Sul “buonismo”

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A un certo punto della nostra ultima nota, abbiamo scritto: “Cos’altro fanno infatti i cosiddetti “buonisti” se non preoccuparsi di essere “buoni” senza prima preoccuparsi di essere “veri”?” (1).
Ebbene, vogliamo tornare qui sulla questione nell’intento di vagliarne alcune implicazioni. Che cosa vuol dire, infatti, essere “veri”? Vuol dire essere l’Io che veramente si è. E non siamo forse l’Io che siamo? Lo siamo, ma non lo conosciamo e, non conoscendolo, non viviamo (esistiamo) come potremmo e dovremmo vivere. E come viviamo allora? Viviamo come ego. E che differenza c’è tra l’Io e l’ego? Che l’ego non è che l’immagine dell’Io riflessa dallo specchio corticale. E come tutte le immagini riflesse non solo restituisce la forma e non la vita, l’anima o l’essere del soggetto che si riflette, ma risente pure della natura dello specchio che la genera. Ne fanno fede quegli specchi cosiddetti “deformanti” in cui ci si può vedere più grassi o più magri, più alti o più bassi, di come si è in realtà. Ebbene l’Io, vedendosi nello specchio corticale, si vede come mera forma, o come mero non-essere, e non come realmente è (replica il Cristo ai Giudei: “Non è scritto nella vostra Legge: Io dissi: Voi siete dèi?” – Gv10,34). E’ comunque così che l’Io approda a una prima e basale coscienza di sé (alla moderna autocoscienza cartesiana). I problemi cominciano allorché il vuoto di quella forma o di quel non-essere viene materialisticamente colmato dalla sostanza o dall’essere del corpo fisico. E’ in questo modo che vede infatti la luce quella coscienza materiale o spaziale dell’Io che alcuni psicologi chiamano “io corporeo”, e che un filosofo come Remo Bodei dichiara essere il nostro vero Io (2). L’ego è dunque la forma dell’Io immaginata ricolma di sostanza materiale, e non spirituale. In altri termini, è una sorta di calice rovesciato in cui si riverbera quanto sta sotto, ma in cui non può riversarsi quanto sta sopra. In cui non si può insomma raccogliere, come nel calice di Giuseppe di Arimatea, il sangue del Cristo.
Ove rovesciassimo l’ego (a mo’ di negazione di una negazione), avremmo dunque l’Io e, nell’Io, troveremmo custodito il sangue (l’Io) del Cristo. Quanto sta subito sopra l’ego è quindi l’Io (spirituale), con la sua vita, la sua anima e il suo essere. Quell’essere chiamato da Steiner “Sé spirituale”.
Qui traluce qualcosa di ancor più profondo, dal momento che Steiner pone in rapporto indiretto (in quanto mediato, nell’ordine, dalla terza, dalla seconda e dalla prima “Gerarchia”) il “Sé spirituale” (o Manas) con lo Spirito Santo, lo “Spirito vitale” (o Buddhi) con il Figlio e l’”Uomo spirito” (o Atman) con il Padre.
Se riprendessimo dunque la nostra domanda iniziale: “Che cosa vuol dire essere veri?”, potremmo adesso rispondere: “Vuol dire essere il “Sé spirituale”, e vivere così in comunione con lo Spirito Santo“. Ovvero, con quello “Spirito di verità” che – come afferma il Vangelo – “insegnerà ogni cosa” (Gv14,26), ma che “il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv14,17). Sarà questo Spirito a ricordare agli uomini quello che ha detto il Figlio, e a renderGli così testimonianza. Lo Spirito Santo renderà dunque testimonianza al Figlio, così come il Figlio l’ha resa al Padre. “Non c’è nulla infatti di nascosto – si legge in Marco – che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce” (4,22).
E’ pertanto evidente che la sfera dello Spirito Santo, in quanto sfera della “verità”, deve essere posta in relazione con quella del pensare, e che quelle del Figlio e del Padre devono essere poste invece in relazione, rispettivamente, con la sfera del sentire e con quella del volere.
Ma se il Padre ha inviato il Figlio, e il Figlio ha inviato lo Spirito Santo (ex Patre per Filium), vuol dire allora che senza l’intercessione del terzo (della pura vita del pensiero) non si può ritrovare il secondo (la pura luce del sentire), così come senza l’intercessione di questo non si può ritrovare il primo (il puro calore del volere). “Se nell’epoca attuale – dice infatti Steiner – gli uomini non si volgeranno alla conoscenza spirituale, il Cristo andrà perduto. Finora il cristanesimo non faceva appello alla conoscenza. Il Cristo è morto per tutto gli uomini, non ha rinnegato gli uomini. Se oggi gli uomini lo respingono nella sfera della conoscenza, essi rinnegano il Cristo stesso” (3).
In questa luce, si può cominciare allora a capire il perché venga detto – sempre in Marco: “Tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna” (3,28-29).
Chi avrà “bestemmiato” contro la verità, non avrà modo infatti di ritrovare la bellezza e il bene, e non avrà perciò “perdono in eterno”. Specialmente il Cristianesimo orientale conosce e custodisce una “teologia della bellezza” (4) in cui si afferma e si ricorda che la bellezza è lo splendore del vero.
Orbene, Steiner, parlando del “messaggio pentecostale dell’antroposofia”, ha chiaramente alluso al rapporto tra il “sentiero della conoscenza” o la “via del pensiero” e lo Spirito Santo. Emblematica, da questo punto di vista, è la struttura stessa della sua opera fondamentale: La filosofia della libertà (5). Come ci capita spesso di sottolineare, questa si divide infatti in due parti: la prima, di carattere noetico, dedicata alla “Scienza della libertà”; la seconda, di carattere etico, dedicata alla “Realtà della libertà”. Già questo dunque ci indica che se l’uomo moderno non prende le mosse dalla “verità”, ossia dal pensiero e dalla scienza, mai arriverà al bene, ossia alla volontà e alla moralità. “Lasciate – ha detto ancora Steiner in una conferenza del 1918 – che ancora per trent’anni si insegni nelle nostre Università come si insegna oggi e avrete dopo questi trent’anni un’Europa devastata” (6).
In che cosa consiste dunque il “buonismo” cui ci siamo riferiti all’inizio? Nel volere fare del bene, ma non essere buoni, perché per essere buoni bisogna cominciare con l’essere veri, e per essere veri bisogna morire (“in Christo morimur“) e rinascere (“per Spiritum Sanctum reviviscimus“). “Chi non rinascerà per acqua e Spirito Santo – dice appunto Giovanni – non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è generato dalla carne, è carne; e quel che nasce dallo Spirito, è spirito” (Gv3,5-6). L’ego (naturalmente “bigenito”, e non spiritualmente “Unigenito”) è invece disposto, pur di preservarsi e di non dover rinunciare a se stesso, a simulare l’Io e a recitarne la parte (trasformandosi così – come il diavolo – in una “scimmia di Dio”).
“A un determinato momento, – scrive addirittura Massimo Scaligero – si sa che lo sforzo, le discipline, il rigore dell’ascesi sono mezzi dell’ego ancora incapace di realizzare la propria estinzione: che apra il varco all’Io Superiore. Questo è presente nell’Io di ogni momento, nell’ego che gli si oppone e perciò si sforza di sopravvivere mediante la concentrazione, mediante la meditazione, mediante l’ascesi. Occorre che l’ego esaurisca tutte le velleità di elevazione, perché questa elevazione si realizzi come sua morte, sua resurrezione” (7).
Il “buonismo” è dunque il moralismo tanto del non-cristianesimo dei credenti quanto del cristianesimo dei non-credenti (8). Il non-cristianesimo dei credenti – similmente al monoteismo – venera infatti il Padre, Gli assimila più o meno il Figlio e, dello Spirito Santo, pronuncia solo il nome. Il cristianesimo dei non-credenti stima invece l’uomo Gesù quale modello etico, e nulla sa, e nulla vuol sapere, del Dio uno e trino.
Il Padre dei primi (come peraltro l’etica dei secondi) sta dunque in rapporto con la volontà, e quindi con una sfera inconscia e trascendente (“Voi – dice infatti il Cristo ai Giudei – non avete mai sentito la sua voce, né visto mai il suo volto” – Gv5,37). Non a caso, Viktor Frankl, fondatore della “logoterapia”, seguace dell’Antico Testamento e importante punto di riferimento degli psicologi cattolici, ha dato a un suo lavoro appunto questo titolo: Dio nell’inconscio (9). Si ammette, dunque, che l’uomo possa, osservandone le leggi, volere il volere divino, che possa, in virtù dell’esperienza mistica, arrivare (pur se di rado) a sentire il sentire divino, ma non si ammette che possa, sviluppando la conoscenza spirituale, pensare il pensiero divino. Anzi, quest’ultima possibilità, in quanto “gnostica”, viene giudicata addirittura eretica. Stiamo qui parlando, ovviamente, del pensiero che vorrebbe liberamente indagare – come fa la scienza con quello naturale – il mondo spirituale, e non di quello del quale ci si serve per semplicemente apprendere catechismi o dottrine.
Ma lo Spirito Santo, in quanto “Spirito di verità”, e per ciò stesso Spirito del pensiero o della coscienza, non è forse “gnostico”? E perché dovrebbe essere allora eretico il ricercarLo o il muoverGli incontro?
Non verrebbe perciò da pensare che proprio l’anatema contro il pensiero libero, contro quella conoscenza che potrebbe permetterci di vedere “il cielo aperto, e gli Angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo” (Gv1,51), manifesti o inveri quella “bestemmia contro lo Spirito Santo, che non avrà perdono in eterno”?

Note:

01) Induzione e deduzione, 4 marzo 2003;
02) cfr. La consapevolezza di essere corpiIl Sole-24ore, 10 giugno 2001;
03) R.Steiner: Il messaggio pentecostale dell’antroposofia in Antroposofia, Rivista mensile di scienza dello spirito, anno XIII, n°2, 1958, p.46;
04) cfr. Pavel Evdokimov: Teologia della bellezza – S.Paolo – Cinisello Balsamo (Mi), 1990;
05) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
06) cit. in L’Archetipo – mensile di ispirazione antroposofica, anno VII, n°4, aprile 2002, p.20;
07) M.Scaligero: Manuale pratico della meditazione – Tilopa, Roma 1984, p.81;
08) cfr. nota: Europa, paura e vergogna, 14 febbraio 2003;
09) V.Frankl: Dio nell’inconscio – Morcelliana, Brescia 1975.

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Di Francesco Giorgi
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