La percezione

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Ci siamo già occupati (tra l’altro) della percezione, in specie nelle note: Il cervello, la mente e l’anima (15 gennaio 2002) e Coscienza naturale e coscienza spirituale (15 febbraio 2002). Intendiamo riprendere qui l’argomento, sollecitati dalla recente pubblicazione, da parte di Paul Rookes e Jane Willson, di un’operetta (a carattere divulgativo) intitolata per l’appunto: La percezione (il Mulino, Bologna 2002).
“Per sensazione – affermano gli autori introducendola – si intende la risposta dei recettori sensoriali e degli organi di senso agli stimoli ambientali. La percezione, per parte sua, è un processo che implica il riconoscimento e l’interpretazione degli stimoli che colpiscono i nostri sensi”; pertanto, “la percezione riguarda il modo in cui interpretiamo l’ambiente che ci circonda, e la sensazione riguarda i processi fondamentali di stimolazione degli organi di senso” (p.7).
La percezione deriverebbe dunque dall’”interpretazione” della sensazione. E’ curioso, tuttavia, che il termine “sensazione” venga abitualmente usato più per indicare un “presentimento” o “un senso di viva impressione, stupore, sorpresa, interesse” che non (come recita lo Zingarelli) “l’unità elementare e non analizzabile di ciò che si percepisce quando certi organi recettori sono stimolati”.
Che cosa significa questo? Significa che il “genio” del linguaggio è più incline a usare il termine “sensazione” per esprimere l’esperienza soggettiva che non quella oggettiva (dell’”unità elementare di ciò che si percepisce”).
Dal nostro punto di vista, la sensazione rappresenta infatti il modo in cui il soggetto (l’Io) sperimenta (nell’”anima senziente”, e quindi al più basso dei propri livelli di coscienza) il percetto: vale a dire, l’oggettivo e originario contenuto della percezione. Per noi, è dunque la sensazione a derivare dall’”interpretazione” della percezione, e non viceversa.
Del resto, se la sensazione fosse – come sostengono Paul Rookes e Jane Willson – “la risposta dei recettori sensoriali e degli organi di senso agli stimoli ambientali”, non ci sarebbe più differenza tra la sensazione e l’”impulso nervoso”.
Nella nota Il cervello, la mente e l’anima, ci siamo serviti, in proposito, del seguente esempio (ci si passi l’autocitazione). “Prendiamo un qualsiasi contenuto di percezione (ad esempio, il miagolio di un gatto) e osserviamo che questo, in quanto attraversa un mezzo (l’aria), si presenta agli organi di senso (alle orecchie) come uno stimolo (come una vibrazione); quest’ultimo viene poi trasformato, dai recettori sensoriali, in un impulso nervoso (e quindi in una realtà “codificata”) che raggiunge alla fine il cervello”.
Non solo, dunque, abbiamo distinto il contenuto della percezione dallo stimolo, e lo stimolo dall’impulso nervoso, ma non abbiamo fatto alcuna menzione della sensazione. E non l’abbiamo fatta, perché la sensazione riguarda la fase animica ed efferente del processo percettivo (che va dall’Io agli organi di senso), e non quella corporea e afferente (che va dagli organi di senso all’Io).
Scrivono gli autori: “La questione di fondo è la seguente: come facciamo a percepire il mondo intorno a noi con tanta rapidità e, in generale, con tanta fedeltà? I ricercatori hanno risposto a questo interrogativo in due modi principali e le loro teorie possono essere divise in due gruppi: 1. teorie bottom-up (dal basso in alto); 2. teorie top-down (dall’alto in basso)” (p.19).
Come si vede, i “ricercatori”, non riuscendo ad afferrare l’intera dinamica del processo percettivo (nella quale, al pari di quello respiratorio, si alternano ritmicamente un momento d’inalazione e uno di esalazione), sono portati a ridurre, in un caso (quello bottom-up), la fase efferente (animica) a quella afferente (corporea) e, nell’altro (quello top-down), la fase afferente (corporea) a quella efferente (animica): ovvero, sono portati anacronisticamente a dividersi – per dirla in termini filosofici – tra “empiristi“ e “razionalisti”.
“L’elaborazione bottom-up – spiegano infatti gli autori – comincia dall’analisi degli input sensoriali (…) Le informazioni derivanti da questi input sensoriali sono poi trasformate e combinate fino alla costituzione di un oggetto percettivo”, mentre quella “top-down è l’inverso di quella bottom-up ed è usata per descrivere i fattori superiori, più cognitivi della percezione (…) Queste informazioni di ordine superiore operano dall’alto in basso influenzando il modo in cui interpretiamo gli input sensoriali. L’elaborazione di questo tipo è detta anche “elaborazione guidata dai concetti”, giacché le conoscenze a priori (i concetti mentali memorizzati) operano dall’alto in modo da determinare (guidare) l’interpretazione dell’input sensoriale” (pp.20-21).
Tanto i seguaci del paradigma bottom-up quanto quelli del paradigma top-down mirano comunque “a costruire – come dicono ancora gli autori – modelli della mente simili ai diagrammi di flusso usati in informatica”, e a considerare “il cervello umano come una macchina che manipola informazioni in una serie di stadi di elaborazione” (p.20). Ma è proprio questo “meccanicismo cibernetico” a impedir loro di afferrare la realtà globale, vivente e ritmica del processo percettivo.
“Un limite degli approcci computazionali – osservano al riguardo i due autori – sta nel fatto che essi sono fondamentalmente limitati alla percezione di oggetti statici. Eppure, come sappiamo, sia gli oggetti sia gli osservatori sono spesso in movimento nell’ambiente in cui normalmente si trovano, e la percezione umana riesce benissimo a fare fronte a questo dato di fatto” (p.75).
Fatto si è, tuttavia, che gli “approcci computazionali” sono “fondamentalmente limitati alla percezione di oggetti statici” perché sono “statici” essi stessi: perchè sono frutto, ossia, di un pensiero che sa gestire la realtà immobile (o morta) dello spazio, ma non quella mobile (o viva) del tempo.
Può essere utile rilevare, al riguardo, un fatto semplice, ma altamente significativo. Abbiamo detto poc’anzi che il percetto (il contenuto della percezione) si presenta prima agli organi di senso in forma di stimolo, e poi al cervello in forma di impulso nervoso: vale a dire, in forma “codificata”. Ma in che modo il sistema neurosensoriale codifica il percetto? E’ facile: digitalizzandolo; trasformandolo, cioè, da realtà continua (o unitaria) in realtà discreta (o molteplice).
Orbene, se la “decodificazione” del percetto, o la sintesi dei molteplici impulsi in cui è stato suddiviso, fosse effettuata dal cervello (ossia, dallo stesso sistema neurosensoriale) disporremmo soltanto d’immagini “compòsite” o “aggregate”, e non quindi – come invece avviene – “semplici” o “unitarie”. Si consideri ad esempio un puzzle. Come lo si realizza? Si prende una qualsiasi immagine unitaria, la s’incolla su un cartone, la si suddivide in un numero più o meno grande di pezzi che vengono poi ammucchiati alla rinfusa. Chi crea il puzzle va dunque dall’uno al molteplice, mentre chi lo ricompone va dal molteplice all’uno: a un uno, tuttavia, che conserva in modo palese e indelebile i segni della molteplicità, e che è diverso, per questo, dall’uno originario. Ma se nel caso dell’immagine finale del puzzle i pezzi sono d’immediata evidenza, in quello delle immagini digitali i pixels (gli elementi di aggregazione) si rendono evidenti solo con l’ingrandimento.
Ciò vuol dire quindi che l’unitarietà delle immagini percettive e delle rappresentazioni è reale, mentre quella delle immagini digitali è illusoria (così come illusorio, apparente o irreale – secondo quanto non mancano di rilevare gli autori – è il movimento nei films) (p.75). In altri termini, quest’ultime nascondono le “rughe”, mentre quelle naturali non le hanno; in tanto però non le hanno (e sono perciò qualitativamente diverse) in quanto, all’azione del sistema neurosensoriale che accoglie e codifica il percetto, succede quella dell’Io che, per mezzo dell’”anima senziente”, dell’”anima razionale e affettiva” e dell’”anima cosciente”, lo decodifica e porta a coscienza in veste, rispettivamente, di sensazione, di giudizio, di rappresentazione e d’immagine percettiva.
Scrivono gli autori: “Noi, si direbbe, “costruiamo” il mondo a partire dall’input visivo piuttosto che “vederlo” direttamente. Un’importante caratteristica della percezione è la nostra capacità di convertire la rappresentazione bidimensionale della scena proiettata sulla nostra retina nell’esperienza tridimensionale della percezione” (p.48).
La scienza dello spirito insegna infatti che l’immagine percettiva (tridimensionale) è una rappresentazione (bidimensionale) “trasportata” o “proiettata” nel mondo esterno, e che la rappresentazione è un “concetto individualizzato”. “La rappresentazione – afferma per l’appunto Steiner – non è altro che un’intuizione riferita ad una determinata percezione, un concetto che è stato una volta congiunto con una percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione” (La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p.89).
E’ vero, pertanto, che il mondo, più che “vederlo”, lo “immaginiamo”, ed è vero pure che la percezione (e quindi l’”immaginazione”) è il risultato – come sostengono i seguaci della teoria top-down – di una “elaborazione guidata dai concetti”, ma altrettanto è vero che i concetti sono a loro volta “guidati” dall’Io, e non costituiscono né delle “conoscenze a priori” nè dei contenuti “mentali memorizzati”. Scrive infatti Massimo Scaligero: “Ove si possa sperimentare la potenza di sintesi del concetto, si accede a una sfera di realtà normalmente impercepibile, perché vasta e possente per il mentale cosciente: si accede a una sfera di Potenze sovrasensibili, che si avverte come fondamento assoluto della sfera sensibile” (Manuale pratico della meditazione – Tilopa, Roma 1984, p.27).
La verità ultima, dunque, è che il concetto (da cui nasce l’immagine) altro non è che il percetto conosciuto e che il percetto altro non è che il concetto sconosciuto.
Da questo punto di vista, si scopre allora che i sostenitori della teoria bottom-up non sanno vedere (arimanicamente) il concetto nel percetto (il pensare nel volere o lo spirito nella materia), mentre quelli della teoria top-down non sanno vedere (lucifericamente) il percetto nel concetto (il volere nel pensare o la materia nello spirito).
“Non v’è dubbio – scrivono ancora gli autori – che noi comprendiamo il concetto di sedia solo grazie al fatto di aver veduto sedie in passato e di esserci seduti su di esse. E’opinione generale, anche dei sostenitori del paradigma bottom-up, che l’identificazione finale (denominazione) non abbia luogo se non attraverso un processo di confronto (matching) tra le informazioni sensoriali e le rappresentazioni mentali memorizzate. Possiamo riconoscere la parola “sedia” solo perché essa è immagazzinata nella memoria” (p.21).
Scrive però Edoardo Boncinelli: “Dove sono custoditi i ricordi a lungo termine? E sotto che forma? Dove si trovano le loro registrazioni fisiche, che possiamo anche chiamare engrammi o tracce mnestiche? Non si sa”; e aggiunge: “Se non sappiamo dove è localizzato, possiamo almeno sapere in che cosa consiste l’engramma? Purtroppo no” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, pp.109 e 110). Nel passo prima riportato, tentando di spiegare il riconoscimento (percettivo) di una sedia ricorrendo alla memoria, non solo si tenta dunque di spiegare una cosa che non si conosce con un’altra che si conosce ancor meno, ma non si fa neppure distinzione tra la sedia quale “percetto” (individuale e indeterminato), la sedia quale “concetto” (universale e determinato), la sedia quale “rappresentazione” (particolare) e la sedia quale “parola” (o “denominazione”). Non bastasse, si dimentica anche che il problema non è costituito dal modo in cui si riconosce una sedia dopo che se ne sono viste delle altre, ma dal modo in cui la si riconosce allorché la si vede per la prima volta. “E questa cosa che è?”, potrebbe chiedere ad esempio un bambino nel momento in cui fa il suo primo incontro con una sedia. Come si vede, si chiede, sì, il nome della “cosa”, ma nell’assoluta inconsapevolezza che non lo si potrebbe affatto fare se non si fosse già operata, in virtù del concetto, una sintesi dei molteplici eventi cerebrali. Quest’ultimi – ricorda infatti John C. Eccles – “rimangono disparati (…) Gli eventi cerebrali non forniscono alcuna spiegazione della nostra esperienza più comune, ovvero il mondo visivo osservato come un’entità globale, momento per momento” (Come l’Io controlla il suo cervello – Rizzoli, Milano 1994, p.74). Ma qual è allora la “cosa” di cui si chiede il nome? E’ il concetto; o, per essere più precisi, è la cosa (il percetto) che è il concetto e il concetto che è la cosa (il percetto). Insomma, è in virtù de la sedia (universale) che è possibile riconoscere questa sedia (individuale) e formarsi la rappresentazione di una sedia (particolare).
Che nella strutturazione delle rappresentazioni e delle immagini percettive operino segretamente i concetti lo dimostra anche il noto “vaso di Rubin”. “Non è difficile rendersi conto – scrivono al riguardo Paul Rookes e Jane Willson – che l’immagine può essere interpretata in due modi: un vaso bianco su fondo nero o due volti umani neri visti di profilo che si fronteggiano su fondo bianco”; ed è importante notare – aggiungono – che “è pressoché impossibile vedere nello stesso tempo i volti e il vaso e, come è stato osservato da Baylis e Driver (1995), ciò riflette la nostra esperienza nella vita reale” (pp.49 e 50).
Orbene, dal momento che l’immagine proiettata sulla retina – come sottolineano i due autori – “è esattamente la stessa nei due casi” (p.21), diviene chiaro allora che in tanto è “impossibile vedere nello stesso tempo i volti e il vaso” in quanto è impossibile pensare nello stesso tempo due concetti diversi. Ed è proprio per questo che i medesimi stimoli vengono sintetizzati prima come “volti” e poi come “vaso”, o prima come “vaso” e poi come “volti”.
“Un’ovvia difficoltà – sostengono ancora gli autori – è spiegare perchè tutti, tendenzialmente, vediamo il mondo in modo simile, anche se ognuno costruisce il proprio modello percettivo”(p.36). Ci auguriamo sia chiaro, a questo punto, che tale difficoltà discende unicamente dal fatto che, al di là della sfera corporea, in cui si danno lo stimolo, l’impulso nervoso e l’immagine percettiva, e al di là di quella animica, in cui si danno la sensazione, l’attività giudicante e la rappresentazione, si è normalmente incapaci di cogliere la sfera spirituale del concetto.

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Di Francesco Giorgi
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