Patologia e fisiologia sociale

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La storia, in breve, è questa. Nel 1971, “un microbiologo indiano, Ananda Chakrabarty, insieme alla General Electric che lo finanzia, chiede all’Ufficio Brevetti e marchi degli Stati unito (PTO) il brevetto di un organismo geneticamente modificato” e il “PTO respinge la richiesta sostenendo che, per la legge americana, le cose viventi non sono brevettabili”. Nel 1975, gli stessi presentano ricorso alla Corte d’Appello USA e la corte, a maggioranza (tre a due), dà loro ragione sostenendo che “il fatto che quei microorganismi…siano vivi non ha alcun significato legale”. Nel 1980, “il PTO, affiancato dalla Foundation of economic trends presenta ricorso contro la sentenza sul caso Chakrabarty, e si arriva così alla Corte Suprema degli Stati Uniti”. “Il risultato? Cinque a quattro per Chakrabarty e per la General Electric, cioè per le multinazionali chimiche, per quelle alimentari e per quelle farmaceutiche: il brevetto viene convalidato, aprendo così la strada alla valanga dei brevetti sulla vita, a venire” (Marco Caponera: Transgenico no – Malatempora, Isola del Liri (FR) 2000, pp.83-85-86).
Ma perchè tanto impegno per avere il riconoscimento giuridico di un fatto scientifico? E’ ovvio: per renderne possibile lo sfruttamento economico. Già, ma chi può allora garantire che l’obiettivo dello sfruttamento economico, così come ha animato l’impegno legale, non abbia animato, a suo tempo, anche quello scientifico? E quale affidamento può dare un impegno scientifico animato, non dall’amore per la conoscenza, ma dalla brama del guadagno? E non è forse questo – come si usa dire oggi – un “conflitto d’interessi”?
In effetti, come può darsi un “conflitto d’interessi” tra l’attività politica e quella economica, così può darsene uno tra l’attività culturale (della quale è parte integrante quella scientifica) e le altre due. Quando si rileva e denuncia un “conflitto d’interessi” si solleva dunque una questione che già giustificherebbe, di per sé, la proposta – avanzata da Steiner – di una “triarticolazione dell’organismo sociale”. Solo una riforma del genere potrebbe infatti garantire che l’attività di coloro che operano all’interno della sfera culturale non venga condizionata da interessi politici o economici. Una cosa, ad esempio, è che la vita economica si giovi indirettamente dei risultati di una autonoma ricerca scientifica, altra è che la seconda sia direttamente promossa e finanziata dalla prima. Con la nascita (dopo il 1945) della cosiddetta Big science – osserva infatti Federico Di Trocchio – “tutti sembravano convinti che la trasformazione della scienza da un’attività di dilettanti ad una professione di massa avesse semplicemente aumentato la competitività e allargato le maglie dei criteri morali vigenti nella comunità scientifica dando spazio, anche in questo campo, a difetti fin troppo umani che, fino ad allora, erano stati tenuti fuori dalle accademie e dai laboratori. Questa interpretazione era sostanzialmente esatta ma trascurava un fatto importante: la perdita del disinteresse, quella caratteristica per la quale lo scienziato del passato mirava alla ricerca della verità indipendentemente dai vantaggi che tale ricerca, e le eventuali scoperte, avrebbero potuto recargli” (Le bugie della scienza – Mondadori-DeAgostini, Novara 1994, pp.85-86).
Sta di fatto che solo in un’organizzazione culturale autogestita potrebbe darsi una libera e pura “competizione” delle idee. C’è chi paventa, però, una condizione del genere poiché molte idee, ove non potessero più farsi scudo del potere giuridico o di quello economico, dimostrerebbero presto la loro inconsistenza.

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Di Francesco Giorgi
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