Come ti stordisco il pupo

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Steiner così apre i suoi scritti sulle opere scientifiche di Goethe: “ Il 18 agosto del 1787, Goethe scriveva dall’Italia a Knebel: “Dopo quanto ho veduto di piante e di pesci, presso Napoli e in Sicilia, sarei molto tentato, se fossi più giovane di dieci anni, di fare un viaggio in India, non già per scoprire cose nuove, ma per contemplare a modo mio quelle già scoperte“. In queste parole è indicato il punto di vista dal quale dobbiamo considerare le opere scientifiche di Goethe. Nel caso suo non si tratta mai della scoperta di fatti nuovi, ma dell’adozione d’un nuovo punto di vista, di un determinato modo di osservare la natura” (1).
Steiner parla qui di “un nuovo punto di vista”, ma avrebbe potuto anche parlare di un “nuovo modo di pensare” o di un “nuovo livello di coscienza”: quello che altrove chiamerà “immaginativo” e che è “nuovo” rispetto al modo di pensare o al livello di coscienza dell’intelletto (della ragione o del lume “naturale”).
Le piante, ad esempio, alla luce del modo di pensare intellettuale di Linneo, “risultavano bensì disposte in un ordine, ma in un modo che si sarebbe potuto applicare anche a corpi inorganici: secondo caratteri ricavati dall’apparenza esteriore, non dalla natura intima della pianta. Tali caratteri si mostravano in una contiguità esteriore, senza un intimo nesso necessario”; mentre alla luce del modo di pensare immaginativo di Goethe – e come dice Goethe stesso – “ciò ch’egli, Linneo, cercava a ogni costo di tener separato, doveva, secondo l’intima necessità del mio essere, tendere all’unificazione” (2).
Anche Goethe parla qui di un’“intima necessità” del suo essere, ma avrebbe potuto benissimo parlare di un’”intima necessità” del suo modo di pensare.
Quale differenza vi è dunque tra il modo di pensare intellettuale e quello immaginativo? Che il primo è idoneo (e perciò deputato) a conoscere analiticamente quanto giace nello spazio, mentre il secondo è idoneo (e perciò deputato) a conoscere sinteticamente quanto muove nel tempo. Il modo di pensare intellettuale è infatti attento in primo luogo alle “cose”, mentre quello immaginativo è attento in primo luogo ai “processi”.
Si considerino, per fare un facile esempio, il giorno e la notte. Dal punto di vista intellettuale questi appaiono come due “stati” contrapposti: tanto che si usa dire, di due realtà molto diverse tra loro, che sono appunto “come il giorno e la notte”. Dal punto di vista immaginativo gli stessi appaiono invece come due distinti “momenti” del divenire di una terza realtà: cioè a dire, della “giornata” di ventiquattr’ore. Come si vede, questa terza realtà non annulla la differenza tra le prime due, ma la trasferisce dal piano discontinuo (o discreto) dello spazio a quello continuo del tempo, concependola così, non più come una statica e rigida contrapposizione di due “stati” (che nulla hanno in comune), bensì come una dinamica e fluida distinzione di due “momenti” (accomunati dal divenire di una terza realtà).
Una cosa è dunque la logica dell’intelletto, altra la logica dell’immaginazione.
Abbiamo sentito il bisogno di ricordare queste cose perché si è quasi sempre attenti a “quel che si pensa” o a “cosa si pensa” e quasi mai, viceversa, a “come si pensa”. A dirla tutta, si è anzi convinti che il problema del “come si pensa” non esiste, poiché non si può pensare che nel solo e spontaneo modo garantito dall’intelletto.
Oggi, tuttavia, il massiccio ingresso dei computer nella vita e nell’attività quotidiana può aiutarci a riflettere proprio sul “come si pensa”.
Come pensa infatti un computer? In modo analogo – guarda caso – a quello dell’intelletto. “Non a torto – osserva appunto Hegel – si equiparò questo pensare al calcolare, e viceversa il calcolare a questo pensare” (3).
E’ significativo, al riguardo, che oggi si parli più di “mente computazionale” che non d’”intelletto”, e che la teoria dell’informazione, in qualità di ramo della matematica applicata, abbia intrapreso lo studio della “computabilità dei problemi”. Ancor più significativo è poi il fatto che la logica del computer, al pari di quella dell’intelletto, sia “dualistica” o “binaria”: basata, cioè, su quel principio d’identità (e del terzo escluso) per il quale, se A è A, non può essere B e, se B è B, non può essere A (o, nel gergo computazionale, se 1 è 1, non può essere 0 e, se 0 è 0, non può essere 1).
Ma cosa significa questo? Significa, nientemeno, che l’uomo è arrivato a una fase della propria evoluzione in cui potrebbe – per così dire – “espellere” da sé l’intelletto, oggettivandolo e reificandolo; e che ciò in tanto è possibile in quanto l’attività dell’intelletto, essendo vincolata a quella dell’apparato neuro-sensoriale e, in specie, della neocorteccia, è già in qualche modo “corpo”, e quindi “reificata”. Cos’altro è d’altronde un computer se non appunto un cervello “elettronico” che, nel suo funzionamento, ricalca, o dovrebbe ricalcare, quello “naturale”? Certo, un conto è considerare il computer una specie di cervello, altro è considerare il cervello – come ama fare oggidì larga parte dei neurofisiologi – una specie di computer. In questo secondo caso, infatti (come dice spiritosamente, e in tutt’altro contesto, Giacomo Biffi), “sarebbe come ritenere che il quadro a olio che c’è in casa mia non è l’immagine della mia nonna, ma che invece è mia nonna a essere la riproduzione tridimensionale della figura del quadro” (4).
Ma a quale scopo l’uomo dovrebbe oggi “espellere”, o “portarsi oltre”, l’intelletto (così come – secondo quanto insegna la scienza dello spirito – ha in passato “espulso”, o si è “portato oltre”, il livello di coscienza minerale, vegetale e animale)? Non è difficile capirlo: per poter accedere a un nuovo, permanente e superiore livello di coscienza, e per potersi così servire più saggiamente dell’intelletto, quale prezioso e insostituibile strumento di rapporto col mondo sensibile. Tale nuovo, permanente e superiore livello di coscienza equivarrebbe infatti a un nuovo, permanente e superiore livello di autocoscienza, e quindi a una coscienza dell’Io capace di affrontare in modo più profondo ed efficace molti dei problemi etici posti e irrisolti dall’autocoscienza intellettuale (spaziale o corporea) o dall’ego.
Se è vero, tuttavia, che una simile possibilità viene data solo agli uomini che abbiano raggiunto e maturato, nella loro evoluzione filogenetica, la moderna coscienza individuale (detta da Steiner ”anima cosciente”), è vero allora che la stessa non dovrebbe essere data a chi non abbia raggiunto e maturato, nella propria evoluzione ontogenetica, il medesimo grado di coscienza.
Il che vuol dire, in altre parole, che i computer, ossia i “calcolatori”, dovrebbero essere tenuti lontani, almeno fino a una certa età, dalla scuola.
Sappiamo bene che i più non condivideranno quest’ultima affermazione. Sta di fatto, però, che la scienza dell’informazione non è la scienza della formazione, e che qualora pretendesse di divenirla finirebbe di certo col tramutarsi in una scienza della deformazione.
Come dimostrano le tante scuole d’ispirazione antroposofica sparse nel mondo, considerare un bambino nella sua entità corporea, animica e spirituale, e aiutarlo, con arte e con amore, a metamorfosare grado a grado le sue forze di crescita e di fantasia in quelle intellettuali e logiche è cosa ben diversa dal considerarlo uno “psicozoo” da addestrare al più presto all’uso del calcolatore. Chi promuove un ammaestramento del genere non fa in realtà che costringere l’anima infantile, già forzata a una precoce intellettualizzazione dagli ordinari metodi e programmi scolastici, a compiere un ulteriore e quanto mai dannoso sforzo per misurarsi con una macchina che “ragiona” in modo rigido e univoco. C’è poco da fare, chiunque voglia utilizzare un computer deve per forza adottare la logica computazionale. Ma un conto è che ciò venga fatto da un essere già formato, ossia da chi rimane libero, volendo, di adottare anche altre logiche (in funzione del piano di realtà con cui è alle prese), altro che venga fatto da un essere in via di formazione, ossia da chi rischia, introiettando la logica computazionale, di rimanervi per sempre imprigionato. A tutto danno, naturalmente, della sua salute e del suo equilibrio.
Sempre la scienza dello spirito ha messo infatti in luce (per dirla in breve) che all’attività del pensiero (cosciente e cerebrale) corrispondono, sul piano fisiologico, dei processi di sclerosi e, su quello psichico, dei processi depressivi, mentre a quella della volontà (incosciente e viscerale) corrispondono, sul piano fisiologico, dei processi d’infiammazione e, su quello psichico, dei processi maniacali. E’ chiaro, dunque, che un precoce ed eccessivo impegno dell’intelletto può avere, in specie nei bambini e negli adolescenti, serie conseguenze patologiche (dirette o reattive).
Ebbene, è di questi giorni la notizia che la Food and drug administration, l’agenzia federale che vigila sulla salute degli americani, ha ufficialmente approvato, a partire dai sette anni, l’uso del Prozac per la cura delle depressioni o delle ossessioni compulsive infantili.
Riferisce infatti Mariuccia Chiantaretto che “secondo statistiche del 1997, in quell’anno almeno 400mila minori di 18 anni in America usavano il Prozac anche se non era consentito (…) I dati di sei anni fa parlavano già di un mercato potenziale di almeno 4 milioni di bambini depressi, un vero pozzo di San Patrizio che in un paese come l’America, dove gli affari sono affari, non poteva essere ignorato a lungo” (5).
E’ lecito però supporre che “dove gli affari sono affari” si sappia pure quale “mercato potenziale”, per i produttori e i venditori di computer, rappresentino le scuole. E poiché appunto “gli affari sono affari”, poco importa allora che i bambini non siano più bambini, ma dei nanetti depressi od ossessivi (oppure, reattivamente, dei maniaci o degli impulsivi).
Come si vede, il “sistema” (luciferico-arimanico) è quasi perfetto: da una parte, infatti, si stimola in modo precoce e abnorme l’attività (catabolica) del sistema neuro-sensoriale e, dall’altra, si fornisce il Prozac. Peccato, tuttavia, che quest’ultimo, definito da Peter Kramer “la pillola della felicità” (6), non solo – secondo quanto riferisce sempre la Chiantaretto – “oltre agli effetti secondari già ben noti negli adulti (nausea, stanchezza, difficoltà di concentrazione, vertigini) limiterebbe la crescita”, ma inciderebbe negativamente anche sull’attività sessuale. “Segraves e altri – afferma infatti John Horgan – hanno scoperto che almeno tre su quattro consumatori di Prozac avvertono una riduzione nel desiderio sessuale o una minor capacità di raggiungere l’orgasmo, o entrambe” (7).
Come usano dire coloro che vantano un linguaggio forbito ed elegante, corriamo insomma il rischio di essere “cornuti e mazziati” (ancorché il “sistema”, per risolvere il “problemino” denunciato da Horgan, fornisca pure il Viagra).

Note:

01) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.1;
02) ibid., p.12;
03) G.W.F.Hegel: Scienza della logica – Laterza, Roma-Bari 1974, vol.1°, p.34;
04) G.Biffi: Canto nuziale – Jaca Book, Milano 1999, pp.14-15;
05) il Giornale, 5 gennaio 2003;
06) P.Kramer: La pillola della felicità – Sansoni, Milano 1994;
07) J.Horgan: La mente inviolata – Cortina, Milano 2001, p.136.

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Di Francesco Giorgi
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