Del “prendersi sul serio”

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Solo di recente, e in modo del tutto casuale, abbiamo preso visione della trascrizione di una conferenza tenuta da Bodo von Plato all’assemblea generale della Società Antroposofica Francese, svoltasi a Verrier-le-Buisson il 16 e 17 marzo dell’anno scorso, e pubblicata su Le Nouvelles de la Société anthroposophique en France (Bulletin des membres) (1).
Tale conferenza, intitolata: Mouvement anthroposophique, Société anthroposophique et Université libre pour la Science de l’esprit – Situation et perspectives, contiene alcune affermazioni a dir poco sconcertanti che riporteremo e discuteremo qui brevemente, non per attitudine dialettica o polemica, ma per semplice amore di verità.

Dice von Plato: “Rudolf Steiner était un critique passionné de son temps. Et comme toute personne qui entre réellement en dialogue avec son époque, il est parfois allé trop loin en portant certains jugements. D’un point de vue historique, on peut voir qu’il y a des événements et des phénomènes que Rudolf Steiner a jugé d’une certaine façon et qu’on doit regarder autrement aujourd’hui. C’est en s’opposant profondément contre certains courants qui se manifestaient à son époque, en travaillant et en menant le débat avec eux, qu’il a progressivement développé ce que nous appelons encore aujourd’hui l’anthroposophie. Je dis « encore » parce que Rudolf Steiner, déjà en 1923, disait qu’il aimerait bien que ce nom puisse changer toutes les semaines. C’est donc en critique de son temps que Rudolf Steiner a élaboré sa proposition pour que l’humanité continue autrement ” (“Rudolf Steiner è stato un appassionato critico del suo tempo. E come tutte le persone che entrano realmente in rapporto con la propria epoca, si è a volte spinto troppo oltre in certi giudizi. Da un punto di vista storico, possiamo constatare che ci sono degli eventi e dei fenomeni che Rudolf Steiner ha giudicato in un certo modo e che noi dobbiamo oggi giudicare altrimenti. E’ opponendosi profondamente a determinate correnti che si manifestavano nella sua epoca, lavorando e portando avanti la discussione con esse, che egli ha progressivamente sviluppato ciò che noi chiamiamo ancora oggi “antroposofia”. Dico “ancora” perché Rudolf Steiner diceva, già nel 1923, che gli sarebbe piaciuto che tale nome potesse cambiare tutte le settimane. E’ dunque criticando il suo tempo che Rudolf Steiner ha elaborato la propria proposta per un cambiamento dell’umanità”).

Saremmo invero curiosi di sapere quali siano quei giudizi in cui Steiner si sarebbe spinto “troppo oltre”, e quali quegli eventi e quei fenomeni che dovremmo oggi “giudicare altrimenti”. Ma lasciamo stare.
Sostiene dunque von Plato che Steiner ha sviluppato ed elaborato l’antroposofia criticando il suo tempo e opponendoglisi. Questo però non è vero. Steiner non è infatti quel Nietzsche cui il fondatore dell’antroposofia ha dedicato un lavoro intitolato appunto: Federico Nietzsche, lottatore contro il suo tempo (2). Ovverosia, quel Nietzsche che, proprio per essere stato un “appassionato critico” del suo tempo ed esserglisi “opposto profondamente”, senza essere stato, al contempo, un indagatore e conoscitore del mondo spirituale, ha concluso così tragicamente la sua vita.
Basterebbe d’altronde leggere i primi capitoli de La mia vita per capire che Steiner non ha preso affatto le mosse dalla critica del suo tempo.
“Nel mio rapporto con la geometria – scrive ad esempio – debbo vedere il primo germogliare d’una mia concezione che s’è andata poi sviluppando gradualmente e che viveva in me più o meno inconscia sin dall’infanzia, ma solo verso il mio ventesimo anno assunse forma definita e pienamente cosciente (.) “Nella geometria – mi dicevo – è lecito aver conoscenza di qualcosa che l’anima sola sperimenta per forza propria”. In questo sentimento trovavo la giustificazione del mio modo di parlare del mondo spirituale ch’era per me reale esperienza. Ne parlavo infatti come si parla del mondo fisico. Vivevano in me, sebbene non ancora ben chiare, due rappresentazioni che già prima del mio ottavo anno, erano una parte importante nella vita della mia anima; distinguevo cioè esseri e cose “che si vedono” ed esseri e cose “che non si vedono”” (3).
E’ da questo che Steiner ha preso le mosse. Questa sua “reale esperienza” del mondo spirituale mal si accordava, tuttavia, con la conoscenza della natura, così come veniva (e viene tuttora) proposta e portata avanti dalla scienza. Scrive infatti: “Sorgevano ora nella mia vita interiore, in modo ancora elementare, i problemi dei fenomeni naturali. Sentivo di dovermi accostare alla natura, per poter prendere posizione di fronte al mondo dello spirito il quale mi stava dinanzi come visione spontanea” (4); e, riferendosi al suo ventiduesimo anno d’età, aggiunge: “Alla mia anima si presentava così una veggenza spirituale non fondata su oscuri sentimenti mistici, ma svolgentesi in un’attività spirituale che, nella sua trasparenza, si poteva pienamente paragonare al pensiero matematico. Mi avvicinavo in tal modo a quell’atteggiamento dell’anima nel quale credevo di poter giustificare la visione del mondo spirituale che portavo in me, anche dinanzi al foro del pensiero scientifico sulla natura” (5).
Quale intenzione sta dunque alla base della nascita e dello sviluppo dell’antroposofia? Quella di gettare un ponte conoscitivo tra la realtà dello spirito e quella della natura. Ponte senza il quale la prima sarebbe rimasta riservato dominio di Lucifero e la seconda di Arimane.
“L’antroposofia – scrive appunto Steiner, nella prima delle sue “massime” – è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo” (6).
Solo in questa luce, peraltro, si può davvero capire tutta l’importanza che ha rivestito, per Steiner, il lavoro scientifico-naturale di Goethe.
Steiner è stato dunque, non un “appassionato critico del suo tempo”, bensì un appassionato ricercatore della verità e, in quanto tale, un severo critico delle menzogne della sua epoca. Il critico severo deriva quindi dal ricercatore appassionato, e non – come sostiene von Plato – viceversa.
Dice il Cristo: “Il mio regno non è di questo mondo”; e noi diciamo, nel Pater noster: “Venga il tuo regno”. Ma di che cosa sono fatti “questo mondo” e il “Suo regno” se non, rispettivamente e come dice Steiner, degli esseri e delle cose “che si vedono” e degli esseri e delle cose “che non si vedono”?
Noi dunque preghiamo perché venga il Suo regno in quanto questo mondo non è di quel regno, ma dovrebbe diventarlo (“come in cielo, così in terra”). Come si fa dunque a non criticare questo mondo in nome di quel regno? E a farlo, non in modo compiaciuto o moralistico, ma con la sofferenza di chi si vede costretto ogni volta a rimettere a posto le cose? “Molti credono – scrive appunto Steiner, parlando della “questione sociale” – che la triarticolazione intenda capovolgere il mondo. Certamente no! Il mondo è già capovolto e la triarticolazione vuole soltanto rimetterlo in piedi” (7).
Il vero problema è perciò quello di vivere in questo mondo, senza essere di questo mondo. E’ facile, infatti, vivere in questo mondo essendo di questo mondo, o non vivere in questo mondo non essendo di questo mondo. Difficile è vivere in questo mondo, senza essere di questo mondo, sforzandosi con il proprio impegno di migliorarlo, così da poter gradualmente diminuire la distanza che lo separa dall’”altro mondo” o dal “regno di Dio”.
Di sicuro, non è un compito facile. E ben lo sanno tutti coloro che, in piccolo o in grande, sono impegnati in questa direzione.

Dice von Plato: “Il n’existe plus aucune référence extérieure, il n’existe que le travail personnel, la volonté, la décision et la responsabilité individuelles. Et si l’on décide de prendre appui sur l’un des grands représentants du siècle dernier, cela peut être Rudolf Steiner, mais cela ne remplacera jamais la seule référence désormais valable: le pas que l’on fait soi-même (…) Les hommes ont, d’une manière générale, tendance à tourner leur regard vers les grands personnages, et les anthroposophes en particulier à le tourner vers Rudolf Steiner – parce que lui, c’est sûr, il était grand, il est grand. Et c’est bien. C’est juste. Mais du coup, quelque part, cela signifie que l’on ne se prend pas au sérieux soi-même. On s’identifie avec quelqu’un d’autre, avec quelqu’un qu’on estime “grand”. Ça, ce n’est peut-être pas encore trop grave, mais cela signifie aussi et surtout qu’on ne prend pas non plus l’autre, celui qui est à coté de nous, au sérieux ! Et là est le probléme “.
(“Non c’è più alcun riferimento esteriore, non c’è più che il lavoro personale, la volontà, la decisione e la responsabilità individuali. E l’appoggiarsi a uno dei grandi rappresentanti del secolo scorso, come potrebbe essere Rudolf Steiner, giammai rimpiazzerà il solo riferimento ormai valido: il cammino che si compie da sé (…) Gli uomini, in linea generale, hanno la tendenza a guardare ai grandi personaggi, e gli antroposofi specialmente a Rudolf Steiner – poiché questi era sicuramente grande. E’ grande. E va bene. E’ giusto. Ma così si finisce, in qualche modo, col non prendere sul serio sé stessi. Ci s’identifica con qualcun altro, con qualcuno che si stima “grande”. Ciò non è forse ancora troppo grave, ma vuol dire anche, e soprattutto, che non si prende sul serio l’altro, colui che ci sta accanto! E qui sta il problema”).

Si rifletta: che cosa ha di peculiare il vetro se non che, grazie alla sua trasparenza, ci permette di vedere, non esso, ma attraverso di esso? Se verniciassimo una delle sue superfici, trasformeremmo il vetro in uno specchio nel quale non potremmo vedere che sempre e soltanto noi stessi.
Ebbene, che cosa ha di peculiare Steiner? Di essere diventato “grande” per essersi fatto “piccolo”. Tanto “piccolo” da sparire, consentendo così a noi di vedere, non lui, ma attraverso di lui. In tal modo, egli ha seguito l’esempio del Battista che diceva appunto: “Bisogna che Egli cresca e io diminuisca”. Da questo punto di vista, si potrebbe addirittura dire che è improprio definirsi “steineriani”, in quanto Steiner voleva che si guardasse non a lui, ma, attraverso di lui, a sé stessi, agli altri e al mondo (ed è per questo che l’antroposofia potrebbe essere considerata una “concezione immacolata”). E a tal fine, e nello spirito paolino del “non io, ma il Cristo in me”, ha offerto e sacrificato la propria vita e la propria anima agli uomini e al mondo.
Magari, dunque, lo si prendesse sul serio! Difatti, chiunque prenda sul serio Rudolf Steiner prenderà necessariamente sul serio sé stesso, gli altri e il mondo. Sul piano spirituale, il rischio di non prendere seriamente sé stessi, gli altri e il mondo perché si è preso seriamente Rudolf Steiner non esiste. Se esiste, e dal momento che se ne parla evidentemente esiste, si tratta allora di un problema psichico: vale a dire, di una questione personale.
Von Plato parla d’identificazione. Ma l’identificazione – dal punto di vista psicodinamico – è un “meccanismo di difesa” psichico e inconscio. Chiunque s’identificasse con Steiner non sarebbe quindi un ricercatore spirituale, bensì un “mitomane”. Un mitomane che in tanto ama troppo il suo “eroe” in quanto non lo ama, anzi lo odia. Sono proprio i “miti” che si prova infatti piacere a distruggere. Chi ama davvero non mette l’altro – come si dice – “su un piedistallo”, e proprio per questo non sente poi la voglia di buttarlo giù perché gli impedisce, facendogli ombra, di far valere la propria egoità.
Ha scritto il Foscolo: “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti, o Pindemonte; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta” (8). Al cospetto delle “urne dei forti”, si “accende” dunque l’animo “forte”, mentre si spegne, si avvilisce o si deprime l’animo “debole” (o più probabilmente invidioso).

Dice von Plato (riassumendo quanto detto fin qui): “En d’autres termes, cela veut dire que je me décide à trois choses :
– à me prendre moi-même au seriéux en faisant des pas,
– à prendre l’autre au sérieux, pas seulement Rudolf Steiner, mais aussi mes contemporains;
– à m’intégrer et me sentir représentant de mom époque.

(“In altre parole, ciò vuol dire che devo decidermi a fare tre cose:
– a prendermi sul serio compiendo un cammino,
– a prendere l’altro sul serio, non soltanto Rudolf Steiner, ma anche i miei contemporanei;
– a integrarmi e sentirmi un rappresentante della mia epoca”).

Cominciamo dunque col primo punto.
Ma chi è questo me stesso che dovrei prendere sul serio? Si tratta del minerale in me, del vegetale in me o dell’animale in me, oppure di una delle tante entità che vivono nel corpo astrale (politeistico) come in un pantheon? E se non è niente di tutto questo chi è allora? Come si fa a saperlo?
Va detto, a onor del vero, che von Plato precisa, a un certo punto, che ciò che conta non è tanto la direzione del nostro cammino, quanto piuttosto la sua “qualità” o la sua “natura”: cioè il fatto che sia compiuto a dispetto della nostra natura, e quindi nonostante noi stessi.
Ma ciò non presuppone, forse, un impegno conoscitivo che ci permetta di distinguere quel che in noi è natura da quel che non lo è? L’accorato appello di von Plato alla libertà, all’autonomia e all’indipendenza dai grandi personaggi o dagli eroi, non presuppone quindi la comprensione di quanto Steiner ha scritto nella prima parte de La filosofia della libertà? (9) Questa si divide infatti in due parti: la seconda è dedicata alla “realtà della libertà”, vale a dire alla libertà come azione, comportamento o fatto, mentre la prima è dedicata alla “scienza della libertà”. Già questo dovrebbe pertanto indicarci che non si può attuare la libertà se prima non la si conosce (quale “soggetto” o “spirito libero”): ovvero, che non si può attuare quell’Io che si è se prima non lo si conosce o riconosce. Nella sua opera fondamentale, Steiner afferma infatti questo principio: solo il pensiero libero può generare un’azione libera.
E quanto fosse sincero nel desiderare che gli altri riflettessero su quello che diceva, e non si limitassero a crederlo (in quanto psichicamente dipendenti dalla sua autorità) può bastare a dimostrarlo questa sua affermazione: “Se mi è concessa una parola schietta, che cosa potrebbe darmi maggior gioia? Ho la massima gioia perché un uomo, con forza autonoma, in modo indipendente, attingendo a se stesso, libero, senza attenersi direttamente solo a ciò che io stesso dico, ma sulla base delle proprie capacità, espone le cose basandole sulle cose stesse. Chi vuol lavorare liberamente, di null’altro si rallegrerà quanto di una personalità indipendente che lavora spalla a spalla con lui e dia quel ch’è in grado di dare, dopo aver riconosciuto la sua connessione con l’insieme” (10).
“Dopo aver riconosciuto la sua connessione con l’insieme”: non prima, cioè, di “aver riconosciuto la sua connessione” con il tutto o con l’essenza, e di essersi quindi compenetrato del medesimo spirito che animava Steiner.
Fatto sta che la “massima gioia” di uno spirito libero è quella d’incontrarsi con altri spiriti liberi, e non quella di comandare o di obbedire. Ama comandare chi vuole sentirsi quell’Io che non è. Ha detto una volta Goethe che, per fare qualcosa, bisogna essere qualcuno. Appunto “essere” qualcuno, non “sentirsi” qualcuno. Chi è qualcuno si sente infatti nessuno, mentre chi è nessuno si sente qualcuno o, quantomeno, vorrebbe sentirsi tale. Il problema è però essere, non sentirsi. Ed è dall’incontro degli spiriti liberi che nascerà un giorno la comunità di Filadelfia: vale a dire, la vera comunità, la vera socialità, la vera solidarietà.

Passiamo al secondo punto.
Sostiene von Plato che dovremmo prendere sul serio non solo Rudolf Steiner, ma anche i nostri contemporanei.
Ebbene, in questo nostro “osservatorio” altro non facciamo che prendere sul serio proprio i nostri contemporanei. E appunto perché li prendiamo sul serio, li capiamo e siamo spesso costretti a criticarli.
E’ vero, comunque, che alcuni sedicenti antroposofi (che lo si sia o meno dovrebbe infatti deciderlo il mondo spirituale) non leggono nient’altro al di fuori di Steiner. Ma fanno questo – come abbiamo detto – non perché lo prendono troppo sul serio, ma perché non lo prendono sufficientemente sul serio. Dice von Plato che gli antroposofi guardano specialmente a Steiner. Ma lo vedono? Ne colgono cioè lo spirito?
Ciò che importa non è infatti il “sapere” antroposofico. Non è il cosa, ma il come. Di tanto in tanto, converrebbe perciò chiedersi: qual è il mio rapporto con quello che so? Come so quello che so? Lo so perché l’ho orecchiato, perché l’ho imparato e memorizzato, perché sono in grado di ripeterlo, o perché l’ho intimamente penetrato, fino a divenire tutt’uno con esso?

Ed eccoci al terzo punto.
Afferma von Plato che ci si dovrebbe integrare e sentire rappresentanti della nostra epoca.
C’è però un problema. Esistono infatti Spiriti del tempo regolari e Spiriti del tempo irregolari, e non è facile distinguere i primi dai secondi. Una cosa comunque è certa: gli Spiriti del tempo regolari non sono quelli culturalmente alla “moda” (“politicamente corretti”), né quelli che informano, direbbe Jung, il “conscio collettivo”, e neppure quelli che ispirano coloro che Umberto Eco, in un suo noto lavoro del 1964, definì “apocalittici e integrati”. I veri Spiriti del tempo possono essere quindi contraddetti dai tempi in cui si vive. Gli Spiriti del tempo regolari non agiscono infatti in superficie, ma nel profondo. Si ripropone qui dunque il problema del rapporto tra “questo mondo” e il mondo (il regno): cioè a dire, tra “questo tempo” e il tempo (i suoi spiriti regolari).
Fatto si è che chi comprende “sul serio” l’antroposofia, sa che Steiner è ancor oggi il più puro rappresentante di un’epoca che, per progredire, dovrebbe passare, dalla sua prima fase di sviluppo scientifico-naturale (legata all’ego), alla seconda scientifico-spirituale (legata al Sé spirituale).
Chi segue quanto andiamo pubblicando in questo “osservatorio”, avrà visto, per fare un solo esempio, come tutti i problemi rilevati da un rappresentante di prestigio del nostro tempo come Edoardo Boncinelli, nel suo Il cervello la mente e l’anima (11), potrebbero avviarsi a soluzione se ci si decidesse a prendere in considerazione le indicazioni fornite da Steiner. Ebbene, chi rappresenta meglio il nostro tempo? Boncinelli o Steiner?

Dice von Plato: “Dans un groupe, ce qui importe, c’est la rencontre avec l’autre et non la rencontre avec un livre, avec une conception du monde“.
(“In un gruppo, ciò che importa è l’incontro con l’altro e non quello con un libro, con una concezione del mondo”).

Ha scritto però Thomas Merton: “Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in se stessa. Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso “gli altri” in “incontri”, “aperture”, “solidarietà”, “comunione”. Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche l’”altro” è oggetto. Non c’è bisogno qui di descrivere l’enorme sforzo dell’epoca moderna per restaurare nell’uomo la consapevolezza del rapporto io-tu col suo simile. E’ veramente possibile una genuina relazione io-tu a un soggetto puramente cartesiano?” (12).
No, non è possibile, ci sentiamo di rispondere. Non facciamoci illusioni: possiamo incontrare l’altro che è fuori di noi solo se lo abbiamo prima incontrato dentro di noi. Ma chi è questo “altro” che è dentro di noi? E’ l’Io: ovvero, quell’Io (spirituale) in cui è presente e vivo il Cristo. L’ego, tuttavia, credendolo un “altro” o un “estraneo” (e non quindi – come sarebbe giusto – il suo stesso fondamento), lo teme, ed evita perciò d’incontrarlo. Volendo evitare d’incontrarlo e di mollargli le redini della propria esistenza ecco allora che s’ingegna di fare in modo artificioso tutto ciò che l’Io farebbe invece in modo naturale. Per questo, Merton parla – come abbiamo appena visto – di un “enorme sforzo dell’epoca moderna per restaurare nell’uomo la consapevolezza del rapporto io-tu col suo simile”.
In verità, non ci si può incontrare con l’altro che in Cristo, vale a dire in un “terzo”. Ma questo “terzo” può essere anche rappresentato, a un altro livello, da un libro o da una concezione del mondo. A patto, certamente, che un tale libro o una tale concezione del mondo (in quanto ispirato o ispirata dal Logos) promuova, più o meno implicitamente, un incontro del genere, e che valga per l’uno quanto vale per l’altro. Ogni discordia nasce dunque dal fatto che si vorrebbe andare d’accordo senza evocare, a questo fine, un “terzo”. Gli ego che vorrebbero così incontrarsi, prima o poi però si scontrano e dividono.
Per concludere, riteniamo sia utile ricordare che chiunque si assuma la responsabilità di presentare l’antroposofia al mondo deve muoversi cercando di evitare due opposti pericoli: quello del settarismo e quello della vulgata. Il settarismo è infatti arimanico poiché si fonda sull’antipatia e sull’esclusione; la vulgata è invece luciferica poiché si fonda sulla simpatia e sull’inclusione. Il primo è quindi freddo, scostante e rigido, mentre la seconda è calda e coinvolgente, ma smidollata o rammollita. Consapevoli di questo, occorre dunque procedere a mo’ di equilibristi tra questi due estremi, sfiorando talvolta il settarismo, talaltra la vulgata, ma sempre avanzando e sempre correggendo il tiro, così da non lasciarsi mai afferrare dall’uno o dall’altro degli ostacolatori.

Note:

01) Les Nouvelles de la Société anthroposophique en France, Mai-Juin 2002;
02) R.Steiner: Federico Nietzsche, lottatore contro il suo tempo – Carabba, Lanciano 1935;
03) R.Steiner: La mia vita – Antroposofica, Milano 1992, pp.17 e 18;
04) ibid., p.29;
05) ibid., p.55;
06) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, p.15;
07) R.Steiner: L’educazione, problema sociale – Antroposofica, Milano 1981, p.52;
08) U.Foscolo: I sepolcri, vv.151-154;
09) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
10) R.Steiner: Dell’iniziazione – Antroposofica, Milano 1985, p.18;
11) E.Boncinelli: Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000;
12) T.Merton: Lo Zen e gli uccelli rapaci – Garzanti, Milano 1970, p.32.

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Di Francesco Giorgi
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