto giacente sulla via che va dallo stimolo fino alla percezione, dipende unicamente dalla natura di quell’oggetto” (14).
S’immagini di tirare in aria un sasso che dopo aver rotto un vetro finisca nell’acqua. Attraversando questi tre elementi, produrrà degli effetti che dipenderanno, nella loro forma, dalla natura dell’aria, del vetro e dell’acqua. “Causa” della forma (del “come”) di tali effetti (di tali fenomeni) non sarà dunque la natura del sasso, ma quella dei mezzi (“degli oggetti che giacciono sulla via”) che attraversa.
Ma qual è, nel nostro caso, il sasso? Qual è, cioè, il contenuto (il “quid”) che viene trasmesso? Che cos’è (o chi è), insomma, a trasformarsi da iniziale e indeterminato percetto in una sensazione e in una determinata immagine percettiva? E’ l’essenza spirituale dell’oggetto implicita nel percetto ed esplicita nel concetto, è quella entelechia (noumeno) che il percepire sperimenta solo come forza (essere), e che il pensare (ordinario) apprende solo come forma (non-essere). Nell’entelechia, invece, l’essere è l’essere della forma e la forma è la forma dell’essere.
Solo l’atto sintetico dell’Io (unione dell’atto del percepire con quello del pensare) può farsi dunque garante di un vero conoscere (“La conoscenza – dice Berdjaev – è per essenza coniugale”) (15).
Senza la presenza e la “quiete operosa” dell’Io, le cose esisterebbero, ma a nessuno potrebbero fare, come si usa dire, “impressione”: non si darebbero le loro percezioni, le loro sensazioni, i loro concetti e le loro immagini percettive. La loro essenza spirituale rimarrebbe “incantata” nella sfera sensibile senza speranza di poter essere risvegliata e restituita allo spirito.
(Scrive Hegel: “Il movimento del sistema solare ha luogo secondo leggi immutabili: queste leggi sono la sua ragione. Ma né il sole né i pianeti, che gli girano attorno secondo queste leggi, ne hanno coscienza” [16].)
Nell’immagine dell’Uroboros (del serpente che si mangia la coda) è racchiusa questa profonda verità: l’Io esce da se stesso, mediante l’anima e il corpo, solo per ritrovare se stesso nel mondo e il mondo in se stesso. Si può infatti ri-trovare solo ciò da cui ci si è in precedenza allontanati e separati.
(Scrive ancora Hegel: “Tutto ciò che avviene, che avviene eternamente in cielo e sulla terra, la vita di Dio e tutto ciò che si compie nel tempo, tende soltanto allo scopo che lo spirito conosca se stesso, che faccia di sé il proprio oggetto, che diventi per se stesso, che si concilii con sé. Egli è sdoppiamento, alienazione, ma solo al fine di poter trovar se stesso e di poter ritornare a sé” [17].)
Nello spazio, gli oggetti si presentano giustapposti, gli uni accanto agli altri, gli uni fuori degli altri. Anche il soggetto, a questo livello, non è che uno dei tanti uno (ego); nel profondo, è l’Uno (l’Io inabitato dal Cristo), ma non lo sa. L’autocoscienza spaziale (corporea) gli consente solo di sapersi un singolo (l’“Unico” di Stirner), diverso dagli altri e da tutto il resto del mondo.
Afferma Steiner: “L’unica realtà della percezione sta nel trattenere in una determinata forma [in un determinato pensiero] il pensiero [il pensare] sempre fluente, senza che noi dobbiamo intervenire attivamente per fissarlo […] Sebbene questo oggetto sia per me l’occasione di estrarre in un dato momento appunto quel determinato pensiero [concetto] dall’unità di tutti i pensieri possibili, non di meno esso non mi fornisce per nulla gli elementi costruttivi del medesimo. Questi [i pensieri, i concetti] devo estrarli da me stesso” (18).
Come il concetto universalizza (spiritualizza) la singolarità del percetto che esiste, così il percetto singolarizza (naturalizza) l’universalità del concetto che è.
Allorché il soggetto si sperimenta separato dal mondo, sorge l’opposizione tra il soggetto e l’oggetto e, di conseguenza, l’impulso a superarla.
Scrive Spaventa: “Io so l’oggetto (coscienza), e so me stesso (autocoscienza). Nella semplice coscienza io sapevo solo l’oggetto (non sapevo me stesso come coscienza, come Io). Nella semplice autocoscienza io sapevo me e sapevo l’oggetto. Ma questo duplice sapere non era lo stesso sapere. Ora, in questa ultima forma è lo stesso sapere. Questa medesimezza è la essenza della mente (la mentalità). Come mente, come questa medesimezza appunto, io sono certo che le mie determinazioni (le determinazioni del sapere che io ora sono, o soggettive) sono insieme determinazioni dell’oggetto: ciò che io so e penso (il mio pensiero) è insieme l’essenza dell’oggetto (delle cose). Quindi certezza di me stesso (soggettività) e insieme essere (oggettività) in uno e medesimo pensiero” (19).
Abbiamo detto, in precedenza, che senza la presenza e la “quiete operosa” dell’Io, le cose esisterebbero, ma a nessuno potrebbero fare “impressione”. E’ così, o è vero invece, come sostiene Gentile, che “il reale è una creazione del pensiero”? Scrive infatti: “Noi nell’esperienza ci troviamo bensì alla presenza dell’immediato, del fatto, del dato: ma ci troviamo alla sua presenza soltanto in virtù dell’esperienza. Per guisa che, soppressa l’esperienza, viene pure soppresso il dato. E lo stesso dato è dunque un prodotto, e dato allo spirito dallo spirito stesso” (20).
Com’è vero, tuttavia, che ci troviamo alla presenza del dato “soltanto in virtù dell’esperienza”, così è vero che possiamo fare esperienza del dato soltanto in virtù della sua presenza. (“Le cose esistono anche senza di me; hanno la loro esistenza in sé stesse”) (21).
Si può superare questa difficoltà, evitando così di cadere in un illusionismo analogo a quello dell’idealismo soggettivo di Berkeley, solo considerando il dato “conosciuto” un dato trasformato, trasfigurato, transustanziato: un dato insomma non “creato”, bensì “ri-creato” (redento o risorto).
Si disvela, in questo modo, un’altra profonda verità: mediante il conoscere umano, l’essere diviene spirito (essere autocosciente) (22).
Scrive Berdjaev: “La conoscenza che dipende dalla libera attività dell’uomo non è un puro riflesso, ma una trasfigurazione creatrice […] La conoscenza è relazione di essere con essere, atto creatore in seno all’essere […] E’ la conoscenza dell’essere per mezzo dell’essere […] E’ comunione con il Logos” (23).
(“L’umanità, evolvendosi, penetrerà in un’evoluzione universale. Il divino-spirituale da cui l’uomo proviene, come entità umana cosmicamente espandentesi, può pervadere di luce il cosmo che oramai esiste solo nell’immagine del divino-spirituale. Non sarà più la stessa entità che fu una volta come cosmo, quella che sorgerà così per opera dell’umanità. Attraversando il gradino dell’umanità, il divino-spirituale sperimenterà una esistenza che prima non manifestava” [24].)
La libera attività del conoscere è dunque un processo di trasformazione del mondo attraverso l’uomo e dell’uomo attraverso il mondo: è l’Opus magnum alchemico che trasmuta il piombo (la necessità) della natura nell’oro (nella libertà) dello spirito.
(La storia universale, scrive Hegel, “è la raffigurazione del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò ch’esso è in sé” [25].)
L’Io assume il dato percettivo allo stesso modo in cui assume, sul piano fisico, il cibo. Subito dopo averlo assunto prende infatti a elaborarlo (digerirlo) per annullarne l’estraneità, renderlo simile a sé (assimilarlo), e poterlo così “umanare”.
Dice Steiner: “Senza una comprensione del mondo eterico non è possibile alcuna comprensione delle impressioni sensorie […] L’intera vita dei sensi è un vivere e un tessere nella invisibile sfera eterica […] Nel penetrare nei nostri organi di senso l’etere esterno viene annientato e penetrando annientato negli organi di senso può essere rivivificato dall’etere interiore del corpo che gli si contrappone. In ciò risiede l’essenza della impressione sensoria” (26).
L’annientamento (catabolico) dell’unità originaria (dell’entelechia) viene effettuato dai processi neuro-sensoriali.
(L’entelechia si smembra già per il fatto di essere recepita simultaneamente da più organi di senso: questi, in quanto specializzati, possono infatti percepire e trasmettere solo singole qualità di un insieme.)
Ciò trova conferma nei risultati della moderna ricerca neurofisiologica. Scrive John Eccles: “Una componente fondamentale dell’ipotesi è che l’unità dell’esperienza cosciente venga fornita dalla mente autocosciente, non dai meccanismi nervosi nelle aree di connessione dell’emisfero cerebrale. Finora è stato impossibile sviluppare qualsiasi teoria neurofisiologica che spieghi il modo in cui si possa raggiungere la sintesi di una diversità di eventi cerebrali, affinché vi sia un’esperienza cosciente unificata di carattere globale o di Gestalt. Gli eventi cerebrali rimangono disparati […] Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento” (27); e conclude: “Bisogna riconoscere che le esperienze perfette di immagini visive hanno sede nella mente, che sembra in grado di compiere una sintesi a partire dalla analisi della corteccia visiva” (28).
La conclusione nella mente del processo visivo è, per Eccles, una sintesi “a-posteriori”: l’opposto, quindi, della sintesi “a-priori” di Berkeley (e di tutti gli idealisti che, in un modo o nell’altro, a lui si rifanno).
Per superare quest’altra difficoltà, occorre realizzare che la sintesi “a-priori” non è, in realtà, che il dato immediato assunto dall’Io (il percetto). E’ questo, infatti, a essere analizzato mediante il corpo fisico, ri-vivificato mediante il corpo eterico e ri-sintetizzato dall’Io.
Si ha dunque, schematizzando, la seguente dinamica: a) sintesi a-priori (percetto immediato); b) analisi (mediazione); c) sintesi a-posteriori (concetto mediato-immediato).
Eccles ben dimostra l’inconsistenza dei tentativi materialistici di ridurre il problema della mente a quello del cervello, ma non riesce ad andare al di là di una visione che definisce “dualistico-interazionista”. A suo dire, sarebbe l’“interazione” tra i “dendroni” e gli “psiconi” a colmare il vuoto che divide il cervello dalla mente. Scrive: “L’ipotesi secondo la quale il dendrone rappresenta l’unità nervosa della neocorteccia porta al tentativo di scoprire le unità mentali complementari che interagiscono con il dendrone, ad esempio, nell’intenzione e nell’attenzione […] Ciascuna di queste unità mentali è reciprocamente legata in modo unitario a un dendrone […] Appropriatamente abbiamo definito “psiconi” queste ipotizzate unità mentali”. Questi “non costituiscono vie percettive alle esperienze. Essi sono le esperienze in tutta la loro diversità e unicità. Ci potrebbero essere milioni di psiconi, ciascuno connesso in modo esclusivo con i milioni di dendroni. Quello che si ipotizza è che nella natura degli psiconi vi sia la capacità di connettersi insieme per offrire un’esperienza unificata”. Nell’autocoscienza – conclude – “si può ipotizzare che gli psiconi possano esistere indipendentemente dai dendroni in un mondo esclusivo di psiconi, che costituisce il mondo dell’io […] La trasmissione da psicone a psicone potrebbe spiegare l’unità della nostra percezione e del mondo intero della nostra mente” (29).
Eccles non riesce dunque a vedere negli psiconi ciò che Spaventa non riesce a vedere nelle sensazioni. Benché si sia passati dalla sfera filosofica alla sfera scientifica il vizio critico rimane inalterato.
Gli psiconi, dice, sarebbero delle “unità mentali” in grado di “trasmettere” tra loro, di “connettersi insieme” e di esistere, “indipendentemente” dai dendroni, in un loro “mondo esclusivo”, ch’è il “mondo dell’io”.
Ma queste capacità non sono forse peculiari dei concetti e delle idee? Come dunque non riconoscere, in questo immaginario “mondo di psiconi”, quel “mondo delle idee” o delle “forme” (il goethiano “regno delle “Madri”) nel quale l’Io (inabitato dal Logos) riversa il proprio “calore d’amore”?
(Le idee – afferma Steiner – sono “recipienti d’amore”.)
Nella vita ordinaria, la difficoltà di riconoscere la realtà spirituale dei concetti e delle idee deriva dal fatto che l’entelechia si dà, grazie alla percezione, come un’esperienza concreta e, a causa del pensiero, come una nozione astratta.
Questo stato di cose è però segno di un compito. Ove il pensiero astratto riuscisse, mediante lo studio e l’esercizio interiore, a rinvigorirsi fino al punto di ritrovare, all’interno di sé, la medesima forza (volitiva) di cui gode naturalmente la percezione, l’esperienza del pensare e dei pensieri sarebbe altrettanto reale, se non perfino più reale, di quella ordinaria dei percetti.
Già Rosmini si era reso conto che noi, di norma, pensiamo l’idea dell’essere che sperimentiamo, ma non sperimentiamo l’idea dell’essere che pensiamo. Scrive: “Se quest’essere, spiegando se stesso più manifestamente davanti alla nostra mente, dall’interno di sé emettesse la propria attività, e così si terminasse e si compiesse, noi vedremmo Dio […] Nella cognizione soprannaturale quelle idee non restano svestite e fredde; ma esce da esse un sentimento (percezione) che le avviva, e mette in esse qualcosa del positivo: il che è ciò che nelle divine Scritture si chiama intendere col cuore” (30).
(“La vuotezza delle forme logiche – osserva dal canto suo Hegel – sta unicamente nella maniera di considerarle e di trattarle” [31].)
Un’ultima riflessione.
Afferma Steiner: “L’anima deve fare con il cervello ciò che un uomo farebbe con lo specchio. Alla vera attività pensante, alla “percezione” del pensiero, precede un “lavoro del pensiero” tale da smuovere – se per esempio volete percepire il pensiero “leone” – nel profondo del cervello le parti di quest’ultimo in modo che queste divengano specchi per la percezione del pensiero “leone” […] Se volete risalire all’attività che sta alla base del pensiero, essa è l’attività che dall’anima fa presa sul cervello […] Occorre che vi sia prima un elemento spirituale-animico; questo deve lavorare sul cervello” (32).
Come si vede, è il “pensare” (la “vera attività pensante”) a rendere il cervello uno specchio atto a riflettere i “pensieri” e a mutarli in “pensati” (in rappresentazioni).
Quest’attività viene oggi rilevata, seppure indirettamente, dalla neurofisiologia. Grazie alla misurazione delle variazioni del flusso sanguigno cerebrale regionale, si è infatti avuta, come testimonia ancora Eccles, “la dimostrazione della straordinaria efficacia del pensiero sulla corteccia cerebrale” (33).
In un esperimento, ad esempio, “quando un soggetto prestava attenzione a un dito sul quale stava per essere applicato uno stimolo tattile appena percettibile, si osservava un aumento del flusso sanguigno cerebrale regionale nell’area del tatto corrispondente al dito, nella circonvoluzione post-centrale della corteccia cerebrale, come pure nella regione prefrontale. Tale aumento doveva essere dovuto all’attenzione mentale perché durante la registrazione non veniva applicato alcuno stimolo” (34).
Si tratta di un dato estremamente significativo, giacché il sangue, dal punto di vista scientifico-spirituale, è il veicolo fisico dell’Io.
(L’attenzione e l’intenzione sono invece segni della presenza dell’Io, rispettivamente, nel pensare e nel volere.)
Allorché Eccles afferma che gli psiconi sono “le esperienze in tutta la loro diversità e unicità”, e che noi non sperimentiamo e percepiamo perciò che psiconi, non fa dunque che affermare, senza rendersene conto, che i concetti e le idee sono “le esperienze in tutta la loro diversità e unicità”, e che noi non sperimentiamo e percepiamo perciò che concetti e idee (entità spirituali).
Il che è proprio quanto sostiene la scienza dello spirito orientata antroposoficamente di Rudolf Steiner (“Ché la realtà consiste dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione fra un essere e un altro”) (35).

Note:

01) R.Steiner: Gli enigmi della filosofia – Tilopa, Roma 1987;
02) G.Gentile: Introduzione alla filosofia – Sansoni, Firenze 1981, pp. 79-81-82;
03) ibid., p. 83;
04) N.Berdjaev: Cinque meditazioni sull’esistenza – Elledici, Torino 1982, p. 63;
05) R.Steiner: Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia – Antroposofica, Milano 1991, p. 98;
06) N.Berdjaev: op. cit., p. 63;
07) R.Steiner: I confini della conoscenza della natura – Antroposofica, Milano 1979, p. 106;
08) R.Steiner: Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia – Religio, Roma 1939, p. 84;
09) G.Gentile: Bertrando Spaventa in B.Spaventa: Opere – Sansoni, Firenze 1972, vol. I, pp. 137-138;
10) R.Steiner: Metamorfosi della vita dell’anima – Tilopa, Roma 1984, p. 13;
11) ibid., p. 16;
12) R.Steiner: Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia – Religio, p. 83;
13) cfr. “La grande imbrogliona” , 27 agosto 2010;
14) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p. 194;
15) N.Berdjaev: op. cit., p. 116;
16) G.W.F.Hegel: Lezioni sulla filosofia della storia – La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 17;
17) G.W.F.Hegel: Introduzione alla storia della filosofia – Laterza, Bari 1967, p. 61;
18) R.Steiner: Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo in Saggi filosofici – Antroposofica, Milano 1974, pp. 60 e 59;
19) B.Spaventa: Opere, vol. III, p.121;
20) G.Gentile: Sistema di logica come teoria del conoscere – Le Lettere, Firenze 1987, vol. II, p. 49;
21) R.Steiner: I mistici – Libritalia, Vibo Valentia 1997, p. 9;
22) cfr. Noterella 22 gennaio 2017;
23) N.Berdjaev: op. cit., pp. 69-70-77-131;
24) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p. 87;
25) G.W.F.Hegel: Lezioni sulla filosofia della storia, p. 46;
26) R.Steiner: Spirito e materia – Antroposofica, Milano 1992, pp. 125-126-125;
27) J.Eccles: Come l’io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994, pp. 49-50;
28) ibid., p. 210;
29) ibid., pp. 166-167-168-211;
30) cit. in G.Roggero: Antonio Rosmini e la fedeltà micheliana del nostro tempo – Natura e Cultura, Alassio (SV) 1988, pp. 94-95; vedi anche il commento alle Massime antroposofiche 124/125/126 – 3°, 20 settembre 2012;
31) G.W.F. Hegel: Scienza della logica – Laterza, Bari 1974, vol. I, p. 29;
32) R.Steiner: Il pensiero cosmico – Basaia, Roma 1985, pp. 82-83;
33) J.Eccles: op. cit., p. 203;
34) ibid., p. 110;
35) R.Steiner: Massime antroposofiche, p. 106.

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Di Lucio Russo
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