Massime antroposofiche
121/122/123 – 2°

M

Invece un’immaginazione di Arimane è la seguente: nel suo cammino egli vorrebbe, dal tempo, conquistare lo spazio; egli ha intorno a sé tenebre in cui manda i raggi della propria luce: ha intorno a sé tanto maggior gelo quanto più raggiunge delle proprie intenzioni; si muove come un mondo che si restringe interamente in un essere, nel proprio; affermando se stesso soltanto nel rinnegare il mondo, si muove come se portasse con sé le forze paurose di oscure grotte sotterranee” (p. 103).

Vedete, quello di Michele è il movimento centrifugo di un soggetto (di un Io) che più diviene mondo (verità) più diviene se stesso, mentre quello di Arimane è il movimento centripeto di un soggetto (di un ego) che più diviene se stesso (opinione) più respinge o rinnega (relativisticamente o nichilisticamente) il mondo.
Ascoltate queste parole di Scaligero: “L’Io può compiersi in quanto non sia se stesso, ma il mondo: in quanto sia centro, ma effuso nell’immenso: dimentico di sé, sia immerso nelle cose e con ciò le abbia veramente, essendo delle cose il fondamento: anelato da tutte le cose. La potenza dell’Io è essere dal fondamento; ma esso lo è quando s’immerge nel mondo, perde se stesso nell’altro, essendo l’Io che l’altro cerca come fondamento. Perciò, nel donarsi, l’Io attua la sua infinità: riempie di suo movimento lo spazio che lo separa dall’altro e per cui l’altro è altro” (9).
Vi propongo la seguente meditazione (10):

Nei puri raggi della luce
risplende la Divinità del mondo.
Nel puro amore per tutti gli esseri
irraggia l’essenza divina della mia anima.
Raggiungo la quiete nella Divinità del mondo;
troverò me stesso
nella Divinità del mondo.

Quando l’uomo cerca la libertà senza egoismo, quando la libertà diventa per lui puro amore per l’azione da compiere, allora egli ha la possibilità di avvicinarsi a Michele. Quando invece vuole agire in libertà sviluppando l’egoismo, quando la libertà diventa per lui il superbo sentimento di manifestare se stesso nell’azione, allora l’uomo è in pericolo di cadere nella sfera di Arimane.
Le immaginazioni qui descritte si accendono a seconda che l’azione umana sia mossa dall’amore dell’uomo per la azione (Michele), oppure dall’amore dell’uomo per se stesso in quanto agisce (Arimane)
” (pp. 103-104).

Un conto, dunque, è amare ciò che si fa, cioè servirsi di se stessi per illuminare con calore l’oggetto, altro è amare se stessi in quanto si fa, cioè servirsi dell’oggetto per illuminare con calore se stessi.
Si tratta di una differenza che riguarda la sfera profonda delle intenzioni (della vera moralità), e ch’è perciò impossibile cogliere se si osservano e giudicano le cose in superficie o dall’esterno (come fanno il materialismo e il moralismo).
Osserva in proposito Steiner: “Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito e intendimento rispetto a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di osservarne le azioni [il comportamento]; ma bisognerà avere almeno un po’ delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole penetrarne le intenzioni” (11).
Non crediate che questo non ci riguardi. Anche dell’antroposofia ci si può infatti occupare, sia per amore dell’uomo (dell’Io e del Cristo che lo inabita), sia per amore di se stessi o dell’ego (giacché il sentirsi “occultisti”, “maghi” o “Guru” può gratificare ancor più del sentirsi artisti o scienziati … e pensare che Filippo Neri preferiva passare per “matto” piuttosto che per “santo”).
Ma amare l’uomo vuol dire tanto amare il mondo quanto patire l’assoluta incapacità dell’ego di migliorarlo e umanarlo, e sentire per ciò stesso l’impellente bisogno di trasformare la propria natura (da Eva in Ave), per poter così divenire degli spiriti liberi e capaci di amore: cioè, dei veri uomini (“tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura / Nel ventre tuo si raccese l’amore/ …”).
“La misura dell’essere dell’uomo – scrive Scaligero – è la capacità di donarsi. Che non è un moto del sentire, anche se si attua mediante il sentire (…) Il moto iniziale è del pensare, in cui sorga il volere. Il pensare liberato è il suscitatore del sentire che può donarsi: che può essere amore” (12).
Solo in questo modo l’uomo può diventare una benedizione per l’uomo. Quanti si lasciano invece afferrare da Lucifero o Arimane non diventano purtroppo una benedizione, ma una maledizione.

Domanda: Che rapporto c’è tra il “pensare liberato” di cui parla qui Scaligero e l’”imagine sintesi” che dovrebbe concludere, sempre a detta di Scaligero, l’esercizio della concentrazione?
Risposta: Attento! Nel Manuale pratico della meditazione, Scaligero dice: “imagine sintesi, o concetto” (13), e non solo “imagine sintesi”. Tale esercizio si conclude infatti con la contemplazione del concetto (che è forma, ma non ha forma), e non del “pensare liberato” (che deve essere invece vivamente e previamente sperimentato come proprio movimento o proprio atto).
Ho detto, una sera, che se l’Io fosse un pescatore, il pensare sarebbe allora il pescare (cioè un’attività del soggetto), mentre i pensieri o i concetti sarebbero i pesci (che, una volta pescati – cioè estratti o “astratti” dal loro mondo – si mutano in morte rappresentazioni): “Attraverso il pensare – scrive infatti Steiner ne La filosofia della libertà – sorgono concetti e idee” (14).
Non dobbiamo dunque confondere i concetti e le idee, che sono mondo, dal pensare, ch’è invece, come ripeto, un movimento o un atto dell’Io.
Si potrebbe perfino dire, volendo, che l’Io è il pensare in quiete o il verbo quale soggetto, mentre il pensare è l’Io in movimento o il soggetto quale verbo.

Quando l’uomo, come essere libero, si sente vicino a Michele, egli è sulla via di portare la forza dell’intellettualità “nell’intero suo essere”; egli pensa sì con la testa, ma il cuore sente il chiarore o l’oscurità del pensiero; la volontà illumina l’essere dell’uomo, mentre i pensieri, come intenzioni, fluiscono in lui. L’uomo, diventando espressione del mondo, diventa sempre più uomo; trova se stesso non cercandosi, ma, nel volere, collegandosi con il mondo nell’amore” (p. 104).

Ripensiamo a quello schema in cui l’Io reale sta al centro, tra la sua proiezione cosciente, l’ego, e la sua proiezione incosciente, il non-ego (massima 61 e lettera 13 luglio 1924). Dissi allora che l’ego è l’Io come appare a se stesso quando si guarda nello specchio cerebrale, mentre il non-ego è l’Io così come viene sperimentato dall’ego.
Ebbene, portare la forza dell’intellettualità nell’intero nostro essere, significa portarla appunto al centro, nell’Io reale, ch’è l’Io del pensare, del sentire e del volere, così da poter pensare “con la testa”, sentendo al tempo stesso con il cuore “il chiarore o l’oscurità del pensiero”.
Dissi pure, se ricordate, ch’è solo conoscendo il mondo come uomo e l’uomo come mondo (vale a dire, l’ego come non-ego e il non-ego come ego, e quindi entrambi come Io) che si può ritrovare il Cristo.
Se si può arrivare a pensare (nonché a teorizzare), con la testa, che l’embrione non è un essere umano, ma solo un “ammasso di cellule” o un “ricciolo di materia”, oppure che l’essere umano non è che uno “psicozoo”, è soltanto per il fatto che il cuore non è più in grado di sentire la grossolanità, l’oscurità o la dis-umanità di tali pensieri.
Non ne prova orrore il cuore di quanti li pensano, ma può provarlo, con profondo dolore, il cuore di quanti li leggono o li ascoltano. “Sono ancora pochi – osserva Steiner – quelli che sentono a quale orribile avvenire stia avviandosi l’umanità, se non imparerà a riconoscere l’importanza della posta in giuoco e l’entità del regresso compiuto rispetto a traguardi già raggiunti nel passato” (15) (ad esempio, da Goethe).

Quando, nello sviluppare la sua libertà, l’uomo cade nelle reti di Arimane, egli viene assorbito nell’intellettualità come in un automatismo spirituale nel quale è una parte, e non più se stesso. Tutto il suo pensare diventa esperienza della testa; ma la testa lo separa dall’esperienza individuale del suo cuore e del suo volere, e annulla la vita individuale. L’uomo va sempre più perdendo l’espressione della sua essenza umana interiore, mentre diventa espressione del suo proprio essere; cercando se stesso, si perde; si sottrae al mondo al quale nega l’amore; egli sperimenta veramente se stesso soltanto quando ama il mondo” (p 104).

Come non pensare, sentendo parlare di “automatismo spirituale”, alle cosiddette nevrosi “ossessivo-coatte”?
Vedete questo libro? S’intitola: Stili nevrotici, ed è stato scritto da uno psicoterapeuta americano che si chiama David Shapiro. Ha i suoi anni (è stato pubblicato in italiano nel 1969), ma ritengo sia ancor oggi uno dei più interessanti e originali studi sulle nevrosi.
Ascoltate quanto dice riguardo allo “stile ossessivo coatto”: “Il termine “rigidità” è spesso usato per descrivere varie caratteristiche degli ossessivo-coatti. Può ad esempio riferirsi a una positura rigida del corpo, a delle maniere sociali dure, impacciate, come di chi si regga sui trampoli, o a una generale tendenza a persistere nel corso di un’azione che è diventata inopportuna o addirittura assurda. Ma soprattutto la “rigidità” descrive una maniera di pensare” (16).
Vedete, “una maniera di pensare” che ha il carattere di quell’automatismo rilevato, al di là dell’ambito delle nevrosi, anche da Scaligero: ricordate? “Nel generale pensare umano qualcosa si è sclerotizzato”, poiché l’elemento “disindividuale” [positivamente proprio della scienza] è “trapassato nell’automatismo dialettico, nella medianica impersonalità dello scienziato-tecnologo” (lettera 2 novembre 1924).
Una cosa è perciò il pensare che aderisce amorevolmente alla realtà inorganica, altra il pensare al quale Arimane toglie il carattere umano, per conferirgli quello della macchina.
(Togliere il carattere umano al pensare vuol dire toglierlo anche al linguaggio, come si verifica, ad esempio, nella scuola, quando si preferisce parlare di “funzioni obiettivo” o “funzioni strumentali” anziché di insegnanti, di “comunicazione” anziché di letteratura, o di “utenti” anziché di genitori e alunni [17].)
E’ soltanto perché ci si è ridotti così (perché, sprovvisti del “filo di Arianna” del pensare, ci si è smarriti nel “labirinto” cerebrale dei pensati, finendo così nelle grinfie del Minotauro) che si può arrivare a pensare, come oggi, che il computer sia più intelligente dell’essere umano.
E’ pur vero, d’altro canto, che tra un essere umano che si riducesse a una macchina, ma che mai potrebbe essere tale perché la sua residua e insopprimibile umanità ne intralcerebbe il funzionamento, e una vera macchina, sarebbe da preferire senza dubbio quest’ultima (così come sarebbe da preferire, ad esempio, un vero pesce a un essere umano che, messosi in testa di essere un pesce, pretendesse di superarlo nel nuoto).

(…) L’epoca che ora si inizia richiede che l’umanità rivolga lo sguardo ad un mondo spirituale immediatamente confinante col mondo che viene sentito come mondo fisico, ad un mondo spirituale nel quale si può trovare ciò che qui è stato descritto come entità e missione di Michele. Infatti il mondo che l’uomo, osservando questo mondo fisico, si dipinge come natura, non è nemmeno quello in cui immediatamente egli vive, ma è un mondo che sta tanto al di sotto del mondo veramente umano, quanto il mondo di Michele ne sta al di sopra. Soltanto l’uomo non si accorge che inconsciamente, facendosi un’immagine del suo mondo, ne sorge veramente l’immagine di un altro. Dipingendosi quell’immagine, egli sta già eliminando se stesso e sta per cadere nell’automatismo spirituale. L’uomo può conservare la sua umanità soltanto se, all’immagine nella quale egli perde se stesso, come nella concezione naturale, egli oppone l’altra in cui domina Michele, nella quale Michele conduce alla via verso il Cristo” (p. 105).

Il “mondo spirituale immediatamente confinante col mondo che viene sentito come mondo fisico”, e “nel quale si può trovare ciò che qui è stato descritto come entità e missione di Michele” è, come sappiamo, il mondo eterico della vita, del divenire e del tempo.
Abbiamo visto, infatti, che “una delle immaginazioni di Michele è anche questa: egli opera nel corso del tempo …”; e che “invece un’immaginazione di Arimane è la seguente: nel suo cammino egli vorrebbe, dal tempo, conquistare lo spazio …”.
Scrive Scaligero: “Non v’è evoluzione che non si compia come ricongiungimento della forma creata con il suo principio” (18).
Michele vuole dunque esortarci a passare dallo spazio al tempo, per permetterci di attraversare poi la soglia che divide la sfera (spazio-temporale) dell’esistenza da quella (animico-spirituale) dell’essenza (o, come dice Scaligero, del “principio”), mentre Arimane vuole spingerci dal tempo nello spazio, per poter così congelare ed eternare la separazione tra la “forma creata” e “il suo principio”.
Occupiamoci adesso delle massime.

121) “Non si è ancora compreso nella sua importanza per il mondo qualcosa che vi agisce – per esempio i pensieri universali – se ci si arresta a questo agente in sé; bisogna invece guardare conoscitivamente agli esseri da cui proviene; ad esempio, per i pensieri universali, se siano portati nel mondo e attraverso il mondo da Michele o da Arimane”.

Come vedete, e come abbiamo detto e ripetuto, una cosa è il soggetto, altra le idee, i concetti o i “pensieri universali”. Non dobbiamo perciò fermarci a questi, ma sforzarci di capire da chi ci vengono ispirati o trasmessi.
Sapete che uso parlare della “scienza dello spirito” come di una “scienza degli spiriti”, proprio perché ci permette di distinguere un essere (elementare) dall’altro, uno spirito dall’altro o una Gerarchia dall’altra.
Sappiamo inoltre che lo spirito è il soggetto (l’Io) dal quale (per via d’intuizione o ispirazione) proviene quell’idea che mediante l’agire possiamo poi trasformare in azione.
Ricorderete che quando provai a riassumere in un “motto” l’insegnamento etico de La filosofia della libertà, dissi (parafrasando il noto “ama, e fa’ ciò che vuoi” di Agostino): “Sii l’Io, e fa’ ciò che vuoi”.
Dissi così, perché non tanto importa che sia morale l’azione (nella quale si è tradotta, mediante l’agire, l’idea), quanto piuttosto che sia morale il soggetto (dal quale fluisce, quale intenzione, l’idea).
Si parla qui di Michele e di Arimane, e quindi di un intelletto che può, sia portarsi deliberatamente a livelli di coscienza superiori (il primo dei quali è quello immaginativo), sia farsi inconsciamente attrarre da Arimane verso quel meccanicismo o automatismo intellettualistico che caratterizza l’odierna cultura “tecnoscientifica”.

122) “Ciò che, provenendo da un essere, può agire salutarmente e costruttivamente a causa della relazione che questo essere ha col mondo, può dimostrarsi malsano e deleterio se proviene da un altro essere. I pensieri universali portano l’uomo verso il futuro se egli li riceve da Michele; lo sviano invece dal sano futuro per lui se glieli può dare Arimane”.

Non aveva dunque torto, Jung, nel dire che l’idea giusta nell’uomo sbagliato è sbagliata (anche se qui dovremmo dire: “nell’entità spirituale sbagliata”).
Come vedete, si tratta di una “diagnosi differenziale” che presuppone una qualche capacità di discernere gli spiriti.
Abbiamo detto, ad esempio, che Lucifero guarda al passato, mentre Michele e Arimane guardano al futuro: il futuro di Michele è però l’uomo (spirituale), mentre quello di Arimane è l’androide o la macchina (materiale).
Abbiamo anche detto che il futuro di Michele è il passato, in quanto dobbiamo tornare al Logos (a quel Logos che era appunto “in principio”), ma che il passato al quale (grazie a lui) torneremo sarà diverso da quello dal quale ci siamo un tempo allontanati, dal momento che si tratterà di una realtà coscientemente e liberamente ricercata, amata e ri-creata.
Michele e Arimane, al contrario di Lucifero, ch’è un “conservatore”, sono dunque, per così dire, dei “progressisti”: c’è però un “progressismo” reale, così come c’è un “progressismo” apparente e ingannevole, ed è invero tragico (come dimostra la storia del Novecento) il non saper distinguere l’uno dall’altro.
Si tenga tuttavia presente che, dal punto di vista del tempo, Lucifero, come si è soliti dire, è di “destra” e Arimane è di “sinistra”, mentre, dal punto di vista dello spazio, Lucifero è di “sinistra” e Arimane è di “destra” (19).

123) “Da simili osservazioni si è sempre più indotti a superare la concezione di una spiritualità indeterminata che debba valere panteisticamente sulla base delle cose; e si è guidati ad una concezione determinata, concreta, che è in grado di rappresentarsi entità spirituali delle gerarchie superiori. Ché la realtà consiste dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione fra un essere e un altro. Lo si può capire soltanto quando si può gettare lo sguardo sugli esseri attivi”.

E’ difficile immaginare un naturalista che non sappia distinguere un cane da un gatto, una rosa da una margherita o l’argento dall’oro (anche se, a dire il vero, assistetti una volta alla conferenza di un botanico che esordì dicendo: ”Non chiedetemi, per carità, che cos’è una pianta!”); non è difficile invece immaginare uno spiritualista che non sappia distinguere le diverse entità spirituali: non sulla carta, s’intende, ma nel vivo delle sue esperienze esistenziali o animico-spirituali.
Un conto, infatti, è lo spiritualismo (la “spiritualità indeterminata”), altro la scienza dello spirito, che permette, in quanto appunto scienza, di analizzare e discriminare.
Dice Steiner che “la realtà consiste dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione fra un essere e un altro”: è questa un’asserzione che sarebbe bene adottare quale contenuto di meditazione.
Mi è capitato, giorni fa, di leggere, sulla stampa, il breve resoconto di un dibattito, svoltosi a Como, tra Edoardo Boncinelli ed Emanuele Severino. Pare che a un certo punto si siano scontrati, perché Severino ha detto che la filosofia guarda al Tutto (con la maiuscola), e quando Boncinelli ha replicato d’ignorare che cosa sia tale Tutto, dal momento che la percezione coglie solo le differenze, Severino (detto, non a caso, “doctor implacabilis”) gli ha allora consigliato (come a uno scolaro) di andarsi a rileggere Aristotele.
Fatto si è che quanti parlano, come Severino, di un Tutto astratto non si avvedono di fare così il gioco di quanti, come Boncinelli, sono pronti a opporre, a tale filosofema, le concrete differenze (singolarità) colte dalla percezione (dalla scienza naturale).
Hanno però coscienza, costoro, del modo in cui sanno delle differenze colte dalla percezione: del modo, cioè, in cui riescono a determinare, ad esempio, che la percezione A è un “fischio”, mentre quella B è un “fiasco”? Hanno forse dimenticato che, per Kant (di cui Boncinelli si proclama grande estimatore), la percezione non sa nulla, in quanto, di per sé, è “cieca”?
In realtà, asserire, come fa Boncinelli, che la percezione coglie solo le differenze, significa asserire che l’Io, mediante la percezione, riceve (qui e ora) una pluralità di stimoli (sensoriali) che pensa come A, o una pluralità di stimoli che pensa come B, o una pluralità di stimoli che pensa come C, e così via: significa asserire, cioè, che A, B e C sono concetti (ovvero, le determinazioni sintetico-ideali di quanto viene trasmesso in modo analitico dai sensi). Quelle di cui parla Boncinelli sono pertanto differenze concettuali, e non percettive.
Sono tali contenuti, in quanto sintetico-ideali, a costituire dunque il tutto (minuscolo) di ogni differenza (singolarità).
Se si realizza questo, si realizza allora che il Tutto (quello maiuscolo al quale guarda Severino) non è che il Tutto dei tutti: ovvero, il “Concetto dei concetti” (l’Io), e non delle percezioni.
Basta fare quindi un altro passo per realizzare che A, B e C, in quanto concetti, sono delle entità, e che la realtà – come dice Steiner – consiste dunque “dappertutto in entità; e ciò che in essa non è entità, è attività che si esplica nella relazione fra un essere e un altro”.
Morale della favola: solo chi coglie il tutto delle singole cose, può cogliere il Tutto di tutte le cose.

Note:

1) R.Steiner: Sedi di misteri nel medioevo. La festa di Pasqua – Antroposofica, Milano 1984, p. 21;
2) R.Steiner: Lo sviluppo occulto dell’uomo nelle sue quattro parti costitutive – Antroposofica, Milano 1986, p. 70;
3) M.Scaligero: La luce. Introduzione all’immaginazione creatrice – Tilopa, Roma 1964, p. 20;
4) J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 142;
5) B.Forte: Trinità come storia – Paoline, Cinisello-Balsamo (Mi) 1985, p. 13;
6) P.Odifreddi: Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) – Longanesi, Milano 2007, p. 10;
7) J.W.Goethe: Massime e riflessioni, p. 140;
8) cfr. F.Marchesi: Àmati! – Tecniche Nuove, Milano 2009;
9) M.Scaligero: Dell’amore immortale – Tilopa, Roma 1982, p. 16;
10) R.Steiner: Indicazioni per una scuola esoterica – Antroposofica, Milano 1999, p. 49;
11) R.Steiner: Iniziazione e misteri – Rocco, Napoli 1953, pp. 30-31;
12) M.Scaligero: Dell’amore immortale, p. 19;
13) M.Scaligero: Manuale pratico della meditazione – Tilopa, Roma 1984, p. 31;
14) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, p. 48;
15) R.Steiner: Impulsi evolutivi interiori dell’umanità. Goethe e la crisi del secolo diciannovesimo – Antroposofica, Milano 1976, p. 281;
16) D.Shapiro: Stili nevrotici – Astrolabio, Roma 1969, p. 29;
17) cfr. La scuola e la mortificazione delle anime, 19 dicembre 2004;
18) M.Scaligero: Dell’amore immortale, p. 11;
19) R.Steiner: Il mondo come risultato di processi di equilibrio – Antroposofica, Milano 2012, p. 32.

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Di Lucio Russo
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