Massime antroposofiche
121/122/123 – 1°

M

Cominciamo stasera una nuova lettera, intitolata: I pensieri universali nell’azione di Michele ed in quella di Arimane (23 novembre 1924).

Domanda: Posso chiedere una cosa?
Risposta: Certo.
Domanda: C’è chi si limita a parlare di “pensiero riflesso” e di “pensiero vivente” e chi dice che non si deve schematizzare, dal momento che tra coscienza immaginativa, coscienza ispirata e coscienza intuitiva non ci sono pareti stagne, e che le esperienze dovute a un grado di coscienza possono quindi presentarsi insieme a quelle dovute agli altri. Che ne pensi?
Risposta: Che ci si può limitare a parlare di “pensiero riflesso” e di “pensiero vivente” (soprattutto in vista della prima meta del nostro cammino), purché si sappia, però, che una cosa è il vero e proprio pensiero “vivente” (immaginativo), altra il pensiero “ispirato”, e altra ancora quello “intuitivo”.
Steiner, infatti, non solo afferma: “Il nostro io e il nostro corpo astrale non posseggono la vita, eppure esistono. Lo spirituale e l’animico non hanno bisogno della vita. La vita comincia con il corpo eterico” (1), ma spiega pure, con estrema chiarezza, che “quando si instaura la coscienza vuota [quella ispirata], quando si fanno cadere i pensieri, come è descritto nella seconda parte della mia Scienza occulta, allora si sente come in noi svanisca il pensiero vivente [grassetto nostro], come per così dire si fondi il pensare che fino ad allora avevamo prodotto con i nostri sforzi; in compenso però ci si sente allora stranamente vivificati da pensieri che affluiscono in noi come da mondi sconosciuti, che esistono per noi” (2).
Un conto, poi, è distinguere (dice Goethe: “Solo colui che sa dividere può unire”), altro schematizzare. Steiner, ad esempio, spiegando (ne I gradi della conoscenza superiore) quali differenze ci sono tra la coscienza rappresentativa (materiale), la coscienza immaginativa, la coscienza ispirata e quella intuitiva, precisa che nella prima entrano in gioco quattro elementi (la sensazione, l’immagine, il concetto e l’Io), nella seconda tre (l’immagine, il concetto e l’Io), nella terza due (il concetto e l’Io) e nella quarta uno (l’Io).
Ebbene, che cosa fa qui Steiner: distingue o schematizza?
Tra la coscienza immaginativa, la coscienza ispirata e la coscienza intuitiva non ci sono, è vero, pareti “stagne”, ma ci sono pareti “concettuali” e “gerarchiche”. Abbiamo visto, infatti, che la coscienza immaginativa, la coscienza ispirata e quella intuitiva sono rispettivamente in rapporto con la terza, con la seconda e con la prima Gerarchia. Il fatto che le esperienze dovute a un grado di coscienza possano presentarsi insieme a quelle dovute agli altri, non ci dispensa perciò dall’avere ben chiare le loro differenze, così come il fatto, che so, che le vocali e le consonanti si presentino insieme nelle parole non ci dispensa dal distinguere le une dalle altre.
Ascolta, al riguardo, queste parole di Steiner (le ho trascritte, a suo tempo, da una conferenza che poi non ho più ritrovato): “Questo è ciò che da un lato è per noi particolarmente necessario: chiarezza della tensione interiore (…) Quella chiarezza della tensione interiore che oggi contraddistingue il vero scienziato della natura nella tensione esteriore. Non oscurità e crepuscolo, non una mistica crepuscolare, ma luminosa trasparente chiarezza in tutto ciò che ha a che fare col pensare”.
“La limpidezza – scrive allo stesso proposito Scaligero – è l’onestà recata nel pensare” (3).

Cominciamo adesso la lettera.

Chi esamina la posizione di Michele verso Arimane viene portato a chiedere: “Come si comportano nei nessi cosmici queste due potenze spirituali, dato che entrambe operano allo sviluppo delle forze intellettuali?”.
Michele sviluppò nel passato l’intellettualità attraverso il cosmo, e lo fece come ministro delle potenze divino-spirituali che diedero origine tanto a lui stesso quanto all’uomo. Quando questa si staccò dalle potenze divino-spirituali per trovare la via nell’interiorità dell’essere umano, Michele deliberò di prendere da allora in poi la giusta posizione di fronte all’umanità, per poter trovare in essa il suo rapporto con l’intellettualità. Ma anche in seguito egli voleva compiere tutto ciò secondo gli intendimenti e quale ministro delle potenze divino-spirituali con le quali egli è collegato sin dall’origine sua e dell’uomo. È dunque sua intenzione che in avvenire l’intellettualità fluisca attraverso i cuori degli uomini, pur rimanendo quella medesima forza che era già nel principio, quando emanava dalle potenze divino-spirituali
” (p. 101).

Il fatto che tanto Michele che Arimane operino “allo sviluppo delle forze intellettuali”, ci dice che tali forze (come abbiamo sottolineato parlando della matematica) sono “neutre”: ossia, né infere, né supere, e per ciò stesso suscettibili, sia di uno sviluppo superiore (evolutivo-anagogico), sia di uno sviluppo inferiore (involutivo-catagogico).
(“La matematica – afferma Goethe – non può eliminare un pregiudizio, non può mitigare la testardaggine, calmare la faziosità, non può far nulla in campo etico” [4].)
Quando l’intellettualità “si staccò dalle potenze divino-spirituali per trovare la via nell’interiorità dell’essere umano”, il pensiero, vuoto (come abbiamo visto) di vita, anima e spirito, si posò (galileianamente) a terra, e conobbe così la realtà (meccanica) della morte.
Potremmo dire, ricorrendo a un’immagine, che il pensiero vive, come un uccello, nell’aria, ma può anche posarsi a terra (“Va’, pensiero, sull’ali dorate / Va’, ti posa sui clivi, sui colli…”).
C’è una bella differenza, però, tra un uccello che si posa a terra, fa quel che deve, e riprende poi il volo, e un altro che, una volta posatosi a terra, venga afferrato, spennato e messo così in condizione di non poter tornare a volare.
E’ questo, in sostanza, ciò che fa Arimane: afferra e spenna il pensiero, cercando poi, ove questo mostri di patire la nostalgia del volo, e quindi la voglia di farsi ricrescere le penne, di convincerlo (mediante la “cultura”, soprattutto “scientifica”) che mai è stato un pennuto e mai lo sarà, che mai ha volato e mai volerà: che mai si realizzerà, insomma, (come vorrebbe Michele) che “l’intellettualità fluisca attraverso i cuori degli uomini, pur rimanendo quella medesima forza che era già nel principio, quando emanava dalle potenze divino-spirituali“.

Molto diverso è il caso di Arimane. Già da lungo tempo questo essere si è staccato dalla corrente di evoluzione a cui appartengono le entità divino-spirituali caratterizzate. Nel più remoto passato egli si collocò accanto ad esse come potenza cosmica indipendente. Ora egli sta sì spazialmente nel mondo al quale l’uomo appartiene, ma non ha alcuna relazione di forze con gli esseri legittimamente appartenenti a questo mondo. Soltanto perché l’intellettualità, staccata dagli esseri divino-spirituali, si avvicina a questo mondo, Arimane la trova così affine a sé da potersi, per suo mezzo, collegare a modo suo con l’umanità. Già in un lontanissimo passato egli ha infatti unito a sé ciò che l’uomo riceve ora come un dono dal cosmo. Se gli riuscisse ciò che è nelle sue intenzioni, Arimane renderebbe simile al proprio l’intelletto dato all’umanità” (pp. 101-102).

Vedete, “soltanto perché l’intellettualità, staccata dagli esseri divino-spirituali [e per ciò stesso vuota, come abbiamo detto e ripetuto, di vita, anima e spirito], si avvicina a questo mondo [al mondo della realtà inorganica], Arimane “la trova così affine a sé da potersi, per suo mezzo, collegare a modo suo con l’umanità” (al fine di possederla e strumentalizzarla).
Dice Steiner: “Se gli riuscisse ciò che è nelle sue intenzioni, Arimane renderebbe simile al proprio l’intelletto dato all’umanità”.
Ciò vuol dire che se “l’intelletto dato all’umanità” fosse identico al suo, se fosse cioè portato sua sponte al riduzionismo materialistico e al monoideismo quantitativo, Arimane non dovrebbe fare alcuno sforzo per renderlo “simile al proprio”, facendoci così dimenticare che si tratta di uno dei doni di quello Spirito Santo di cui, purtroppo, sappiamo ancora poco o niente.
Ascoltate quanto scrive Bruno Forte (professore di teologia nella Facoltà teologica dell’Italia meridionale): “Il Dio dei cristiani è un Dio cristiano? Questa domanda, in apparenza paradossale, nasce spontaneamente se si considera il modo in cui molti cristiani si raffigurano il loro Dio. Nel discorso essi parlano di Lui riferendosi ad una vaga “persona” divina, più o meno identificata con il Gesù dei Vangeli o con un essere celeste non meglio precisato. Nella preghiera essi parlano con questo Dio piuttosto indefinito, mentre sentono estranea, per non dire astrusa, la maniera in cui la liturgia fa pregare il Padre per Cristo nello Spirito Santo: si prega Dio, ma non si sa pregare in Dio. E’ innegabile il fatto che molti cristiani [cita qui Karl Rahner], “nonostante la loro esatta professione della Trinità, siano quasi solo dei “monoteisti” nella pratica della loro vita religiosa. Si potrà rischiare l’affermazione che, se si dovesse sopprimere, come falsa, la dottrina della Trinità, pur dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata”” (5).
Abbiamo detto, a suo tempo (massima 22), che riconosciamo la “santità del volere” e la “santità del sentire”, ma non la “santità del pensare”, poiché ci è ignota la realtà dello Spirito Santo o dello “Spirito di Verità” (la prima è infatti la santità del Padre, la seconda del Figlio, e la terza, appunto, dello Spirito Santo).
Il che è grave, poiché ci troviamo in una fase evolutiva nella quale sarà sempre più difficile realizzare la santità del sentire e del volere, se non si sarà prima realizzata la santità del pensare, così come viene indicato da Michele (tanto che si potrebbe dire, rovesciando il “sine sanctitate non est homo sapiens” di Bonaventura: sine sapientia non est homo sanctus).

Senonché Arimane si è appropriato dell’intellettualità in un’epoca in cui non poteva ancora interiorizzarla in sé. Nel suo essere essa rimaneva una forza che nulla aveva a che fare col cuore e con l’anima. L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per se stessa, senza pietà e senza amore (in realtà è Arimane che parla per suo mezzo), una logica in cui non si mostra per nulla il giusto e intimo collegamento dell’anima e del cuore con ciò che l’uomo pensa, dice e fa” (p. 102).

Quella di Arimane, in sostanza, è una testa priva del restante organismo: ossia un pensiero “senza pietà” (senza sentire) e “senza amore” (senza volere).
Ricordate che cosa abbiamo detto, una sera (lettera 2 novembre 1924), a proposito di quanti pensano che l’embrione non sia un essere umano? Abbiamo detto che in tanto possono pensarla così, in quanto la loro intellettualità, sganciata dal sentire umano, è stata inconsciamente agganciata dal sentire-non-sentire delle potenze arimaniche.
Pensate, di contro, alla Mater misericordiae, o a Parsifal, definito da Wagner “l’eroe pietoso”, oppure alla dottrina della compassione del Buddha: di quel Buddha la cui pietas – come rivelato da Steiner – è ora al servizio del Cristo nella sfera di Marte: ossia nella sfera “marziale” della lotta, della violenza e della guerra.
Diceva Nietzsche, com’è noto, che l’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo. Ma non è così, giacché l’uomo è una corda tesa tra il cielo e la terra, tra il passato e il futuro o tra Lucifero e Arimane.
Ho detto, sere fa, che una cosa sono le qualità, altra il soggetto o lo spirito che le ha. Prendete ad esempio l’efficienza: non è forse una qualità o, come si usa oggi dire, un “valore”?
Che dire, però, dell’efficienza di un campo di sterminio? Non se ne dovrebbe apprezzare piuttosto l’inefficienza?
Ciò dimostra che l’efficienza è una qualità positiva o un valore quando è al servizio dello spirito umano (dell’Io inabitato dal Cristo), mentre è una qualità negativa o un dis-valore quando è al servizio di un ego inconsciamente al servizio, a sua volta, di Lucifero, di Arimane o di qualche altra e peggiore entità.
Più della logica importa insomma il Logos, cioè il suo soggetto: importa vedere, in altre parole, se la logica è al servizio di Michele o di Arimane.
Siamo soliti dire, ad esempio, che bisogna ragionare a “mente fredda”, perché è raro che un giudizio trinciato a “mente calda”, sull’onda cioè di un’emozione o di una passione, risponda alla realtà.
Un conto, però, è che il calore, risalendo dalla natura (flamma urens), ci privi del ben dell’intelletto, rendendoci così illogici, altro che, discendendo dallo spirito (flamma non urens), ci dia l’intelletto d’amore, rendendoci così umanamente logici.
Dice Steiner: “L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima. E gli uomini che vengono presi da quell’impulso sviluppano una logica che sembra parlare di per se stessa, senza pietà e senza amore (in realtà è Arimane che parla per suo mezzo), una logica in cui non si mostra per nulla il giusto e intimo collegamento dell’anima e del cuore con ciò che l’uomo pensa, dice e fa”.
Solo il calore che proviene dal cuore (e al quale apre il varco il “fiammeggiante principe del pensiero”) può dunque debellare (nella testa) la fredda e spietata logica arimanica, giacché il calore che proviene dalla pancia, rendendo illogici o irragionevoli, non fa che giustificarne e rafforzarne il monopolio.
Come vedete, una cosa è che la testa venga vivificata dal cuore, altra che il cuore venga mortificato dalla testa. Questo fa oggi, ad esempio, il “cefalocentrismo”, nella convinzione (tutta arimanica) che siamo solo testa, e ch’è il cervello a pensare, sentire e volere. Si è perfino arrivati, come sapete, ad affidare all’elettroencefalogramma il compito di rilevare e sancire il nostro stato di morte.
Riguardo al rapporto delle qualità con l’Io (in cui è il Logos, e quindi l’Essere dell’amore), sarà bene tornare a meditare queste parole di Paolo: “Quand’anche io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho l’amore, io sono un bronzo che suona o un cembalo che squilla. Di più, avessi pure il dono della profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e avessi una fede tale da trasportar le montagne, se non ho l’amore, io sono un niente. Anzi anche se distribuissi tutti i miei beni ai poveri, e dessi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho l’amore, tutto questo non mi giova a nulla. L’amore è longanime, l’amore è benigno, non è invidioso, l’amore non si vanta, né s’insuperbisce; non rifiuta nessun servizio ai fratelli, non cerca il proprio interesse, non s’irrita; non tien conto del male che riceve; non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,1-7).

Michele invece non si è mai a p p r o p r i a t o dell’intellettualità. Egli la amministra come forza divino-spirituale, sentendosi unito con le potenze divino-spirituali. E compenetrando l’intellettualità, egli mostra anche come essa contenga la possibilità di essere un’espressione del cuore e dell’anima, altrettanto bene quanto lo è della testa e dello spirito. Michele parta infatti in sé tutte le forze primordiali delle divinità, sue e dell’uomo. Perciò egli non trasmette all’intellettualità nulla di gelido, di insensibile, ma la accompagna in modo interiormente caldo e pieno di anima” (p. 102).

L’intellettualità, di cui Arimane si è appropriato “in un’epoca in cui non poteva ancora interiorizzarla in sé”, non ha per ciò stesso a che fare “col cuore e con l’anima”, mentre l’intellettualità, di cui Michele “non si è mai appropriato”, mostra di poter essere “un’espressione del cuore e dell’anima, altrettanto bene quanto lo è della testa e dello spirito”.
Non si tratta pertanto di scegliere (come in genere si crede) tra la logicità e l’illogicità o tra la razionalità e l’irrazionalità, ma di portarsi al di là di questi dualismi per esperire una terza realtà: ossia quella del pensare umano, che agli occhi di Lucifero appare arimanicamente freddo e razionale, mentre a quelli di Arimane appare lucifericamente caldo e irrazionale (così scrive, ad esempio, Piergiorgio Odifreddi: “Il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell’intelligenza dell’uomo”) (6). E qual è il “pensare umano”? Lo abbiamo detto: quello in grado di muoversi in libertà, unitamente all’Io, tra i diversi livelli di coscienza e i corrispondenti livelli di realtà.
Ancora una parola sull’”appropriato”. Ricordate quel che dice il Cristo dello Spirito Santo? “Egli vi guiderà verso tutta la verità, perché non vi parlerà da se stesso” (Gv 16,13). Non ci “parlerà da se stesso”, poiché appunto non si “approprierà” di ciò che riceverà dal Padre e dal Figlio, bensì lascerà che l’Uno e l’Altro agiscano attraverso di Lui, così come Michele lascia che agiscano, attraverso di lui, le “potenze divino-spirituali”.

Qui è anche la ragione per la quale Michele si muove nel cosmo con volto serio e con serio gesto. L’essere così legato nel proprio intimo con il contenuto intelligente, come lo è Michele, significa al tempo stesso dover adempiere il compito di non inserire in quel contenuto nessun arbitrio soggettivo, nessuna brama o desiderio. Altrimenti la logica diventa arbitrio di u n essere, invece che espressione del cosmo. Michele considera sua virtù di badare severamente a che il suo essere resti espressione dell’essere universale, e di trattenere nell’interiorità tutto ciò che di individuale [soggettivo] vuole agitarvisi” (pp. 102-103).

Dice Goethe: “Osservando la natura, così nei suoi fenomeni grandi come in quelli piccoli, mi sono posto costantemente questa domanda: “E’ l’oggetto che parla o sei tu?”. Ed è anche sotto questa luce che osservavo i miei predecessori e collaboratori” (7).
Quella di Michele è la serietà (moralità) di una conoscenza che, al contrario di quella odierna, divenuta sempre più “frivola” (“Non vivete più come i Gentili, – ammoniva già Paolo – la cui condotta segue la frivolezza dei loro pensieri” – Ef 4,17), tende con amore verso l’oggetto, trattenendo nell’interiorità tutto ciò che di personale o soggettivo vorrebbe vanitosamente introdurvisi.
E’ un non “parlare da se stessi” o un dirsi, parafrasando Paolo, “non io, ma l’oggetto in me”, “non io, ma il fenomeno in me” o “non io, ma il mondo in me”.

Il suo animo è rivolto verso i grandi nessi del cosmo: questo esprime il suo volto; la sua volontà, che si accosta all’uomo, deve rispecchiare ciò che egli vede nel cosmo: questo esprime il suo contegno, il suo gesto. Michele è serio in tutto perché la serietà, come manifestazione di un essere, è il riflesso del cosmo attraverso quell’essere; il sorriso è invece l’espressione di ciò che, partendo da un essere, irradia nel mondo.
Una delle immaginazioni di Michele è anche questa: egli opera nel corso del tempo, portando la luce dal cosmo come essere nel suo essere; egli opera quale essere come un mondo, affermando se stesso soltanto con l’affermare il mondo, adducendo forze alla terra da ogni luogo dell’universo
” (p. 103).

Si diceva, una volta: “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”. La conoscenza, in quanto espressione dello Spirito Santo o dello “Spirito di Verità”, esige serietà (non, si badi, “seriosità”), e non ammette quindi scherzi. “La serietà, come manifestazione di un essere, – dice Steiner – è il riflesso del cosmo attraverso quell’essere; il sorriso è invece l’espressione di ciò che, partendo da un essere, irradia nel mondo”.
E’ bene dunque diffidare (spiritualmente), sia di chi ride quasi sempre (come può capitare ai tipi isterici, soprattutto se sottesi dal temperamento sanguigno), sia di chi non ride quasi mai (come può capitare ai tipi nevrastenici, soprattutto se sottesi dal temperamento melanconico).
Dice ancora Steiner che Michele afferma “se stesso soltanto con l’affermare il mondo”. In quale errore incorrono dunque i tanti che bramano oggi “affermarsi” o “realizzarsi”? In quello di volersi “affermare” o “realizzare” amando se stessi, e non l’oggetto (“Amare se stessi – diceva Oscar Wilde – è l’inizio di un idillio che dura tutta la vita”).
(Sulla robusta copertina di un recente libro di Fabio Marchesi, intitolato: Àmati! , c’è addirittura uno specchio in cui potersi rimirare [8].)
Il sano movimento dell’autorealizzazione è infatti un movimento indiretto o transitivo, cioè a dire un movimento che passa attraverso l’oggetto, delegandogli tacitamente il compito di “realizzare” il soggetto.
Non è infatti attraverso la pittura che si è “realizzato” Raffaello, o attraverso la poesia che si è “realizzato” Dante, o attraverso la musica che si è “realizzato” Mozart, o attraverso la scienza che si è “realizzato” Galilei?
Non pochi, al contrario, si danno a dipingere, poetare, comporre o ricercare al solo scopo di sentirsi pittori, poeti, musicisti o scienziati e di potersi presentare in cotali vesti agli altri e al mondo.

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Di Lucio Russo
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