Schopenhauer: annotazioni in margine

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La lettura della bella biografia di Schopenhauer scritta da Rüdiger Safranski (1) ci ha spinto a fare alcune riflessioni che vogliamo qui riportare, in ordine sparso, augurandoci che possano interessare quanti sono seriamente impegnati nello studio dell’opera di Rudolf Steiner e, in specie, de La filosofia della libertà(2).
Il mondo come volontà e rappresentazione (3): è questa – com’è noto – l’opera della quale andava soprattutto fiero Schopenhauer. Ma come va intesa tale “volontà”?
“Schopenhauer – spiega Safranski – sapeva di concepire nel suo scritto il concetto di “volontà” in modo diverso dall’usuale. Il concetto di volontà della tradizione filosofica – ma anche l’uso comune del termine – collegavano “volontà” a “intenzione”, “fine”, “scopo” (…) Intesa in questo modo la “volontà” è intellettualizzata (…) Schopenhauer dovette combattere contro la corrente delle associazioni spontanee legate al concetto di “volontà”. Egli voleva infatti che la volontà intellettualizzata fosse concepita solo come caso limite. La volontà può essere accompagnata dalla conoscenza ma ciò non è per lei essenziale. La volontà è una tendenza, un movimento primario e vitale che nel caso limite può anche divenire consapevole di se stessa e che solo dopo acquista coscienza di uno scopo, di un’intenzione, di un fine. E’ importantissimo comprendere esattamente Schopenhauer su questo punto perché altrimenti gli si potrebbe imputare – nello stile della filosofia della riflessione – di voler proiettare la volontà intenzionale, ovvero lo spirito, nella natura. Ma vero è, piuttosto, il contrario: Schopenhauer non voleva spiritualizzare la natura, bensì naturalizzare lo spirito” (4).
La volontà, dunque, come (immanente) forza metafisica priva di forma ideale e di sostanza materiale: “Il mondo come cosa in sè – dichiara infatti – è una grande volontà che non sa cosa vuole; esso infatti non sa, ma vuole soltanto, proprio perché è una volontà e nient’altro” (5).
Egli lancia perciò i suoi (velenosissimi) strali tanto contro la filosofia idealistica (la “filosofia della riflessione”) quanto contro quella materialistica, che non solo considera una “filosofia per garzoni di barberia e apprendisti farmacisti” (6), ma che arriva addirittura a designare come “bestialismo” (7).
Come può essere caratterizzata, dal punto di vista della scienza dello spirito, una forza del genere? Non è difficile: come un volere del tutto privo di pensare.
Essa appare infatti a Schopenhauer non solo come “una sostanza priva di Dio e di finalità” (8), ma anche come una forza che “non è spirito che si realizzi, bensì impulso cieco, esuberante, privo di scopo, autodivorante e privo di trasparenza in vista di qualcosa di pensato e di significativo” (9).
Tuttavia, chiunque osservi meno unilateralmente la natura noterà di certo che nelle creature che la popolano il volere è tutt’uno col pensare o che la forza è tutt’una con la forma.
“Ogni pianta – afferma del resto lo stesso Schopenhauer – ci narra, a tutta prima, della propria patria, del clima di questa, della natura del suolo da cui è uscita (…) Inoltre, ogni pianta esprime ancora la volontà speciale della sua specie, e dice qualcosa, che non si può esprimere in nessuna altra lingua” (10).
E cos’altro è una “volontà speciale” se non una forza determinata da una forma o da un’idea vivente (da una “specie”)?
Scrive in proposito Steiner: se “dobbiamo afferrare il concetto di volontà, esso deve pure apparirci nel contenuto dell’idea; può apparire soltanto nell’idea e con l’idea, quale forma del suo manifestarsi, non mai indipendentemente (…) Perciò, secondo Goethe, l’idea va intesa quale entelechia, vale a dire già come un’esistenza attiva” (11).
Si prenda dunque un’idea vivente o un’entelechia, la si sprema come fosse un agrume e si otterranno così, da una parte, il succo, ossia la forza senza forma della volontà e, dall’altra, la scorza, ossia la forma senza forza della rappresentazione: guarda caso, proprio le due categorie che racchiudono il mondo di Schopenhauer.
In un contesto del genere, la volontà (la forza) viene ovviamente sperimentata come un essere, la rappresentazione (la forma) come un non-essere e gli esseri umani come dei “galeotti della volontà” (12). Per il filosofo di Danzica, – scrive appunto Safranski – “l’essere non era altro che “cieca volontà”, qualcosa di vitale, ma anche di opaco che non rinviava a nulla di inteso di voluto. Il suo significato risiedeva nel fatto di non avere significato, ma di essere solamente” (13).
Nell’” essere senza essere rappresentato – scrive ancora – si nascondeva, per Schopenhauer, la volontà” (14). Già, ma questo essere che i minerali, i vegetali e gli animali non possono rappresentarsi, e che gli esseri umani, proprio per il fatto di poterselo rappresentare, sperimentano come un non-essere, non potrebbe (grazie alle indicazioni della scienza dello spirito) venire da questi sperimentato diversamente? Non più, cioè, nel modo spento e riflesso dell’ordinaria rappresentazione, ma in quelli consoni a quei gradi della conoscenza viva e superiore che Steiner denomina “immaginativo”, “ispirativo” e “intuitivo”?
Fatto si è che i minerali, i vegetali e gli animali in tanto non sono liberi in quanto, in essi, l’essere determina immediatamente l’esistere, mentre gli uomini lo sono poiché, in loro, è la natura della coscienza dell’essere, e non l’essere, a determinare quella dell’esistere; e la natura insensata, bramosa ed egoistica della vita moderna – così spietatamente messa in luce da Schopenhauer – è per l’appunto determinata, non dall’Io, ma dalla coscienza rappresentativa dell’Io.
A Fichte, – rammenta in proposito Safranski – Kant “aveva insegnato il punto di vista trascendentale, il metodo, cioè, di considerare innanzitutto – dinanzi a ogni oggetto percepito o conosciuto – il soggetto percepiente e conoscente. Kant gli aveva insegnato anche che la miglior risposta alle classiche domande “Cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa posso sperare?”, scaturiva da una quarta domanda: “Che cos’è l’uomo?” e dalla risposta che a essa si dava. Fichte credette di aver trovato questa risposta, desumendo dall’affermazione kantiana, “l’”io penso” deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”, il concetto di un Io onnipotente e, muovendo di qui, sviluppando un’idea complementare del mondo di un’audacia inaudita secondo cui il mondo stesso altro non era che il prodotto delle “azioni” di questo Io (…) Questa scoperta dell’Io come centro del mondo aveva avuto su di lui l’effetto di un colpo di fulmine…” (15). “Questi costrutti – osserva poi – non possono che apparire mostruosi a chi ritenga che il discorso volga qui al nostro io empirico e afferrabile per via psicologica” (16); a chi ritenga, in altre parole, che si riferisca all’ego e non all’Io (spirituale).
Per la scienza dello spirito, infatti, l’ego costituisce il soggetto della coscienza rappresentativa dell’Io (o dell’autocoscienza rappresentativa), mentre l’Io costituisce il soggetto della coscienza intuitiva dell’Io (o dell’autocoscienza intuitiva): ovvero, il soggetto attivo a un grado di coscienza in cui l’intuente e l’intuito coincidono, e in cui perciò – per dirla con Safranski – “non si ha la verità, si è la verità” (17) (allo stesso riguardo, ma in riferimento al platonismo, dice pure: “Il simile va al simile, ovvero: attraverso la conoscenza diventiamo simili al conosciuto. Il modo migliore di vedere il sole è quello di diventare noi stessi il sole”) (18).
Fichte, “fulminato” dalla scoperta dell’Io, ha preso dunque le mosse dall’essere e ha cercato invano di discendere da questo all’esistere, mentre Steiner ha preso le mosse dalla coscienza dell’esistere ed è riuscito a risalire da questa alla coscienza dell’essere, chiarendo su quale tipo di pensiero si fonda la prima e quali strumenti teorico-pratici è necessario utilizzare per educare e sviluppare quelle superiori modalità pensanti che conducono grado a grado alla seconda.
Se Fichte muove dunque, in modo filosofico, dall’alto in basso (dall’Io al mondo), Steiner muove viceversa, in modo scientifico-spirituale, dal basso in alto (dal mondo all’Io), cominciando in primo luogo a risalire dalla rappresentazione, o dal “pensato”, al pensare.
Scrive ancora Safranski: “Nell’abituale critica della ragione si dimenticano spesso il piacere, l’intensità, il vitalismo cui si legò la scoperta dell’io creatore del mondo. (…) Si può capire l’euforia del raggiungimento solo se si tiene conto di quella sorta di segretezza dell’io propria dell’epoca premoderna. Il pensare, il credere, il sentire erano allora – come ha insegnato Foucault – polarizzati diversamente. Il pensiero scompariva nel pensato, la sensazione nel sentito, la volontà nel voluto e il credo nel creduto” (19).
E’ vero; ma come mai, oggi, non vi è più traccia di quella “euforia”? Come mai si è passati – potremmo perfino dire – dalla “mania” di allora (degli “anni selvaggi della filosofia”) alla “depressione” del presente?
Per la semplice ragione – ci sentiamo di rispondere – che non si è stati capaci, passando dall’anima razionale o affettiva (filosofica) all’anima cosciente (scientifica), di liberare davvero (“raddrizzando la via del Signore” – Gv 1,23) il credere dal creduto, il volere dal voluto, la sensazione dal sentito e, innanzitutto, il pensare dal pensato. Si è abbandonato così il campo alla scienza naturale che, a causa del proprio orientamento materialistico, ha fatto presto riscomparire il pensiero nel pensato, la sensazione nel sentito, la volontà nel voluto e il credo nel creduto: che, in breve, ha fatto riscomparire l’Io (e l’anima) nel cervello, o in tutto il corpo.
“Goethe – osserva al riguardo Safranski – era afflitto dal timore che la poesia potesse perdere il suo diritto di cittadinanza nel regno della verità, che l’”empiria dolce” potesse essere esiliata dal procedimento rozzo, senza cuore, ma efficace sul piano pragmatico, della “scienza”. Tuttavia, nella battaglia difensiva che credeva di dover sostenere, egli non voleva diventare un Tasso a guardia di postazioni perdute a priori di fronte agli uomini di mondo. Egli non voleva difendere dei confini contro la scienza, bensì portare lo spirito della poesia nella scienza stessa; voleva contendere l’aspirazione all’autorità della scienza sul suo stesso terreno; e non intendeva difendere ma portare l’attacco al cuore dell’avversario” (20).
Ma è solo muovendo dall’anima cosciente che si può “contendere l’aspirazione all’autorità della scienza sul suo stesso terreno”, e opporre così a una scienza che si è andata sempre più estraniando dalla realtà umana (“antropofuga”, direbbe Ulrich Horstmann) (21) una scienza integralmente “umana”: cioè a dire, una scienza fatta dall’uomo per l’uomo.
“Goethe – continua infatti Safranski – portò questo attacco e potè portarlo solo perché guidato dallo spirito del suo ideale di personalità: ogni sapere che non riuscisse a racchiudere in sé l’accordo delle molteplici aspirazioni e disposizioni dell’uomo, ogni scienza nella quale “sensibilità e ragione, immaginazione e intelletto” non si fondessero in una “chiara unità” gli apparivano indegni dell’uomo, una caricatura dell’idea di verità” (22).
Orbene, quando parliamo di approccio “scientifico-spirituale” intendiamo proprio questo. Non è un caso, d’altronde, che Steiner, per elaborare la scienza dello spirito a orientamento antroposofico, abbia preso l’abbrivio dalle opere scientifiche di Goethe.
Sempre Safranski ricorda che un essere puramente sensibile, secondo Rousseau, “non avrebbe potuto in alcun modo afferrare la natura di un oggetto che egli avesse allo stesso tempo visto e toccato. La cosa vista e quella toccata gli sarebbero apparse due cose distinte. Solo l’io le poteva riunire. L’unità dell’io garantiva l’unità degli oggetti esterni” (23); che già Kant parlava di una “immaginazione produttiva”, ritenendo che “l’immaginazione” fosse “un ingrediente necessario della percezione” (24); e che Schopenhauer, nel 1837, inviò un suo scritto alla Reale accademia norvegese delle scienze di Drontheim che aveva messo a concorso la questione: “Può l’autocoscienza dimostrare la libertà della volontà umana?” (25).
Ebbene, non sono questi i problemi affrontati e risolti da Steiner ne La filosofia della libertà? Non è proprio quest’opera a indicarci che l’Io garantisce “l’unità degli oggetti esterni” unificando, mediante i concetti, la molteplicità degli stimoli sensoriali e degli impulsi nervosi che originano dalle percezioni? O che è “l’immaginazione” a rendere possibili le rappresentazioni, le immagini percettive, mnemoniche e oniriche (o quant’altro è prodotto, in modo sano o morboso, dalla fantasia)? E non è appunto al suo inizio che Steiner si domanda: “Può l’uomo, in quanto essere volitivo, attribuire a se stesso la libertà, oppure questa libertà è una semplice illusione che gli proviene dalla circostanza che egli non scorge i fili della necessità, ai quali la sua volontà è altrettanto sospesa quanto un fatto naturale qualsiasi?” (26).
Secondo Schopenhauer, l’uomo, in quanto “galeotto della volontà”, non può di certo “attribuire a se stesso la libertà”. Potrebbe in qualche modo attribuirsene una relativa, ma questa – dice – “è forse, in fondo, qualcosa di immaginario che persone colte ma non profonde considerano quella volontà libera che distingue gli uomini dagli animali” (27).
Malgrado ciò, egli ammette la possibilità che l’uomo, in virtù della conoscenza, giunga a estinguere o negare (buddhisticamente) la volontà quale insaziabile brama di vita (la sessualità, ad esempio, è per lui la “manifestazione più abbagliante della “volontà”” o della “cosa in sé” (28), e i genitali sono “il vero e proprio fuoco della volontà” (29).
Osserva però Safranski: “La caratterizzazione schopenhaueriana del ruolo della conoscenza nell’atto della negazione rimase traballante e, addirittura contraddittoria” (30); fino a questo punto, infatti, “Schopenhauer aveva mostrato come la volontà fosse insuperabile potenza della realtà. E ora la negazione della volontà. Da dove veniva, dove conduceva?” (31).
Non è plausibile, in effetti, che l’essere della volontà possa venire negato dal non-essere della rappresentazione. Dice appunto Schopenhauer: “Conoscere la cosa in sé è una contraddizione in quanto ogni conoscenza è rappresentazione, mentre cosa in sé significa la cosa in quanto essa non è rappresentazione” (32). Come abbiamo dianzi accennato, egli dunque non si avvede, alla stessa stregua di Kant, che ogni conoscenza, prima ancora di essere rappresentazione, è percezione e concetto e che la “cosa in sé” in tanto “non è rappresentazione” in quanto è appunto quell’entelechia che si dà, al percepire, in veste di percetto e, al pensare, in quella di concetto.
L’estinzione o la negazione della volontà dovrebbe altresì comportare – per Schopenhauer – un affrancamento dalla “colpa” e dal “dolore dell’individuazione” (33), e quindi dall’ego.
Egli, tuttavia, al di fuori della coscienza riflessa o rappresentativa dell’Io, che ha sede nella testa, e della brama di vita, che ha sede – come dice – nei genitali, non conosce altro. “E’ come se – scrive Safranski – nel giovane Arthur tra la nuda sensualità e la precocissima intellettualità non si fosse inserita quell’”anima” dolcemente mitigatrice che provvede a stringere un trattato di pace tra i due centri vitali (…) Per lui sembrava non esistere un livello intermedio di accomodamento domestico nel quale intelletto e sessualità venissero trattati a metà prezzo, ravvicinandosi” (34).
La vera soluzione del problema non sta però nel negare l’ego e la brama, né nel dimezzare i “prezzi” per favorire un loro “accomodamento domestico”, quanto piuttosto nel trasformarli e redimerli, scoprendo, al centro o nel “sacro cuore” dell’anima (proprio, quindi, al “livello intermedio”), la realtà spirituale dell’Io.
Schopenhauer è convinto che occorre muovere dal soggetto della volontà e non dal soggetto della conoscenza poiché “la conoscenza della conoscenza è impossibile” (35). Ma è stato forse il soggetto della volontà a permettergli di conoscere che “la conoscenza della conoscenza è impossibile”? O non è stato piuttosto Kant?
La verità è un’altra. Può riconoscere l’identità del soggetto del volere e del soggetto del conoscere (“il problema filosofico per eccellenza”, secondo Schopenhauer) (36) solo chi è in grado di riconoscere quell’unico soggetto (l’Io spirituale) che si dà, nella sfera superiore (al polo cefalico), in modo riflesso o indiretto, come ego e, in quella inferiore (al polo metabolico e degli arti), in modo diretto come non-ego: come quel non-ego che è appunto, per Schopenhauer, il “soggetto della volontà”.
Cosa rimane, dunque, una volta che si sia estinto o negato il non-ego? Lo spiega lo stesso Schopenhauer: “Noi vogliamo (…) liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla” (37).
Schopenhauer, in ultima analisi, ha avuto la spregiudicatezza di mettere a nudo le bassezze o le miserie dell’esistenza egoica (“La vita – dice ad esempio – è una cosa spiacevole e io mi sono proposto di passare la mia a rifletterci sopra”) (38), ma è incorso nel fatale errore di scambiare un contingente stato “di fatto”, legato a una specifica fase dell’evoluzione umana, per un eterno e immutabile stato “di diritto”.

Note:

01) R.Safranski: Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia – Longanesi, Milano 2004;
02) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966;
03) A.Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione – Mursia, Milano 1991;
04) R.Safranski: op.cit., p.301;
05) ibid., p.293;
06) ibid., p.433;
07) ibid., p.477;
08) ibid., p.384;
09) ibid., p.304;
10) ibid., p.316;
11) R.Steiner: Le opere scientifiche di Goethe – Melita, Genova 1988, p.166;
12) R.Safranski: op.cit., p.66;
13) ibid., p.308;
14) ibid., p.313;
15) ibid., pp.182-183;
16) ibid., p.184;
17) ibid., p.165;
18) ibid., p.173;
19) ibid., p.162;
20) ibid., p.265;
21) ibid., p.497;
22) ibid., p.265;
23) ibid., p.161;
24) ibid., p.160;
25) ibid., p.461;
26) R.Steiner: La filosofia della libertà, p.7;
27) R.Safranski: op.cit., p.465;
28) ibid., p.201;
29) ibid., p.332;
30) ibid., p.345;
31) ibid., p.342;
32) ibid., p.393;
33) ibid., p.470;
34) ibid., p.202;
35) ibid., p.303;
36) ibid., p.387;
37) ibid., p.346;
38) ibid., p.153.

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Di Francesco Giorgi
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