Intelletto d’amore

I

Nel 1982, a due anni dalla scomparsa di Massimo Scaligero (1906-1980), la “Tilopa Editrice” pubblicò una raccolta di ricordi di alcuni suoi amici e allievi, con il titolo: Massimo Scaligero. Il coraggio dell’impossibile. Uno di questi, intitolato: Intelletto d’amore (datato 7 settembre 1981), era di Lucio Russo. Dal momento che il libro è da tempo introvabile, speriamo di fare cosa gradita ai nostri lettori riproponendo tale scritto, con alcuni ritocchi di mano dell’autore.

Nel 1970, per ragioni di lavoro, mi recavo spesso dalle parti di piazza Navona. Strada facendo, ero solito soffermarmi a guardare le vetrine di alcune librerie della zona. Una di queste, era la libreria Maraldi di corso Rinascimento. Vi si potevano trovare delle occasioni e non mancavo mai, per questo, di darle un’occhiata.
Sin dalla prima volta, in una delle vetrine, in alto a destra, avevo notato un libro dalla copertina rossa, intitolato: Il marxismo accusa il mondo, di un certo Massimo Scaligero.
Col tempo, tra me e quel libro si era venuto a creare un insolito rapporto. Non mi risolvevo ad acquistarlo né desideravo forse farlo: sembrava mi bastasse ritrovarlo sempre lì, in quell’angolo, e lavorare di fantasia intorno al suo contenuto e al suo autore. Riguardo a quest’ultimo, rammento di essermi più volte domandato: “Chi sarà? Un politico? Un giornalista? Sarà di destra o di sinistra? Giovane o anziano?”.
Un giorno, però, non trovai più il libro. La vetrina era stata rinnovata e quel volume era scomparso.
Circa un anno dopo, nella notte del 3 ottobre del 1971, feci questo sogno. Veniva a trovarmi un amico per comunicarmi che non si sa quale importante personaggio mi faceva le sue congratulazioni per il lavoro che avevo svolto fin allora. Subito dopo, aggiungeva: “Ora, dovresti occuparti del Graal”.
Questa esortazione destò la mia più profonda meraviglia. Ciò che più mi sorprese e colpì, in particolare, fu l’indicibile senso di venerazione suscitato in me dall’udire il nome del Graal. Anche nei giorni successivi, mi accorsi che bastava rievocare interiormente quel nome per risuscitare una eco di quello straordinario sentimento.
Lo stupore fu grande. Ricordavo – è vero – di aver letto qualcosa, a proposito del Graal, in qualche libro di Jung, ma sapevo trattarsi solo di sparsi e brevi accenni oltre i quali ero certo di non sapere alcunché.
Mi parve quindi opportuno consultare l’amico del sogno per chiedergli dei suggerimenti e, soprattutto, delle indicazioni bibliografiche.
Anche lui, però, conosceva soltanto ciò che aveva detto Jung. Tanto per cominciare, mi suggerì comunque di leggere un volumetto di Claude Levi-Strauss, intitolato: Razza e storia e altri studi di antropologia.
Mi procurai subito il libro; lo lessi avidamente ma ne rimasi profondamente deluso. Al cospetto dell’aura sacra del sogno, le dotte considerazioni di Levi-Strauss mi parvero astratte, pedanti, se non addirittura blasfeme.
Pensai, allora, che sarebbe stato forse utile tornare a consultare con maggiore attenzione Jung. Acquistai e lessi poi diverse raccolte di leggende del ciclo di Artù e del Graal. Ritenni inoltre necessario risalire alle fonti e, a tal fine, mi procurai i testi di Chrétien de Troyes, Wolfram von Eschenbach e Richard Wagner.
Consultai infine altri autori, tra i quali: Paolo M.Virio, Gustav Meyrink, René Guenon e Julius Evola.
A questo punto, ne sapevo sicuramente di più; ero ben lontano, tuttavia, dall’aver trovato ciò che cercavo: qualcosa, cioè, che mi aiutasse a intendere il senso dell’invito rivoltomi nel sogno.
Ultimo – non ricordo come – mi venne tra le mani un altro libro. Era intitolato: Graal. Saggio sul Mistero del Sacro amore e il suo autore era un certo Massimo Scaligero…”un certo Massimo Scaligero”: non realizzai subito la coincidenza.
Più tardi, allorché mi resi conto che si trattava dello stesso sconosciuto autore del libro della vetrina di Maraldi, la curiosità crebbe a dismisura e, con ingenua foga, mi tuffai nella lettura.
Ne ricavai, tuttavia, un insolito senso di frustrazione: per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capirlo. Non era certo il primo libro che leggevo; eppure, sembrava quasi che fosse così. Gli altri si lasciavano leggere, questo no: era diverso, strano, apparentemente impenetrabile.
Dal momento del sogno, erano già trascorsi alcuni mesi. L’estate era alle porte e decisi d’impormi una pausa. Sentivo di aver bisogno, non di altri libri, ma di raccoglimento. Era necessario aspettare, riflettere e meditare.
Giunse così ottobre. Una sera, seduto nel mio studio, avevo di nuovo in mano il libro di Scaligero. Ero intenzionato a rileggerlo: la brama di sapere e capire aveva ormai perso la sua iniziale irruenza e mi sentivo più sereno e pronto a ritentare.
Quella sera, accadde ciò che che avevo sperato: il sigillo si dischiuse, il libro cominciò a parlarmi e sorse finalmente nell’anima il sentimento tanto atteso: ecco la via!
L’equivoco del mio primo incontro col libro si fece allora chiaro. Non poteva essere letto come tutti gli altri: là si parlava del Graal; qui era il Graal a parlare.
Quella stessa sera, decisi di conoscerne l’autore. Grazie al gentile aiuto del dott. Marcello Carosi, da qualche tempo nostro medico di famiglia, riuscii a mettermi in contatto telefonico con Massimo Scaligero. Era il 1972. L’appuntamento fu fissato per le ore 16 del giorno 11 novembre.
E’ così che ho conosciuto Massimo: la guida, l’amico.
Il destino, che con tanta discrezione aveva approntato l’incontro, aveva in serbo, per me, un altro insperato dono. Pur così impegnato, Massimo riuscì infatti a fissarmi un appuntamento ogni quindici giorni.
Così, per sette anni, due volte al mese, ho puntualmente raggiunto il suo studio, all’ultimo piano della palazzina di via Cadolini, dove sono stato da lui fraternamente accolto e intrattenuto per circa tre quarti d’ora.

Incontri del genere non si fanno perché li si merita, bensì per poterli meritare.
Proprio Massimo ha scritto: “Chi cerca seriamente la verità, non ha bisogno di essere persuaso: è lui che persuade se stesso perché si muove, indaga e studia, approfondisce e medita: non deve aspettarsi che la verità gli venga consegnata come un oggetto, rimanendo egli immobile a lasciarsi persuadere. Chi cerca il Divino deve muoversi verso esso, e in tale movimento il Divino già opera”.
In questo senso, sentivo che dipendeva anzitutto da me rendere o meno decisivo tale incontro.
A vent’anni, mi si era d’improvviso risvegliata un’ardente voglia di conoscere. Ne avevo adesso trentadue e potevo ben dire di aver bruciato le tappe. Ero stato dapprima un convinto marxista; avevo poi fatto mia, e in parte sperimentato, la psicoanalisi freudiana; avevo infine già svolto e completato un regolare tirocinio junghiano. Erano stati dodici anni di fuoco, ricchi di studi e di esperienze umane, di entusiasmi e delusioni, di crisi e rinnovamenti.
A quel punto, interrogandomi circa il senso di questo ciclo della mia avventura interiore – ciclo che, con l’incontro di Massimo, avvertivo in qualche modo compiuto – finii pian piano col realizzare che tra le esperienze del passato e quella che mi accingevo ad affrontare c’era, a dispetto delle apparenze, un essenziale elemento di continuità.
Marxismo, psicoanalisi e psicologia analitica, seppure in modo diverso, muovevano infatti dal riconoscimento del grave stato di alienazione e disagio dell’uomo contemporaneo e si candidavano, più o meno esplicitamente, quali terapie di tale morbosa condizione.
Capivo di essere stato di volta in volta attirato nell’ambito delle loro orbite proprio da questo elemento antropologico: denunciavano il male umano e si proponevano di risolverlo.
Fatto si è, tuttavia, che un male può essere curato solo se viene ben diagnosticato; ed ero certo, ormai, avendole sperimentate su di me, che tali terapie, quando non aggravavano addirittura il male (Marx e Freud), si limitavano a lenirlo (Jung).
Se le terapie si erano dimostrate controproducenti o inefficaci, le diagnosi dovevano allora essere considerate errate o insufficienti.
Ecco quindi che, dall’interesse antropologico, riemergeva quello conoscitivo.
Quando, a ventitrè anni, mi era capitato di ascoltare, per la prima volta, una conferenza sulla psicoanalisi, si era verificato un curioso episodio. Al termine della sua esposizione, il relatore (Fausto Antonini) aveva invitato i presenti a intervenire per dar vita a un dibattito. Ricordo di aver chiesto allora la parola, domandando: “Professore, la psicoanalisi può rendere felice l’uomo?”.
Mi rendo conto che un interrogativo del genere non può, per la sua ingenuità, che far sorridere. Eppure, circa dieci anni dopo e sebbene in altri temini, lo stavo riproponendo a Massimo: “Qual è la vera radice del male umano? E’ possibile guarirlo? E’ possibile una conoscenza che non tradisca, che colga davvero la realtà?”.
Per Marx e Freud, la realtà era costituita dal solo mondo fisico e corporeo, percepito mediante i sensi; a questa, Jung aggiungeva la realtà dell’anima, ma, non volendo ammetterne altra, finiva con l’intrappolarsi in un soggettivismo e in un relativismo che vanificavano ogni speranza di dare risposta agli interrogativi ultimi.
Oltre l’anima, non poteva esserci che lo spirito: ma come conoscerlo e obiettivamente sperimentarlo?
Massimo si mostrò subito interessato a questi problemi e mi sorprese confidandomi di aver pronto il dattiloscritto di un suo lavoro sull’argomento. Il libro uscì due anni dopo, nel 1974, con il titolo: Psicoterapia. Fondamenti esoterici. Nella stessa occasione, mi confessò di averlo scritto nell’intento di offrire agli psicoterapeuti l’opportunità di conseguire una più profonda consapevolezza dei fondamenti della loro attività.
Gli chiesi molto presto: “Se è stato possibile, grazie all’insegnamento di Steiner, “un ampliamento dell’arte medica”, perché non dovrebbe essere possibile un ampliamento dell’arte psicoterapeutica?”. Mi rispose: “E’ possibile. Ma solo una vera conoscenza di sé può trasformare e guarire: e questa è impossibile senza una vera conoscenza della realtà precerebrale e vivente del pensiero. Chiunque proceda lungo il sentiero della conoscenza diventa un terapeuta”.
Nel dicembre del 1969, in un breve articolo pubblicato sul mensile Mondo Giovane, avevo scritto: “Comprendere la psicoanalisi significa andare al di là della psicoanalisi; significa muovere i primi passi e inoltrarsi senza paura nell’ignoto sentiero dell’anima umana; significa procedere a una prima formulazione della scienza dello spirito; significa cogliere, come luce di un faro, i segni di una sponda lontana che, indirizzando e orientando il nostro incerto cammino, consenta di approdare a nuovi livelli di esperienza e di esistenza”.
Accanto a Massimo, e con il suo aiuto, potevo adesso comprendere che non occorreva alcuna “prima formulazione della scienza dello spirito” poiché questa già esisteva. Rudolf Steiner, infatti, aveva già messo a disposizione di tutti i frutti della propria ricerca spirituale e le chiavi del suo metodo.
“Molti – mi confidò in proposito Massimo – credono che io abbia letto chissà quali e quanti libri di Steiner. In realtà, ne ho forse letti meno di altri. Il segreto è un altro: ho afferrato il metodo”.
La ricerca spirituale esige, in effetti, ancor più serietà, impegno e senso di responsabilità dell’ordinaria ricerca scientifica.
“Qualcuno – mi disse una volta Massimo – ci crede dei metafisici. In realtà, i veri empiristi siamo noi”.
Per questo, mi ricordava instancabilmente la necessità dell’esercizio interiore. Talvolta, era perfino capitato che, in risposta a qualche mia domanda, mi avesse soltanto detto: “Non ti preoccupare, pensa a fare gli esercizi”.
All’inizio, confesso di esserci rimasto quasi male. Solo dopo un certo tempo, riuscii infatti a realizzare la saggezza di quel comportamento. Ciò che voleva farmi capire, lo si potrebbe formulare all’incirca così: “Non ti affannare, preoccupati piuttosto di stabilire un contatto con lo spirito, e vedrai che, a quella sorgente, potrai attingere tutte le idee di cui hai bisogno”.
Con questo modo di fare, Massimo non dava, in sostanza, che pratica attuazione a una nota esortazione evangelica: “Cercate il regno dei cieli, e il resto vi sarà dato per giunta”.
A un certo stadio del cammino – non saprei né potrei dire quando – mi resi conto che l’iniziale problema della psicoterapia era venuto svelando un significato più profondo e drammatico.
La sapienza della Tradizione conosceva l’uomo come un essere fatto di corpo, anima e spirito. Ma il Concilio di Costantinopoli dell’869 d.C. dichiarò eretica questa dottrina. Stabilì, infatti, che la costituzione umana era fatta solo di corpo e anima, tentando così di cancellare, dalla coscienza umana, la realtà dello spirito (dell’Io).
Oggi, in primo luogo per mezzo del materialismo e delle scienze che gli sono asservite, è però in atto un secondo tentativo: quello di cancellare, dopo la realtà dello spirito, la realtà dell’anima.
Ogni cosa nasce dallo spirito. Da questo punto di vista, le forze ostacolatrici sono impotenti: non possono creare; possono unicamente afferrare il creato e volgerlo, in forma di negazione, contro le forze creatrici.
La psicologia e la psicoterapia, scaturite dallo spirito quali moderni impulsi per una più profonda autocoscienza, sono state purtroppo ghermite e costrette a rinnegare il loro scopo: occorre liberarle, redimerle, restituirle allo spirito.
Un simile impegno è tuttavia illusorio se non viene anzitutto liberato lo strumento stesso dell’azione, il pensiero, dalla sua inconscia dipendenza dal cervello e dagli organi di senso fisici. Se c’è un segreto da conoscere, è questo: il pensiero vincolato al sistema neuro-sensoriale può soltanto riprodurre all’infinito i propri limiti e la propria soggezione: non può affrancare nulla se non affranca prima se stesso.
Il nostro tempo esige l’umiltà della milizia spirituale: su ogni fronte, quanto dallo spirito nasce, allo spirito deve tornare.
In ciascuno, i più temibili avversari dell’impresa sono la menzogna e l’amore di sé. Queste forze costituiscono d’altro canto una prova: non vi è speranza di superarle, infatti, se non si è stati in grado di riconoscerle in se stessi. L’anima è a un tempo il terreno e la meta della lotta: occorre superarsi per ritrovarsi e potersi davvero finalmente trasformare.
Confidavo questi e altri pensieri a Massimo ed egli pazientemente mi ascoltava, talora correggendomi, sempre incoraggiandomi. Il ricordo più bello che ho di lui appartiene a questo periodo.
Al termine di un incontro, mi aveva accompagnato come sempre alla porta per salutarmi. Sulla soglia, mi porse la mano, ma, come assorto, la trattenne più a lungo del solito nella mia. Poi il suo sguardo si riaccese, mi fissò e, posandomi affettuosamente l’altra mano sulla spalla, mi disse: “Ricordati, il Cristo è tutto! Te lo dico perché sei un uomo di conoscenza. Fossi stato un mistico non te lo avrei detto”.
In queste parole, avverto tuttora impressa la prima caratteristica dell’opera di Massimo: l’assoluta fedeltà all’essenziale. Quasi tutti i suoi libri non sono che un’incessante e devota meditazione de La filosofia della libertà.
Ne La scienza occulta, Steiner ha scritto: “La via che conduce al pensiero libero dai sensi, per mezzo delle comunicazioni della scienza dello spirito, è completamente sicura. Ve ne è un’altra anche più sicura, e specialmente più esatta, sebbene sia per molti uomini più difficile. Essa è descritta nei miei libri Linee fondamentali di una teoria della conoscenza goethiana del mondo e La filosofia della libertà”.
Questa via “più difficile” era quella di Massimo: la più diretta, la via solare dei discepoli di Michele-Cristo.

Nel suo piccolo studio, modesto e luminoso, Massimo ha testimoniato, con la sua stessa vita, l’assoluta abnegazione richiesta dal compito. Neppure d’estate, quando quasi tutti si concedono un meritato riposo, interrompeva i suoi incontri e colloqui.
Una volta, era un pomeriggio di metà agosto, si rese necessario anticipare il nostro incontro alle 15. Giunsi puntuale. Mi accolse come sempre sorridente, mi fece sedere e poi, raggiunto il suo posto, dietro una piccola scrivania sempre ricolma di libri e carte, guardandomi disse: “Fintantoché ci saranno due persone che s’incontrano alle 15 di Ferragosto per parlare dello spirito, la vittoria è sicura”.
La foga con la quale avevo affrontato i primi incontri era ormai solo un ricordo. Adesso, quando ci vedevamo, non parlavamo molto e dedicavamo alla comune meditazione l’ultimo quarto d’ora del nostro tempo.
Al primo incontro, Massimo mi aveva regalato due dei suoi libri; via via, avevo poi acquistato e letto tutti gli altri. Mi suggeriva e consigliava ogni tanto degli autori o dei titoli. Ricordo con quanta gioiosa sorpresa reagiva quando gli dicevo che ero riuscito a trovare i testi che mi aveva indicato, nonostante si trattasse, per lo più, di libri da tempo esauriti.
Tra gli autori che ho conosciuto grazie a lui, mi piace ricordare: Ernst Wiechert, Charles Morgan (Massimo prediligeva il suo romanzo La fontana), Dmitrij Merezkovskij, Ernesto Marcus, Carlo Michelstaedter, Arturo Onofri, Alessandro Becciani ed Herbert Fritsche.
Avevo cominciato a indirizzargli delle persone e, qualche volta, parlavamo di queste comuni conoscenze. Gli avevo anche presentato mia moglie e i miei due bambini. Al più grande, Emiliano, regalò una piccola edizione dei Vangeli: un dono che mio figlio custodisce ancora gelosamente.
Non ignoravo quanto Massimo fosse provato dal suo fisico e sempre, quando arrivavo, gli chiedevo come si sentisse; mi rispondeva quasi sempre con una battuta. Negli ultimi tempi, mi era però apparso un po’ stanco. Una sola volta, mi confessò: “Non riesco a trovare tempo per me”.
La sua stessa generosità lo consumava. Teneva testa a un’enorme mole di lavoro: libri, lettere, telefonate, colloqui, incontri. Nonostante il suo stato di salute, era sempre là, dietro la sua scrivania, a disposizione di tutti.
Durante i nostri incontri, ero contento di potergli consentire una pausa. Non gli parlavo quasi più di me, bensì gli chiedevo della sua vita e delle sue esperienze. Come testimoniano alcuni dei suoi libri, Massimo era molto attento a tutti gli aspetti della vita contemporanea. Talvolta, commentavamo anche dei fatti politici.
Prima di salutarmi, mi faceva spesso un regalo: fotocopie di articoli che aveva giudicato importanti e, soprattutto, di conferenze inedite di Steiner.
Desiderava conoscere quanto andavo pubblicando ed era lieto quando gli portavo una copia de Il Minotauro con qualcosa di mio. Ci si era ormai capiti e, per questo, riuscivamo a stare vicini anche senza parlare. In quei momenti di raccolto silenzio, osservandolo, giungevo sempre alla stessa conclusione: di fronte a me, avevo un uomo nel quale la conoscenza si era fatta bontà.
Come un frutto è la metamorfosi di un fiore, così la sua bontà era la metamorfosi di una conquista di pensiero. Il Sole, a un tempo, illumina e riscalda: la luce è calore e il calore è luce. Soltanto nell’uomo queste due forze ordinariamente si dividono. La luce si dirige in alto e, riflessa, si manifesta come pensiero; il calore si dirige in basso e, individuandosi, si manifesta come vita e volontà. Diviso dalla vita e dalla volontà, il pensiero si fa astratto e impotente; divisa dal pensiero, la volontà si fa cupida ed egoista. Il compito è dunque quello, muovendo dal pensare, di riunire coscientemente e liberamente ciò che, per l’evoluzione umana, fu necessario un tempo dividere. Il volere nel pensare si traduce nella libertà; il pensare nel volere si traduce nell’amore. E dal ritrovato accordo del pensare col volere risorge il sentire originario quale armonia o musica celeste.
Nei momenti di raccoglimento dei nostri incontri, mi è stato talvolta concesso di udire una eco di questa vita del sentire. Uscito dal suo studio, mi ritrovavo ogni volta più deciso, più forte, più grato. E questo, non tanto per ciò che si era detto quanto per ciò che mi era stato dato direttamente percepire.
Ai miei occhi, Massimo è apparso come un’icona o una vivente testimonianza dell’Intelletto d’amore.
I suoi scritti, a prima vista difficili, hanno lo stesso rigore e la stessa trasparenza dei trattati di logica matematica. Se però si riesce, vincendo l’inerzia della nostra personale natura, a muovere il pensiero in sintonia con il loro svolgimento, si verifica allora il miracolo: i numeri prendono vita, si dischiudono e, sbocciando, liberano una sonorità che trasmuta il processo logico in processo armonico.
Un giorno, gli chiesi: “Tra tutti quelli che hai scritto, qual è il libro cui ti senti più legato?”. Ci pensò un attimo, poi mi rispose: “Forse, Dell’Amore immortale”.
Questa risposta non mi sorprese; fu piuttosto una conferma: potrei dire di essermela aspettata. Dell’Amore immortale è infatti un libro unico, straordinario: più che un libro, è un canto d’amore. Solo un’anima amante poteva averlo concepito e scritto.
Afferma la teologia ortodossa: “La bellezza è lo splendore del vero”. Ebbene, nel Dell’amore immortale più pienamente si scopre come il pensiero vivente si faccia appunto bellezza, arte, poesia.
Si sa, tuttavia, che il terreno sul quale fruttifica l’amore può essere fertilizzato soltanto dal dolore. Solo chi ha imparato a portare la propria croce può infatti sperare di poter aiutare gli altri a portare la loro.
“Il dolore – mi disse Massimo, un giorno – è un’idea che non s’incarna”.
Quello stesso giorno compresi quanto avesse dovuto sopportare, e ancora sopportasse, di afflizione e pena.
Un’anima che cresce e si sviluppa non fa che dilatarsi e universalizzarsi. E’ un respiro che tende, nel suo moto di espansione, a coincidere col cosmo. Per questa via, l’anima non sente più altra o estranea la realtà del mondo: sua diventa la gioia del mondo e degli esseri, sua la loro tribolazione o sofferenza.
Per poter sopportare un simile superamento degli egoistici argini entro i quali scorre l’ordinario sentire, occorre molta forza, ma, soprattutto, la capacità di abbandonarsi volontariamente all’abbraccio di quell’unico Essere che ha portato per tutti la croce e vinto, così, il male del mondo.
“Ricordati, il Cristo è tutto!”…Massimo caro, vola pure sereno incontro al tuo nuovo destino: me ne ricorderò, ce ne ricorderemo.

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Di Lucio Russo
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