Globalizzazione e triarticolazione

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Su il Giornale (25 giugno 2001), Carlo Pelanda afferma che la “spinta globalizzante” è “sana”, ma che c’è “un crescente problema di squilibrio nel processo di mondializzazione dell’economia”, in quanto “il mercato globale si sta formando più velocemente di un’architettura politica altrettanto globale che lo governi e stabilizzi”; e così conclude: “Questo è esattamente il problema di ricerca principale, oggi, in materia di architettura politica mondiale: conciliare le sovranità nazionali con lo standard globalizzante. Si è capito che la formula del bilanciamento tra i due è quella giusta, ma il come realizzarla, e sotto quale ombrello istituzionale, va ancora inventato. Sarebbe bello se i lettori si eccitassero nel discutere questo tema di buongoverno planetario e non per gli spettacoli antiglobalizzanti”.
Pur non essendo affatto “eccitati”, raccogliamo volentieri l’invito a discutere, seppur brevemente, di questo tema. Diciamo subito, perciò, che chiunque voglia affrontare il problema della “globalizzazione” in modo non superficiale o settario, dovrebbe anzitutto distinguere la globalizzazione dei mercati, quale processo economico, dalla mercificazione del globo, quale processo che, muovendo appunto dalla sfera economica, tende a coinvolgere e a stravolgere tanto la sfera politica che quella culturale.
La globalizzazione, quale fenomeno puramente economico, va infatti – come sostiene Pelanda – nella direzione di un “sano” sviluppo delle relazioni tra gli uomini. “Salta agli occhi – osserva in proposito Steiner (e siamo nel 1919!) – che negli ultimi tempi i fatti economici hanno assunto forme che non sono più in accordo con le delimitazioni degli Stati. Queste delimitazioni sono risultanze di condizioni storiche che poco hanno da fare con gli interessi della vita economica dei popoli viventi entro i confini di quegli Stati. Ne consegue che i governi degli Stati stabiliscono relazioni internazionali, mentre sarebbe più conforme alla natura di queste se venissero stabilite in modo diretto dalle persone o dai gruppi di persone attive nel campo economico. A un’industria che abbisogni di una materia prima di uno Stato estero, per ottenerla dovrebbe bastare di accordarsi con l’amministrazione del medesimo; e tutto quanto occorre per questi accordi dovrebbe svolgersi esclusivamente entro il giro economico. Si può osservare che negli ultimi tempi la vita economica ha assunto forme indicatrici di una tale tendenza a chiudersi in sé, e che in questa economia chiusa in sé, gradualmente tesa a diventare un’unità su tutta la terra, gli interessi statali s’ingeriscono come un elemento perturbatore. Che cos’hanno da fare le condizioni storiche per cui l’Inghilterra ha acquistato il dominio sull’India, con le condizioni economiche per cui un fabbricante tedesco importa merci dall’India? La catastrofe della guerra mondiale ha reso manifesto che la vita dell’umanità moderna non sopporta il perturbamento che gli interessi degli Stati arrecano all’economia mondiale tendente all’unità”. “In avvenire – conclude pertanto – la tendenza dell’economia mondiale, più sopra accennata, lavorerà contro gli egoismi nazionali”. (I punti essenziali della questione sociale – Antroposofica, Milano 1980, p.130 e 132).
Sarebbe dunque salutare permettere alla globalizzazione di compiersi sul piano della vita economica, ma impedirle al tempo stesso di trascinare con sé, mercificandole, sia la vita politica sia quella culturale. Non si tratta quindi di trovare la “formula del bilanciamento” tra vita economica e vita politica, continuando così a ignorare le non meno legittime e autonome esigenze della vita culturale, quanto piuttosto di provvedere ad allentare sempre più, fino a scioglierli, i paralizzanti legami che vigono attualmente tra queste tre sfere (in vista, ovviamente, di un loro radicale rinnovamento).
E’ fuor di dubbio, del resto, che una globalizzazione che non si limiti a procedere nell’esclusivo alveo della vita economica (“universale”), costituisce una minaccia tanto per quella democratica (“particolare”) che per quella culturale (“individuale”). Riguardo a quest’ultima, ad esempio, Naomi Klein non solo denuncia, nel suo No Logo (Baldini & Castoldi, Milano 2001), il rischio di una “colonizzazione delle menti” (p.92), ma prefigura addirittura una situazione in cui gli imprenditori, anziché preoccuparsi, come dovrebbero, della creazione di beni, si preoccupano invece, come non dovrebbero, di quella degli “acquirenti”. Il che significa preoccuparsi, non più di creare e commercializzare dei beni che rispondano ai bisogni dei consumatori, bensì dei consumatori che rispondano ai bisogni della creazione e della commercializzazione dei beni. Ma “creare” dei consumatori significa appunto operare sul piano culturale per cercare di modellare la mentalità e lo stato d’animo necessari alla accettazione e alla diffusione dei prodotti. Cosa vieppiù riprovevole allorquando tale operare prende di mira addirittura la scuola e l’istruzione per tentare di trasformare i bambini o gli adolescenti – come dice ancora la Klein – in “cavie da marketing” (p.140). E’ serio il rischio – avverte infatti l’autrice – della “scomparsa di uno “spazio” culturale libero da marchi” (p.67) e della sua sostituzione con uno in cui invece “le persone sono marchi e i marchi sono cultura” (p.86). Anche Ida Magli, seppure nella cornice del processo di unificazione europea, denuncia il pericolo di una progressiva mortificazione, se non cancellazione, delle varie identità culturali (cfr. Contro l’Europa – Bompiani, Milano 1997).
Chi è favorevole alla globalizzazione della vita economica non valuta dunque i danni che essa arreca alla vita politica e culturale, mentre chi le è avverso non valuta i benefici che essa arreca alla vita economica. Come si vede, tutto dipende dal fatto che questi tre aspetti della vita umana non vengono sufficientemente e concretamente differenziati. Parrebbe fare eccezione Tommaso Padoa-Schioppa che, nel suo Europa, forza gentile (il Mulino, Bologna 2001), distingue in modo esplicito “tre diversi campi: la politica e le istituzioni; l’economia e il suo governo; la nazione e la cultura” (p.13). “La vita culturale, – dice ad esempio – così come quella economica, non può svilupparsi in modo sano se il suo campo coincide del tutto con quello del potere politico e si assoggetta ad esso” (p.44). Proprio per questo – a suo dire – l’unificazione europea, più di quella americana, nascerebbe “nel presupposto di una pluralità delle culture, innanzitutto delle lingue, che di ogni cultura sono l’espressione più ricca e diffusa. E’ perciò esperienza e salvaguardia di una separazione tra politica e cultura che lo Stato nazionale non aveva saputo compiutamente realizzare” (pp.44-45) Specialmente per quanto riguarda la vita economica, egli si dichiara convinto che una divisione “verticale” dei poteri dello Stato che integri quella “orizzontale” tradizionale possa produrre molti effetti positivi. Scrive infatti: “Per evitare il dispotismo occorre che il potere sia diviso in un duplice senso: orizzontale (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche verticale (livello nazionale, sub-nazionale, sovranazionale)” (p.18); e aggiunge: “Solo una divisione dei poteri verticale (tra diversi livelli territoriali di governo) può realizzare questa salvaguardia del buon funzionamento dell’economia” (pp.31-32).
Se è chiaro il come ogni decentramento di potere (“orizzontale” o “verticale” che sia) possa “evitare il dispotismo”, non è altrettanto chiaro, tuttavia, il come possa evitare che le tre sfere di attività di cui ci stiamo occupando si ostacolino reciprocamente. Anziché dunque sperare che tali interferenze cessino per il semplice fatto di aver messo il potere nazionale in mezzo, tra quello “sub-nazionale” e quello “sovranazionale”, non sarebbe meglio infatti suddividere, non i “diversi livelli territoriali di governo”, bensì le diverse sfere di attività degli uomini, istituzionalizzandole e mettendole così in grado di autogestirsi?
Padoa-Schioppa auspica giustamente che, passo dopo passo, possa infine instaurarsi “una democrazia europea vivente” (p.65). E’ quello che auspichiamo anche noi. Ci resta difficile credere, però, che ciò possa avvenire se non si “cacciano”, dal “tempio” della cultura, i “mercanti” politici e quelli economici, e non si rende anzitutto “vivente” il pensiero che è chiamato a concepire e attuare un simile ideale.

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Di Francesco Giorgi
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