Europa, paura e vergogna

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Scrive Gianni Baget Bozzo: “L’America non ha paura, l’Europa ha paura (…) Ma c’è un male più profondo: non solo abbiamo paura, ma abbiamo vergogna. Vergogna di aver fatto le colonie, vergogna di essere più ricchi degli altri, non solo abbiamo paura, ma ci sentiamo anche colpevoli di esistere. Peggio di così si muore; ed è quello che stiamo facendo. Anche la Chiesa in Europa è vergogna; i cattolici si sentono colpevoli di tutto ciò che hanno fatto e dimenticano tutto ciò che hanno subìto (…) Dimentichiamo i martiri e ci vergogniamo delle vittorie (…) Da italiani, odiamo la nostra storia civile, da cattolici la nostra storia cattolica. Ci sentiamo colpevoli come europei e come cattolici. Questo è un male che rode la vita civile e la vita ecclesiale” (1).
Ma quali radici ha questo male che “rode”, più che “la vita civile e la vita ecclesiale”, le anime europee? “Ci sentiamo – dice Baget Bozzo – colpevoli di esistere”. Ma nei confronti di chi, o di che cosa, possiamo sentire “colpevole” la nostra esistenza? E’ presto detto: soltanto nei confronti della nostra essenza. Si sente infatti “colpevole” la propria esistenza solo quando questa non esprime o manifesta la propria essenza, ma anzi la contraddice o la nega.
Mentre un papavero può esistere solo come papavero e una gallina può esistere solo come gallina, l’uomo può infatti esistere anche come “non-uomo”. E’ la condizione della libertà. L’esistere non viene più determinato in modo naturale dall’essere, bensì in modo spirituale dalla coscienza dell’essere. Ci sono, tuttavia, vari gradi della coscienza dell’essere, e quindi, in corrispondenza di ciascuno di questi, varie modalità o qualità dell’esistere. L’attuale esistenza degli europei, ad esempio, è determinata dal più basso di tali gradi: vale a dire, da quello della coscienza spaziale, materiale o corporea dell’essere o dell’Io, cui appunto corrisponde un’esistenza caratterizzata, nel bene e nel male, dall’egoismo e dal materialismo.
Orbene, se è vero quanto sostiene Baget Bozzo, vuol dire allora che è l’ego degli europei che, avendo ormai esaurito il suo compito storico-evolutivo (legato alla prima fase di sviluppo dell’anima cosciente, o dell’individualismo), ma essendo al contempo recalcitrante a sviluppare un’autocoscienza più profonda (quella del “Sé spirituale”), si sente incalzato dalla paura e dalla vergogna. Si tenga altresì conto che, tradendo la propria essenza, si tradisce anche la propria “missione” spirituale-culturale, o il proprio “compito” storico-evolutivo.
In tanto, dunque, la paura e la vergogna incalzano l’ego in quanto vorrebbero spingerlo a crescere e a relizzare una diversa e più alta coscienza di sé, degli altri e del mondo.
Di queste due emozioni (unitamente a quella della collera), così scrive Karl Konig: “Quando Adamo ed Eva lasciarono il paradiso terrestre vennero accompagnati dalla vergogna e dalla paura e preceduti dalla collera, ma nel loro cuore risuonava la parola dell’angelo: “A poco a poco vi richiamerò indietro”. I figli di Adamo ed Eva hanno imparato a capire che il paradiso si riaprirà davanti a loro quando trasformeranno la loro anima, quando la collera si sarà trasformata in amore, la vergogna si sarà metamorfosata in speranza e la paura in fede” (2).
Sempre Konig richiama inoltre l’attenzione sul fatto che la vergogna e la paura rappresentano due stati diametralmente opposti. “La paura – scrive infatti – ci fa rabbrividire, quando ci coglie tremiamo, sudiamo, battiamo i denti, impallidiamo, ci irrigidiamo e siamo tutti tesi. Non proviamo nessun impulso, nessuna spinta a fuggire, siamo troppo intimoriti per lasciare l’angolo di terra su cui siamo. La paura ci tiene tanto stretti in sua balìa da impedirci di muoverci. Si attorciglia attorno a tutto il nostro essere, come se volesse triturarci anima e corpo. La vergogna è l’esperienza opposta. Anziché irrigidirci e immobilizzarci proviamo la sensazione di scioglierci e di fondere. Anziché impallidire, arrossiamo su tutto il volto e il collo, a volte addirittura sulle spalle e sulla parte superiore del petto. Può anche capitare che si sudi, ma che si sudi caldo, non freddo come per la paura. Si appartengono quindi come giorno e notte, luce e tenebre. La paura ci fa contrarre, fa contrarre i capillari della pelle e fa ritrarre il sangue dalla superficie della pelle; la vergogna ci fa espandere, i capillari si dilatano, il sangue affiora alla superficie delle parti superiori del corpo” (3).
Quel ch’è vieppiù interessante, tuttavia, è che Konig, svolgendo le sua considerazioni (alla luce della scienza dello spirito), riesce a svelare i rapporti della vergogna con l’evento della nascita e della paura con l’evento della morte: proprio con i due eventi, ossia, che delimitano lo spazio e il tempo (il passato e il futuro) della nostra esistenza. “Nascita e morte – scrive appunto – sono ancorate nel profondo della nostra anima come navi in porto. Quando si avvicina il pericolo emerge la morte in veste di paura. Quando ci misuriamo nell’incontro con altri esseri umani, affiora la nascita in veste di vergogna” (4).
Questi riferimenti alla nascita e alla morte, però, ci ricordano anche i primi due enunciati del seguente detto rosicruciano: “Ex Deo nascimur“, “In Christo morimur“, “Per Spiritum Sanctum reviviscimus“.
Tornando a noi, potremmo dunque dire che gli europei, ostinandosi a portare avanti la coscienza spaziale, materiale o corporea dell’Io e, per ciò stesso, l’esistenza dell’ego (quella dell’habeo, ergo sum), si vergognano di di fronte al Padre e hanno paura per sé di fronte al Figlio; e che quanto più tentano di evitare l’incontro col secondo tanto più tentano di nascondersi agli occhi del primo.
Fatto si è che il Cristo vive nell’Io, così come l’Io si riflette nell’ego. Ma l’ego questo non lo sa, e teme di scoprirlo. Temendo di scoprirlo, mobilità allora l’intera cultura materialistica (o il suo pendant: l’astratta cultura spiritualistica) perché lo aiuti a esorcizzare la propria paura e la propria vergogna. L’ego non dice infatti, come il Battista: “Bisogna che Egli cresca ed io diminuisca”, ma vende l’Io, come Giuda, per “trenta denari”.
Per gli europei (laici, cattolici o non cattolici), vendere l’Io (o lo spirito) per “trenta denari” (per il profitto o, in senso lato, per l’utile materiale), significa però vendere il proprio essere, la propria missione o il proprio compito.
Dunque non ci s’illuda, non ci saranno pace, giustizia, libertà, fraternità e uguaglianza, fintantoché non si avrà il coraggio di aprire la propria anima a una rinnovata e moderna coscienza dello spirito.
Questo avverrà – dice infatti Steiner (siamo nel 1922) – soltanto se “si potrà creare un’intesa fra i nuovi germi esistenti in Europa (…) e quello che, vorrei persino dire ad un gradino superiore della civiltà, risulta in America soprattutto per le persone colte. Un’intesa che miri ad andare verso occidente, creerà il terreno per la comprensione di un’interiore evoluzione spirituale dell’occidente stesso (…) In tutto l’oriente si crede senz’altro allo spirito esistente nella natura umana, e si guarda con un certo dispregio a tutto quanto, come si dice, è sotto la costrizione della tecnica e della meccanica, e fa lavorare l’uomo stesso come una ruota in una macchina nell’ambito dell’ordinamento sociale. Soltanto quando da una base quale io ho descritto, vale a dire dall’unione dello spirito europeo con quello americano, si sarà prodotta una spiritualità nella concezione del mondo, soltanto allora si sarà gettato il ponte anche verso l’oriente (…) Quando poi l’occidente avrà fatto rinascere lo spirito nel suo seno, quando l’oriente non vedrà soltanto il proprio spirito, ma potrà vedere anche nei commercianti e negli uomini d’affari i rappresentanti di una concezione spirituale del mondo, allora anche l’oriente non guarderà più dall’alto, allora anch’esso potrà trovare la via alla comprensione” (5).
Un’ultima annotazione. Scrive ancora Baget Bozzo: “Ci vergogniamo di ricordare le radici cristiane (diciamo giudeocristiane per nasconderci). E come possiamo pretendere di dire nella Carta costituzionale europea ciò che neghiamo nella coscienza quotidiana di noi?”.
E’ vero. Ci sembra opportuno aggiungere, tuttavia, che se l’affermare “nella Carta costituzionale europea ciò che neghiamo” dentro di noi sarebbe ipocrita, l’affermarvi ciò che fosse già affermato dentro di noi sarebbe superfluo. La verità è un’altra, e l’ha dichiarata con grande schiettezza Ernesto Buonaiuti: “Solo in virtù di una colossale menzogna noi ci diciamo ancora cristiani. Il Cristianesimo lo dobbiamo conquistare” (6).
Ma se il Cristianesimo ancora non c’è, cosa c’è allora? E’ presto detto: da una parte, il non cristianesimo dei credenti (cioè quello – come abbiamo altrove ricordato – che ha spinto il teologo Bruno Forte a domandarsi: ma “il Dio dei cristiani è un Dio cristiano?”) (7) e, dall’altra, il cristianesimo dei non credenti. Il primo è quello di coloro che vogliono credere nonostante il loro materialismo; mentre il secondo è quello di coloro che non possono credere a causa del loro materialismo.
In una delle nostre “noterelle”, ci siamo già occupati, a quest’ultimo proposito, del libro che Salvatore Natoli ha intitolato appunto: Il cristianesimo di un non credente (8). Scrive Giuseppe Canterano, presentandolo:“…il cristianesimo può senz’altro essere condiviso anche da chi non crede. Da chi non crede in nessuna Resurrezione. Può essere condiviso da chi non attende il ritorno di nessun Signore. A patto, però, che si assuma la teologia dell’incarnazione come “pratica di carità”. E questo è non solo possibile, scrive Natoli, ma necessario. Una volta che, sul modello della kenosis – dello svuotamento divino -, Gesù si dona incondizionatamente agli uomini affinché essi replichino il suo gesto. Che consiste appunto nel donarsi totalmente agli altri. In questo senso, la “pratica della carità è il modo per dar seguito in sé all’incarnazione di Dio”, scrive Natoli. E’ la “via regia per sperimentare il divino nell’uomo”” (9).
Ebbene, è questa una prova che chi ha detto che le vie dell’inferno sono lastricate di “buone intenzioni” sapeva davvero il fatto suo. Cosa fa infatti Natoli? Afferma lo “svuotamento divino” (o cristico) dell’uomo Gesù, che culmina con la morte, e nega il “riempimento divino” (o cristico) di tutti gli uomini, che culmina con la resurrezione (e quindi con la Pentecoste). A dispetto della “divinoumanità” o della “teandria” di Solov’ev, egli non fa dunque che confezionare un Cristianesimo a misura del materialismo (o – direbbe Nietzsche – “dell’umano, troppo umano”).
Tutti coloro che, in un modo o nell’altro, riducono il Cristianesimo a “etica”, e l’etica alla pratica (“buonista”) della “carità” o della “solidarietà”, farebbero perciò bene a riflettere. L’unica “via regia” per sperimentare il divino nell’uomo e l’uomo nel divino è quella del Cristo; la via per sperimentare solo il divino nell’uomo è infatti quella di Arimane, mentre la via per sperimentare solo l’uomo nel divino è quella di Lucifero.

Note:

01) Tempi, 13-19 febbraio 2003;
02) K.Konig: L’anima umana – Natura e Cultura, Alassio (SV) 1996, p.52;
03) ibid., pp.46-47;
04) ibid., p.50;
05) R.Steiner: Polarità fra Oriente e Occidente – Antroposofica, Milano 1966, pp.209-210-211;
06) G.B.Guerri: Eretico e profeta – Mondadori, Milano 2001, p.1;
07) B.Forte: Trinità come storia
– Paoline, Cinisello-Balsamo (Milano) 1985, p.13;
08) S.Natoli: Il cristianesimo di un non credente – Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2002;
09) il Giornale, 11 febbraio 2003.

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Di Francesco Giorgi
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