L’antroposofia è scienza?

L

Sven Ove Hansson così comincia il “sommario” (1) di un suo articolo, del 1991: “Anthroposophy is one of the most successful occult movements in Europe. In this paper, its claim to be a science is examined. Two criteria are used that have both been accepted by the founder of anthroposophy, Rudolf Steiner: intersubjectivity, and confirmation by empirical science. Neither of these criteria is satisfied. The claims that anthroposophy is a science are not justified” (2).
E se fosse invece questa conclusione a essere ingiustificata? Per appurarlo, utilizzeremo un criterio che siamo certi soddisferà ogni persona di buon senso.
Come per stabilire se un beagle sia o meno un cane, sarebbe necessario sapere che cos’è un beagle e che cos’è un cane, così per stabilire se l’antroposofia sia o meno una scienza, non sarebbe altrettanto necessario sapere che cos’è l’antroposofia e che cos’è la scienza?
Orbene Hansson, come proveremo a dimostrare, non sembra sapere granché tanto dell’una che dell’altra.
Cominciamo dall’antroposofia. Di certo la conosce poco:
1) chi crede che sia una “doctrine” (e non una “via della conoscenza”) e “originally an outgrowth of theosophy” (benché Steiner, ricordando che non fu lui ad avvicinarsi alla “Società Teosofica”, ma fu questa a cercare la sua collaborazione, arrivi addirittura ad affermare: “Allora non avevo ancora letto nessun libro teosofico, ed anche in seguito lo feci più o meno per ragioni d’ufficio, e devo dire che sempre ne ebbi un po’ di orrore”) (3);
2) chi pretende di pronunciarsi sulla sua “epistemology” (più o meno “esoteric”) senza fare il benché minimo riferimento a La filosofia della libertà e ai lavori gnoseologici che l’hanno preceduta, e senza essere in grado di distinguere, non solo il sano esercizio dell’intelletto da quello morboso dell’intellettualismo, ma anche “the attitude to critical thinking” dall’attitude to critical feeling: ovvero, da quei moti (antipatici) della psiche (soprattutto giovanile) cui unicamente si riferiscono i passi che Hansson ha stralciato da L’iniziazione. Si deve essere infatti ciechi per non accorgersi che Steiner, in tale contesto, parla della devozione o della venerazione come del “sentimento fondamentale” in cui “tutta la vita dell’anima trova il proprio centro” (4): che parla quindi dell’anima (del sentire), e non dello spirito (del pensare). “Al nostro tempo – ha d’altro canto dichiarato – non c’è vera Iniziazione che non passi per l’intelletto. Chi vuole oggi condurre agli “arcani superiori” evitando di passare per l’intelletto, non capisce nulla dei “segni dei tempi” e non può far altro che porre suggestioni nuove al posto delle antiche” (5);
3) chi chiede: “Since there are different occult forerunners with different teachings, how do we (intersubjectively) find out which are the genuine ones? ” (6), mostrando così di non aver realizzato che è appunto conoscendo (e quindi esercitando la coscienza critica) che ciascuno si assume la responsabilità di scegliersi un “occult forerunner” (tanto che si potrebbe dire: “Dimmi che “forerunner” hai, e ti dirò chi sei”). Si dovrebbe inoltre considerare che un “occult forerunner”, quale maestro di scienza occulta, è cosa ben diversa da un “occult forerunner”, quale occulto maestro di scienza: quale guida, cioè, che s’ignora di avere e di stare inconsciamente seguendo. “Scagli la prima pietra”, dunque, “chi è senza” un “occult forerunner”;
4) chi chiede: “If the guidance of a teacher is necessary, where did the first occult teacher get his knowledge from? ” (7), convinto di aver detto cosa intelligentissima, mentre ha soltanto dimostrato di non avere la più pallida idea del complesso, profondo e mutevole rapporto intervenuto, nel corso dell’evoluzione e della storia, tra le entità del mondo spirituale (gli Dei) e gli uomini (già Erodoto scriveva, ad esempio: “Mi dissero pure che il primo re d’Egitto, che fosse uomo, era stato Mina”. Menes – stando infatti a Manetone – era stato il “primo re-uomo, dopo i re divini”) (8);
5) chi scrive: “In spite of dedicated efforts by thousands of anthroposophists, no other after Steiner seems to have been able to read the Akasha chronicle” (9), palesando così di essersi fatto una rappresentazione scolastica, per non dire puerile, della ricerca scientifico-spirituale, e d’ignorare perciò quel che costi, soprattutto ai nostri giorni, portarla seriamente e fedelmente avanti (o si vorrebbe – come hanno fatto di recente quei ricercatori che, “studiando i criceti”, hanno scoperto cosa rende gli uomini “Don Giovanni o infedeli” (10) – che gli antroposofi, attraverso la stampa, rendessero note al mondo, e in specie a Sven Ove Hansson, le loro piccole o grandi conquiste?).
E non sarebbe dunque il caso che quell’Hansson che crede, pur non sapendo leggere i libri di Steiner, di poter rimproverare agli antroposofi di non saper leggere “the Akasha chronicle”, provasse intanto a leggere in se stesso per scoprire quale è lo spirito che gli ha suggerito di redigere il suo diligente compitino?
Ma veniamo alla scienza, cominciando col problema della “confirmation by empirical science” e finendo poi con quello, più complesso, della “intersubjectivity”.
Avendo preso Steiner per un Nostradamus, oppure per un meteorologo, Hansson si dà a controllarne le previsioni, tutto contento di poterne elencare due o tre che non si sarebbero – a suo dire – avverate (come se il loro avverarsi o meno fosse indipendente dall’affermarsi o meno, sul piano culturale, della scienza dello spirito).
Scrive, al riguardo:
a) “From the point of view of natural science, it is well-established – to say the least – that atoms are not empty bubbles” (11). Non ha dunque realizzato che, come quanto è vuoto d’acqua è pieno d’aria (“the bubbles”), così quanto è “vuoto” di materia è pieno di spirito (magari dei “diavoletti” di Maxwell); gli è sfuggito, insomma, che laddove per i fisici vi sarebbero degli atomi e, più modernamente, delle “particelle subatomiche”, non è che non vi sia nulla, ma vi sono appunto delle entità elementari (o “bubbles of the imaginative cognition”), e non materiali (anche l’energia è oggi infatti considerata una “grandezza fisica”);
b) “According to Steiner’s predictions about the relationship between anthroposophy and natural science, we should expect relativity theory to have a weaker position in natural science than it had in 1917. This, however, is not the case” (12). Ma la teoria della relatività in tanto non si è indebolita in quanto non si è indebolito l’amore degli scienziati per l’astrazione, e non è per ciò stesso aumentato il loro interesse per la realtà. “Con i concetti terreni – afferma appunto Steiner – non si sfugge alla teoria della relatività, come ho già ricordato in un’altra occasione, vi si sfugge con la realtà (…) La relatività riesce ad avere valore quando si scambia tutta la realtà con la matematica, la geometria, la meccanica” (13). Una cosa, dunque, è una teoria che soddisfi la sola intelligenza (la sola testa), altra una (come quella antroposofica) che soddisfi, insieme all’intelligenza (alla testa), tutto l’uomo (“Comprendo la relatività con il cervello, – ha scritto appunto Heisenberg – ma non con il cuore”) (14);
c) “Almost seventy years later, no sign has been seen of any return to mercury” (15) (in ordine alla terapia della sifilide). Se è per questo, almost eighty years later, no sign has been seen di potersi far curare dal medico della mutua (o negli ospedali) con i farmaci omeopatici o antroposofici. Ma sarebbe avvenuto lo stesso se, nel corso di questi anni, la scienza dello spirito fosse riuscita almeno in parte a fecondare la cultura, permettendole così di arginare almeno un po’ l’inumano strapotere del materialismo e, oggidì, dell’informatica?
E non è a dir poco strano, poi, denunciare il fallimento di qualche “Steiner’s prediction” senza minimamente considerare l’attività delle forze ostacolatrici?
Ed eccoci al problema dell’”intersubjectivity”. Qui il buon Hansson (che non ci risparmia, tra l’altro, una valutazione positiva, nonostante l’antroposofia, di alcune realizzazioni della scuola Waldorf, della medicina antroposofica e dell’agricoltura biodinamica), non solo mostra d’ignorare che, essendo le verità molteplici e la realtà una, ogni spassionata ricerca della realtà non può che condurre, alla fine, a uno stesso risultato, e che soltanto coloro che amano la verità o le verità che hanno scoperto più della realtà (dell’insieme di tutte le verità) possono perciò confliggere (psichicamente) tra loro, ma nemmeno sospetta che un concetto del genere (così come viene oggi inteso) sia “originally an outgrowth” della filosofia kantiana.
Cosa sostiene infatti Kant? Che le categorie (i concetti), in quanto leges mentis (o manifestazioni della ragione), e non – come riteneva Aristotele – leges entis (o manifestazioni dell’essere), hanno valore soggettivo e funzionale, e non oggettivo e ontologico. Il pensiero del soggetto, quindi, non potendo essere oggettivo e in accordo con l’essenza delle cose (con le “cose in sé”), non può far altro che accontentarsi di essere intersoggettivo: vale a dire, in accordo col pensiero di altri soggetti.
Ben si capisce, dunque, che mentre l’oggettività è garante dell’intersoggettività (poiché la comprende), l’intersoggettività non è garante dell’oggettività (poiché non la comprende).
Come non è il concetto, d’altronde, a nascere dalla rappresentazione, ma è la rappresentazione a nascere dal concetto, così non è la scienza a nascere dal metodo, ma è il metodo a nascere dalla scienza. Non è perciò la scienza a dover poggiare sul metodo, bensì è il metodo a dover poggiare sulla scienza, poiché questa, in quanto concetto, essenza o spirito, è in grado di poggiare (come l’Io) su di sé.
La scienza, in quanto appunto concetto, essenza o spirito, è forma (in potenza), ma non ha forma; ed è proprio perché è forma, ma non ha forma, che può prenderne tante quante sono le realtà che intende investigare.
La scienza dunque è una (come il concetto), mentre i suoi metodi (le sue forme) possono essere molteplici (come le rappresentazioni). Sarebbe pertanto più corretto parlare di “pluralismo metodologico”, che non – come qualcuno oggi fa – di “pluralismo scientifico”.
Di tutto ciò si è però ignari (incoscienti). E cosa si fa allora? Si attribuisce (proiettivamente) a una rappresentazione particolare il valore o la funzione del concetto, assegnando in tal modo valore o funzione universale alla prima e valore o funzione meramente nominale al secondo.
Universalizzare un metodo (una forma) particolare equivale però a formalizzare la scienza, costringendola così a regredire dal piano neo-testamentario della libertà (o dell’anima cosciente) a quello vetero-testamentario della legge (o dell’anima razionale e affettiva).
Scienziato, allora, non è più colui che è animato da spirito scientifico, bensì colui che rispetta e osserva (come usano fare i “tecnici”) i metodi, i procedimenti o i protocolli: in una parola, appunto la legge. Non è più il sabato, così, a essere fatto per l’uomo, ma l’uomo a essere fatto per il sabato.
E quale metodo particolare viene oggi universalizzato e assolutizzato? E’ ovvio: quello imposto dall’indagine della realtà sensibile e, in specie, di quella inorganica.
In un contesto del genere, l’impersonalità, l’oggettività o l’intersoggettività che lo spirito scientifico garantirebbe sua sponte, deve essere invece garantita dalla surrogatoria, esteriore e formale osservanza di un metodo: di un metodo, però, che, essendo particolare, veicola lo spirito scientifico fintantoché viene applicato alla realtà particolare che gli corrisponde e lo esige (quella inorganica), ma che cessa di veicolarlo (per mettersi anzi al servizio dello spirito dogmatico) non appena la sua applicazione viene estesa (scientisticamente) ad altre realtà particolari (quali quelle, ad esempio, della vita, dell’anima e dello spirito) che né gli corrispondono né lo esigono.
Quanto vale per i metodi di ricerca vale altresì per i metodi di verifica. Come i metodi di ricerca devono essere qualitativamente adeguati alla natura dei fenomeni indagati, così i metodi di verifica devono essere qualitativamente adeguati a quelli di ricerca (non si può verificare con l’olfatto, ad esempio, ciò che è stato ricercato e scoperto dall’udito, e viceversa).
La ricerca animico-spirituale presenta tuttavia un’altra difficoltà.
Per spiegarla, ci serviremo di una scenetta. Tizio incontra Caio e Sempronio, e dice: “Oggi ho scoperto l’esistenza dei microbi!”; al che i due gli rispondono: “Devi però dimostrarlo”; “Lo farò se verrete a casa mia, e guarderete anche voi attraverso il microscopio”, replica Tizio. Caio e Sempronio vanno allora a casa sua, guardano attraverso il microscopio, e scoprono anche loro l’esistenza dei microbi. Ecco così soddisfatta l’esigenza dell’intersoggettività.
Ma per quale ragione è stato possibile soddisfarla? Soltanto perché Tizio, Caio e Sempronio si sono potuti avvalere della vista, di un microscopio e dell’intelletto. Chi non potesse disporre di un microscopio, non fosse capace di usarlo, fosse cieco o demente, mai potrebbe infatti soddisfarla, perché mai riuscirebbe a scoprire la stessa cosa o a ottenere lo stesso risultato.
Il che sta dunque a significare che, per soddisfare l’intersoggettività, è necessario disporre, quantomeno, delle stesse capacità e degli stessi strumenti.
Ma mentre tutti godono normalmente della vista e della coscienza intellettuale, e possono comprarsi un microscopio, ben pochi invece godono della vista spirituale e di un superiore grado di coscienza (immaginativo, ispirativo o intuitivo), e possono comprarsi un “macroscopio”. Chi non gode dei primi due e non può acquistare il terzo, potrebbe tuttavia sviluppare gli uni e “costruirsi” l’altro, educando e trasformando pazientemente se stesso (a cominciare dal pensare).
Ma qui casca l’asino, perché tutto si può chiedere agli odierni ricercatori (in vista magari di una pubblicazione o di un riconoscimento accademico), fuorché di lavorare su se stessi e di trasformarsi, in nome appunto della scienza e della verità. Ma la ricerca animico-spirituale esige, diversamente da quella naturale, che il ricercatore sia, insieme, il soggetto e il mezzo o lo strumento dell’indagine.
Si vuole che un secondo ricercatore verifichi e controlli i risultati del primo? Benissimo, ma perché non volere allora che un terzo verifichi e controlli i risultati del secondo, che un quarto verifichi e controlli i risultati del terzo, e così via?
A un certo punto, ci si dovrà o no fermare? E dove, e quando, e perché?
“Chi si dedichi allo studio di una trattazione di scienza occulta, – osserva a questo proposito Steiner – si accorgerà ben presto che essa porta all’acquisizione di concetti e idee che non si possedevano, tra l’altro, anche sul concetto di “dimostrazione”. Si apprende a riconoscere che, per la scienza naturale, il “dimostrare” è qualcosa di esterno, per così dire, ai fatti descritti. Per il pensiero scientifico-spirituale, invece, l’attività che nella ricerca scientifica abituale l’anima applica alla dimostrazione, si svolge già nella ricerca dei fenomeni. Non è possibile scoprirli, se non è già dimostrativa la via che conduce ad essi” (16).
Per quale ragione, infatti, le dimostrazioni “dimostrano”? Per quale ragione, cioè, non si sente il bisogno di dimostrare la dimostrazione, e poi la dimostrazione della dimostrazione, e così all’infinito? Osserva al riguardo L.Russo: “Immaginate di entrare in una stanza assolutamente buia per cercare qualcosa. Per trovarla dovrete per forza accendere la luce. Ma immaginate che, una volta vista la cosa che cercavate, vi venga in mente di vedere anche la luce. Ebbene, sarebbe forse necessario, per questo, accendere un’altra luce? No. La luce, infatti, mentre illumina le cose, illumina anche se stessa” (17).
Nessuno, in effetti, accende un’altra luce per illuminare (dimostrare) la luce.
In ogni caso, tutti quelli che ritengono – come Hansson – che l’insegnamento di Rudolf Steiner non sia “scientifico” non hanno di che preoccuparsi: quanto non sono disposti a riconoscere oggi, durante la vita, dovranno riconoscerlo un giorno, dopo la morte, allorché vivranno nel regno della verità, dell’oggettività o, per l’appunto, dell’intersoggettività.

P.S.
Siamo ben consapevoli che, sul tema, ci sarebbe ancora molto da dire. Chiunque potrà però integrare quanto abbiamo scritto in questa breve nota con ciò che si trova pubblicato nel nostro sito, soprattutto nelle sezioni “Scienza e coscienza”, “Studi gnoseologici” e “La filosofia della libertà”.

Note:

01) http://www.waldorfcritics.org/active/articles/Hansson.html – “Is anthroposophy science?” by Sven Ove Hansson;
02) “L’antroposofia è uno dei movimenti occulti di maggior successo in Europa. In questo studio, viene esaminata la sua pretesa di essere una scienza. Vengono utilizzati due criteri, entrambi accettati dal fondatore dell’antroposofia, Rudolf Steiner: l’intersoggettività, e la convalida della scienza empirica. Né l’uno né l’altro di questi due criteri risulta soddisfatto. Le pretese che l’antroposofia sia una scienza sono ingiustificate” (questa e le successive traduzioni sono nostre);
03) R.Steiner: Lo studio dei sintomi storici – Antroposofica, Milano 1961, p.138;
04) R.Steiner: L’iniziazione – Antroposofica – Milano 1971, pp 21-22;
05) R.Steiner: Iniziazione e misteri – Rocco, Napoli 1953, p.74;
06) “Dal momento che esistono vari precursori occulti con diversi insegnamenti, come facciamo (intersoggettivamente) a scoprire quali sono quelli autentici?”;
07) “Se è necessaria la guida di un maestro, donde ha tratto il suo insegnamento il primo maestro occulto?”;
08) Erodoto: Storie – Mondadori, Milano 2000, vol.1°, p.263;
09) “Nonostante i volenterosi sforzi di migliaia di antroposofi, nessun altro, dopo Steiner, sembra essere stato in grado di leggere la “cronaca dell’Akasha””;
10) “Una pillola per diventare fedeli” – Il Messaggero, 18 luglio 2004;
11) “Dal punto di vista della scienza naturale, è ben provato – a dir poco – che gli atomi non sono “bolle vuote””. Qui Hansson si riferisce a quanto afferma Steiner in Das karma des materialismus – Berliner Vortrage, gehalten im August und September 1917, Berlin 1922, pp.2; 14-15;
12) “Stando alla previsione di Steiner circa il rapporto tra l’antroposofia e la scienza naturale, avremmo dovuto aspettarci che la teoria della relatività godesse oggi di un prestigio inferiore a quello di cui godeva nel 1917. Ma così non è”;
13) R.Steiner: Le individualità spirituali del sistema solare – Antroposofica, Milano 1995, pp.46-47;
14) W.Heisenberg: Fisica e oltre – Boringhieri, Torino 2000, pp.38-39;
15) “Quasi settant’anni dopo, non vi è segno di qualche ritorno al mercurio”;
16) R.Steiner: La scienza occulta nelle sue linee generali – Antroposofica, Milano 1969, p.35;
17) L.Russo: Amor, che ne la mente mi ragiona – vedi, in questo sito, “La filosofia della libertà”, 5° incontro.

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Di Francesco Giorgi
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