La statistica contro l’individuo

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Sulla rivista Nature, è apparso uno special report nel quale l’autore, Gim Giles, giudica inaccettabile che le medicine alternative siano diventate materie per corsi universitari (subject degrees), e si siano viste così riconoscere lo “stato di scientificità” (1).
La polemica sullo “stato di scientificità” delle medicine alternative, in particolare dell’omeopatia, mantiene sempre vivo l’interesse della comunità accademica. Essa vorrebbe dimostrare che l’efficacia dell’omeopatia è da attribuirsi unicamente all’effetto placebo; tale dimostrazione ne farebbe una pratica che non merita di diventare materia di insegnamento universitario.
In un articolo comparso sul Corriere della sera del 27 agosto 2005, titolato: “Omeopatia inutile, ha solo un effetto placebo”, Giuseppe Remuzzi scrive, riferendosi ad uno studio pubblicato sulla rivista medica The Lancet: “L’omeopatia serve o non serve? No – è la risposta del Lancet -. L’effetto dell’omeopatia è effetto placebo”.
Lo studio cui si allude ha come titolo: “Gli effetti clinici dell’omeopatia sono dovuti all’effetto placebo? ”(2), ed è firmato da Matthias Egger e da alcuni collaboratori dell’università di Berna. Remuzzi considera questo articolo una definitiva dimostrazione del legame tra omeopatia e effetto placebo.
Leggendo il lavoro originale di Egger abbiamo scoperto, però, che le dimostrazioni sono tutt’altro che valide.
Tenteremo di capire, esaminando le metodologie analitiche della ricerca medica, come vengano rintracciati i dati e quali strategie conducano alle conclusioni di Egger. Vorremmo spiegare perché non sia possibile, attraverso questi metodi, dimostrare l’efficacia dell’omeopatia.
I controlli della validità di un farmaco (omeopatico o allopatico) si avvalgono di una procedura di confronto con l’effetto placebo così articolata: viene selezionato un gruppo di persone che presentano uno stesso sintomo, il gruppo viene casualmente diviso in due sottogruppi (randomized controlled trials) definiti “gruppo di controllo” (Control group) e “gruppo di trattamento” (Treatment group). Ai pazienti del primo viene somministrato un placebo, a quelli del secondo viene invece dato il medicinale da testare. Dopo un certo intervallo di tempo si confronta lo stato clinico dei due gruppi e si giudica la validità del farmaco.
Questa procedura non tiene conto di un aspetto cruciale della medicina omeopatica: un singolo sintomo non è indicativo se estrapolato dalla totalità dello stato del paziente. L’approccio della terapia allopatica, che prevede di rintracciare il rimedio per il singolo sintomo, non è corretto nel caso dell’omeopatia, che prevede una diagnosi sulla base dello stato generale del paziente.
Dice a questo proposito Rudolf Steiner: “Bisogna perdere l’abitudine di cercare il rimedio nella sostanza in quanto tale. Bisogna dirsi sempre più: se c’è una malattia c’è un processo che non è compreso dall’organismo intero” (3).
Alcuni ricercatori riconoscono questa differenza sostanziale tra terapia allopatica e omeopatica. Klaus Linde, ad esempio, scrive: “un omeopata potrebbe trattare un paziente con il raffreddore, i cui sintomi primari siano lacrimazione, pizzicore e irritazione agli occhi, bassa densità e chiarezza del muco nasale emesso, con un potenziamento preparato sulla base di estratti di cipolla (Allium cepa) dal momento che questi sintomi sono simili a quelli prodotti dalle cipolle. Allo stesso modo però, un altro paziente con il raffreddore potrebbe presentare un muco nasale giallo e denso, perdita di sete, desiderio di aria fredda e fresca. Questa persona verrebbe trattata con un potenziamento a base di Pulsatilla (…) Entrambi i pazienti hanno la stessa diagnosi (infezione alle vie respiratorie superiori), ma ciascuno viene trattato con differenti farmaci omeopatici (…) Questa situazione complica la ricerca clinica nell’omeopatia quando i casi sperimentali vengono scelti utilizzando dei criteri convenzionali mentre la terapia è basata sui criteri omeopatici” (4).
Linde evidenzia l’errore di metodo nell’impostazione delle ricerche di controllo sui farmaci omeopatici e spiega come ciò possa condurre a errori di valutazione. Se, ad esempio, il gruppo di trattamento è formato da soggetti scelti sulla base di sintomi isolati dal contesto generale del paziente, può darsi che si presenti una concentrazione di persone con gli stessi disturbi (nausea e vomito) che dovrebbero essere trattati, però, con diversi rimedi (l’Arsenicum album anziché Nux vomica), come suggerirebbero i sintomi non presi in considerazione perché relativi ad ambiti clinici convenzionalmente distanti.
Oltre l’errore metodologico indicato, esiste poi un problema relativo al trattamento dei dati presenti in queste ricerche.
Da parecchi anni è invalsa nella ricerca medica la metanalisi. Si tratta di una tecnica che combina statisticamente i dati di più pubblicazioni, generando un nuovo dato di validità generale. Il gruppo di Egger, esaminando i database clinici come Medline, Embase, Dare (per questo studio ne sono stati presi in considerazione addirittura diciannove), ha selezionato 110 studi comparativi tra omeopatia e placebo e li ha confrontati con altri 110 studi comparativi tra allopatia e placebo riguardanti complessivamente otto ambiti clinici. L’obiettivo scientifico del gruppo di ricerca era quello di rispondere alla domanda: chi ha più efficacia rispetto al placebo, il farmaco omeopatico o quello allopatico?
Egger e collaboratori hanno in seguito ristretto l’analisi dei dati ad un sottogruppo di pubblicazioni scelte seguendo due criteri: l’alta qualità (higher reported metodological quality trials) e l’ampio numero di pazienti (larger trials). Il primo prende in considerazione un’articolo scientifico solo se soddisfa certi requisiti più selettivi (alta qualità metodologica, limitato vizio di pubblicazione (5), etc.); il secondo impone di scegliere solo gli studi di controllo effettuati su un gran numero di pazienti. L’equipe di Egger ha infine concluso che solo restringendosi a questo sottogruppo, “c’era una debole evidenza di uno specifico effetto dei rimedi omeopatici, ma una forte evidenza degli specifici effetti dei convenzionali interventi”. Non possiamo fare a meno di notare che il sottogruppo cui si riferiscono è costituito da otto studi di controllo su 110 per la medicina omeopatica e sei su 110 per la medicina allopatica.
Con la metanalisi non viene creata una nuova procedura di verifica della validità dei farmaci omeopatici che tenga conto di criteri più idonei alla loro natura, ma si utilizza l’analisi statistica di una grande quantità di studi già effettuati, trattando il risultato ottenuto come un nuovo dato. Questo tipo di analisi statistica, inoltre, può dare risultati contraddittori se applicata ad un gruppo di pubblicazioni o a sottogruppi più piccoli.
Proprio a tale proposito, il cardiologo Marco Bobbio scrive: “Se vengono scelti in modo appropriato i sottogruppi e vengono svolte numerose analisi statistiche, si può dimostrare che un trattamento non efficace sull’insieme della popolazione studiata è invece efficace in determinate categorie di pazienti, invitando i medici a prescriverlo proprio a quelli” (6).
Data l’arbitrarietà con cui potrebbero essere scelti i sottogruppi d’indagine, esiste l’eventualità che qualche ricercatore giunga, con la stessa tecnica della metanalisi, a conclusioni diverse da quelle ottenute da Egger, per il solo fatto di costruire diversamente i sottogruppi d’indagine.
Proprio questo, guarda caso, è accaduto.
Nel 1997, sempre sulla rivista The Lancet, è apparso un articolo di Klaus Linde dal titolo: “Gli effetti clinici dell’omeopatia sono dovuti all’effetto placebo? ” (7). In questa pubblicazione venivano raccolti e analizzati gli studi di controllo sui medicinali omeopatici rispetto al placebo senza considerare quelli allopatici. Nelle conclusioni, Linde afferma che “i risultati della nostra metanalisi non sono compatibili con l’ipotesi che gli effetti clinici dell’omeopatia siano completamente dovuti all’effetto placebo”.
Data l’autorevolezza della rivista su cui entrambi gli articoli sono stati pubblicati, ci chiediamo quale dei due sia più attendibile. La contraddittorietà delle conclusioni ottenute dai diversi gruppi di ricerca indica la necessità di un rinnovamento delle metodologie di controllo dell’efficacia farmacologica.
Anche nell’ambito della ricerca allopatica, i giudizi sulla validità della metanalisi sono discordi a causa dell’incompatibilità dei risultati di questi studi con i fatti. In un articolo apparso sul New England Journal of Medicine (8), Jaques LeLorier ha confrontato 12 studi di grandi dimensioni, pubblicati nel periodo 1991-1994, con 19 metanalisi relative agli stessi temi e pubblicate in precedenza. Le conclusioni dell’articolo sono piuttosto negative per la credibilità della metanalisi: in circa un terzo dei casi, questa tecnica avrebbe portato all’adozione di trattamenti dimostratisi inefficaci dagli studi successivi e, in un’analoga proporzione, al mancato impiego di trattamenti dimostratisi, a posteriori, efficaci.
Solo alla luce della Scienza dello Spirito possiamo comprendere perché queste tecniche non riescono a far luce sugli effetti clinici dell’omeopatia che sono, piaccia o meno, un fatto.
Spesso Rudolf Steiner ha sostenuto che l’intelletto può dimostrare tutto e il contrario di tutto; la statistica applicata alla ricerca medica, come nel caso della metanalisi, convalida questa affermazione.
Le ricerche statistiche sulla validità dei rimedi omeopatici non hanno nulla a che fare né con la pratica terapeutica né con i principi dell’omeopatia. Una terapia è tale solo se considera fondamentale il caso individuale e non l’insieme statistico dei pazienti: “l’efficacia o meno di un rimedio – dice infatti Steiner – non dipende dalla statistica, ma dallo studio del singolo caso. Se si ha una scatola di fiammiferi, non occorre provarli tutti: basta accenderne uno per sapere che anche gli altri si accenderanno (…) non si tratta quindi di fare statistiche, ma di conoscere fino in fondo il singolo caso. Per questo avremo sempre grosse difficoltà quando ci vien chiesto: dateci i vostri rimedi, devono essere testati! Ma così non si conclude nulla, non è così che nascerà la fiducia nei rimedi”(9).
Ciò che Steiner così esprime nel 1924, solo di recente è divenuto un fatto per alcuni ricercatori che affermano: “poiché molti fattori estranei alla cura ne influenzano l’esito su un paziente, decidere la terapia migliore per un particolare individuo è radicalmente diverso rispetto a stabilire quale è la migliore in media”, e proseguono: “alcuni pazienti possono beneficiare in modo sostanziale di una cura anche quando i risultati complessivi di una sperimentazione sono negativi. Oppure una cura mediamente benefica può essere molto probabilmente inutile per la maggioranza dei pazienti, e assai probabilmente dannosa per alcuni di loro. Ma se chi effettua la sperimentazione analizza i dati senza considerare questi sottogruppi, il medico non può sapere che esistono” (10).
L’impossibilità di comprendere a cosa siano dovuti gli effetti dell’omeopatia nasce dal fatto che le tecniche statistiche restano nell’ambito dell’intelletto astratto e sono lontane dall’elemento reale costituito dal paziente quale caso individuale. Possiamo utilizzare i metodi statistici più elaborati, ma se un farmaco funziona anche su un solo paziente, ciò richiede una spiegazione in quanto si tratta di un fatto reale; non se ne può trascurare l’esistenza perché le teorie ritengono quella guarigione statisticamente irrilevante. Essa resta, comunque, qualcosa di vero.
Proprio per questo, ci auguriamo che, di fronte anche a un solo fatto, si abbia il coraggio di far crollare tutte le teorie, perfino quelle statistiche.

(1) Gim Giles: Degrees in homeopathy slated as unscientific – Nature, vol. 446, 22 Marzo 2007, p.352;
(2) Matthias Egger et al.: Are the clinical effects of homoeopathy placebo effects? Comparative study of placebo-controlled trials of homoeopathy and allopathy – The Lancet, Vol.366, August 27, 2005, p.726;
(3) Rudolf Steiner: Problemi di fisiologia e terapia alla luce della scienza dello spirito – Antroposofica, Milano 1993, p.29;
(4) Klaus Linde et al.: A Critical Overview of Homeopathy – Annals of Internal Medicine, March 4, 2003, Vol.138, n.5, p.393;
(5) con il termine “vizio di pubblicazione” si è tradotto ciò che, in gergo clinico, si chiama Pubblication Bias e che consiste in quell’errore sistematico che indica la tendenza media di pubblicare solo risultati statisticamente favorevoli alla conferma dell’efficacia di un farmaco, mentre i risultati che ne vanno a sfavore è più difficile che, seppure veri, trovino spazio sulle riviste scientifiche;
(6) Marco Bobbio: Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza – Einaudi, Torino 2004, p.77;
(7) Klaus Linde et al.: Are the clinical effects of homoeopathy placebo effects? A meta-analysis of placebo-controlled trials – The Lancet, Vol.350, September 20, 1997, p.834;
(8) Jaques LeLorier et al.: Discrepancies between Meta-analyses and subsequent large randomized, controlled trials – The New England Journal of Medicine, vol.337, August 21, 1997, p.536;
(9) Rudolf Steiner: Problemi di fisiologia e terapia alla luce della scienza dello spirito – p.213.
(10) David Kent e Rodney Hayward: Quello che i trial clinici non dicono – Le Scienze, vol. 466, giugno 2007, pp. 82-83.

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Di Daniele Liberi
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