Io e coscienza dell’Io

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Su Il Giornale (5 Marzo 2001), Dario Antiseri, in un articolo dedicato alla figura di Friedrich A. von Hayek (1899-1992), premio Nobel per l’economia nel 1974, dice a un certo punto: “Il liberale rifiuta l’idea liberticida, stando alla quale sopra all’individuo ci sarebbe qualche altra entità – come, per esempio, lo Stato, il partito, la classe, ecc. – autonoma e indipendente dagli individui: esistono solo individui”.
D’accordo, ma per quale ragione “sopra all’individuo” non potrebbe esserci l’individuo stesso? Ci spieghiamo. Una cosa è l’individualità che si è (l’Io), altra la coscienza che se ne ha (“se fossi re e non lo sapessi – recita infatti l’adagio – sarebbe come se non lo fossi”). Per l’ordinaria coscienza “rappresentativa”, ad esempio, l’Io è un corpo (uno spazio), per quella “immaginativa” una biografia (un tempo), per quella “ispirativa” una qualità (un’anima) e per quella intuitiva un’essenza (un’entità spirituale). Come si vede l’ordinaria coscienza dell’Io non è all’altezza della realtà dell’Io o, per meglio dire, l’Io, per mezzo della coscienza rappresentativa, non conosce e realizza pienamente sé stesso. Ciò vuol dire dunque che non è tanto l’Io, quale “entità”, a stare al di “sopra” dell’individuo, quanto piuttosto è la coscienza che l’individuo ne ha (l’autocoscienza) a stare al di “sotto” della sua realtà. Come un bambino, d’altro canto, non è ancora un adolescente, e come un adolescente non è ancora un adulto, così un essere umano che abbia coscienza di sé solamente come corpo, o solamente come corpo e anima, non è ancora un “individuo”. L’individualità è infatti una conquista spirituale e non un dono naturale. La natura provvede unicamente alla nascita della coscienza dell’Io: ovvero, all’insediarsi di quella prima autocoscienza che poggia – come si è detto – sul corpo o sullo spazio (e il cui soggetto chiamiamo “ego”). Dal momento, tuttavia, che l’esistere dipende, non da ciò che si è, ma dalla coscienza che si ha di ciò che si è, ecco allora che la coscienza (materialistica) dell’Io quale “corpo” o “spazio” si esprime o manifesta quale predominio dell’avere sull’essere.
Habeo, ergo sum: è questa convinzione (più o meno cosciente) che spiega dunque il pervicace attaccamento dei liberali (e ancor più dei liberisti) alla “proprietà privata”. Siamo quindi con loro allorché difendono la libertà dei comuni individui (degli ego), ma non li seguiamo più quando, “fissando” (in senso psicodinamico) la coscienza dell’Io al primo stadio del suo sviluppo, negano agli stessi la possibilità di evolversi e trasformarsi. Ma in qual modo promuovono questa “fissazione”? E’ presto detto: promuovendo l’agnosticismo e negando quindi al pensiero la possibilità di conquistare, al di là delle opinioni personali, la verità. Antiseri, ad esempio, così comincia il suo articolo: “Sostenitore al pari del suo amico Popper, dell’idea della fallibilità della conoscenza umana, Friedrich A. von Hayek (…) ha voluto precisare che noi, oltre che fallibili siamo anche ignoranti”.
Anche Popper e von Hayek sono dunque “fallibili” e “ignoranti”? Sarebbe bene stabilirlo, poiché delle due, l’una: o lo sono, e allora la loro teoria vale quanto un’altra; o non lo sono, e allora la loro teoria è già smentita. La grandezza di Popper e di von Hayek – si potrebbe però sostenere – sta proprio nel fatto di mostrarsi disposti, al contrario di tanti altri, a riconoscere la propria fallibilità e ignoranza. Ove fosse così, ci sarebbe tuttavia da domandarsi: è per amore della conoscenza che sono pronti a un’ammissione del genere, o sono pronti a un’ammissione del genere pur di salvaguardare quel che davvero amano? E cos’è, nella seconda di queste due eventualità, che amerebbero davvero? Lo abbiamo già detto: l’avere e non l’essere, il fare e non il pensare (“Il naturalismo o materialismo – afferma del resto Gentile – non è in fondo se non la teorizzazione filosofica della pedanteria, del fariseismo, del filisteismo, che si contentano di conoscere la vita spirituale nelle semplici sue forme esteriori, esanimi e vuote, senza impegnare nel mondo la propria responsabilità” – Introduzione alla filosofia – Sansoni, Firenze 1981, p.7).
Insomma, teorie come quella di Popper sul pensiero “fallibile” (o come quella di Vattimo sul pensiero “debole”) possono avere anche un senso fintantoché si tratti di contrastare qualche ego che pretenda di imporre agli altri le proprie “opinioni”, ma non ne hanno più alcuno, risultando anzi limitanti e mutilanti, ove qualche ego voglia invece, crescendo e superando sé stesso, muovere incontro alla verità e all’Io.

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Di Francesco Giorgi
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