Del “Bit Bang”

D

Scrive Hegel: “In quanto Hume ripone in modo del tutto soggettivo la necessità, la unità degli opposti, nell’abitudine, bisogna dire che più giù di così non si può scendere col pensiero” (1).
Purtroppo sbagliava. Che si possa scendere ancora “più giù” col pensiero lo dimostra l’odierna “filosofia digitale”. Ne trattano con serietà e competenza Giuseppe O. Longo (ingegnere, matematico, romanziere, drammaturgo, divulgatore scientifico, attore), e Andrea Vaccaro (filosofo e teologo) nel loro Bit Bang. La nascita della filosofia digitale (2).
Ne riporteremo e commenteremo qui alcuni passi unitamente a varie affermazioni degli autori che vi sono citati.

Gordana Dodig-Crnkvic offre, nel Dialogo (3), “un’utile schematizzazione di come il paradigma pancomputazionale possa essere declinato diversamente dai diversi esponenti della filosofia digitale. Accanto a quello che è definito il “principio pancomputazionale” vero e proprio (“tutti i processi sono processi computazionali”), stanno le due versioni forte e debole. La versione forte si sostanzia nell’asserzione secondo cui “l’Universo è un computer”, dove si sottolinea la dimensione ontologica del verbo “essere”; la versione debole, invece, passa dall’ontologia all’epistemologia, e si limita a sostenere che “tutti i processi possono essere descritti come processi computazionali” (4).
Che cosa rappresentano queste due versioni? Quella “forte” (ontologica) rappresenta la riedizione, in chiave computazionale, dell’oggettivismo metafisico, mentre quella “debole” (epistemologica) rappresenta la riedizione, in chiave computazionale, del soggettivismo kantiano.
Non si tratta dunque di “un punto di vista nuovo” (5) o di “un tipo di scienza del tutto nuovo” (6), come sostengono, rispettivamente, Edward Fredkin e Stephen Wolfram, bensì di una (inconscia) regressione al passato remoto o prossimo.

“Da quando, come fonte di descrizioni e spiegazioni del cosmo, la matematica ha preso il posto di Prometeo e di ogni altro possibile demiurgo plasmatore di mondi o mitico semidio, si sono presentate due concezioni forti della realtà. Per la prima l’universo e i fenomeni che esso ospita hanno natura continua; per la seconda tutto è discreto” (7).
Grazie alla scienza dello spirito, sappiamo invece che “l’universo e i fenomeni che esso ospita hanno natura continua” quando il pensare, ponderando la realtà organica, muove in modo continuo (immaginativo), che hanno natura discreta quando il pensare, ponderando la realtà inorganica, muove in modo discreto (rappresentativo o algoritmico), e che il pensare discreto sorge quando il pensare continuo comincia a scorrere tra le “chiuse” (le sinapsi) del sistema neuro-sensoriale (afferma John von Neumann: “Il sistema nervoso centrale ha carattere digitale”) (8).
Non si tratta dunque di due opposti, ma di due livelli qualitativamente diversi del movimento del pensare.
La natura non è, come crede Stephen Wolfram, il regno del “computare” (9), bensì il regno del “pensare nel volere” (della “saggezza” che gli Spiriti della saggezza incorporarono negli esseri terrestri durante la fase evolutiva dell’“antica Luna”).

“Sul discreto è basato per intero l’edificio della meccanica quantistica, che sembra costituire la descrizione finora più adeguata del mondo microscopico” (10).
Altrove, abbiamo scritto (11): afferma “Gino Segrè: “Planck aveva scoperto di aver bisogno di assumere che gli oggetti riscaldati emettono e assorbono radiazione in pacchetti discreti di energia piuttosto che secondo un flusso continuo, come si era sempre pensato. Chiamò questi pacchetti quanti”. Ma che cosa abbiamo visto la volta scorsa (12)? Che la luce “è qualcosa che si sgretola”, che “la luce che si sgretola è l’elettricità”, e che “ciò che conosciamo come elettricità è la luce che distrugge se stessa in seno alla materia” (quanto vale per la luce vale anche per il pensare: anche questo, infatti, “distrugge se stesso in seno alla materia” [al sistema neuro-sensoriale], trasformandosi così, come abbiamo visto, da continuo in discreto). I “pacchetti” o i “quanti” di luce di cui parla Planck (i “fotoni”) sono dunque il risultato non della luce che vive, ma della luce che muore, e che, morendo, al pari del nostro corpo fisico, si decompone o “disgrega”. Pensate, ancora una volta, a un puzzle. Chi lo crea parte dall’uno (da una figura) e arriva al molteplice (ai pezzi in cui l’ha suddivisa); chi ci gioca parte al contrario dal molteplice (dai pezzi) e arriva all’uno (alla figura). Una cosa, dunque, è la figura di partenza, intonsa (“continua”), altra la figura di arrivo, assemblata (“discreta”). Ebbene, che cosa accadrebbe se s’ignorasse il primo di questi due processi, quello che va dall’uno al molteplice? Accadrebbe proprio quello che accade quando si crede, come fa la meccanica quantistica, che i fotoni facciano la luce, e non che la luce, disgregandosi, faccia i fotoni, e che i “quanti” abbiano a che fare con la vita, e non con la morte”.
(La “luce che vive” è la veste o l’involucro degli Spiriti della forma (Elohim o Spiriti della luce); la “luce che muore” è la forma che si frantuma o va in pezzi [i “pacchetti discreti di energia” di Planck].)
Secondo alcuni dei suoi esponenti, la filosofia digitale si collocherebbe tra lo “spiritualismo desacralizzato” e il “materialismo dematerializzato” (13). La verità è però un’altra: la filosofia digitale, dopo il materialismo della materia (meccanicistico) e quello dell’energia (dialettico), rappresenta il materialismo di “nuova generazione” (informatico).
“L’informazione – afferma appunto Norbert Wiener – è informazione, non materia né energia. Un materialismo che non sia in grado di ammettere questo non è destinato a sopravvivere” (14).

L’informazione non è “soltanto un principio esplicativo, come sostennero a suo tempo Gregory Bateson e i suoi seguaci, ma una vera e propria arché ontologica, restando ancora da decidere se si tratti del principio primo e unico, cui sarebbero subordinate materia ed energia, oppure se queste ultime costituiscono con l’informazione una sorta di triade primordiale” (15).
Ma che cos’è l’informazione? “La filosofia digitale, anziché spiegare che cosa sia l’informazione (è l’informazione, infatti, che spiega che cosa sia il resto), si limita ad associarla all’atomo democriteo o, meglio, al numero di Pitagora e alla monade di Leibniz” (16). Hans Christian von Bayer afferma che “l’informazione media tra il materiale e l’astratto, il reale e l’ideale” (17), Edward Fredkin dichiara che “di tutte le cose al mondo per le quali ci si domanda: “di cosa è fatta?” L’unica che conosco per la quale non si deve rispondere in termini di qualcos’altro è l’informazione” (18) e Claude E. Shannon asserisce che “l’unità d’informazione può essere definita come la più piccola differenza capace di causare una differenza”” (19).
L’informazione ha a che fare con i “pensieri” (con i concetti o con le idee), e non con il “pensare” (ch’è una forza o un’attività) (20).
Asserire che l’unica cosa “per la quale non si deve rispondere in termini di qualcos’altro è l’informazione” significa asserire che l’informazione si regge su di sé. Ma non è così: l’informazione si regge sui concetti e sulle idee, mentre i concetti e le idee si reggono su di sé.
L’informazione, che non è una rappresentazione, poiché non avendo nulla a che fare con la percezione sensibile non può mediare, come sostiene Hans Christian von Bayer, tra il reale (il percetto) e l’ideale (il concetto), è in realtà una foglia di fico che nasconde la realtà del concetto (che tiene “ingiustamente imprigionata – direbbe Paolo – la verità” Rm 1,18). E’ il concetto, infatti, in quanto “essere determinato”, “essenza” o “qualità”, a costituire “la più piccola differenza capace di causare una differenza”.
La realtà del concetto viene a tal punto rimossa (diceva Hegel: “Certamente, in tempi moderni, a nessun concetto è andata così male come al concetto stesso, al concetto in sé e per sé”) (21) che Gregory Chaitin non si fa scrupolo di elevare il computer “al grado di “concetto filosofico” rivoluzionario” (22).
Ma non è questa la sola astrusità: per Konrad Zuse, ad esempio, l’Universo è un “Grande Computer” (23), per Edward Fredkin “ci dev’essere un Creatore-Programmatore” (“the Ultimate Computer”) (24) e per Gregory Chaitin “Tutto è software” e “Dio è un programmatore” (25). Kevin Kelly giunge addirittura ad affermare: “Nel Vecchio Testamento, quando Mosè chiede al Creatore: “Chi sei tu?”, questi, in vero, dice: “Sono”. E’ un bit. Un bit onnipotente. Sì. Uno. Esisto. L’affermazione più semplice possibile” (26).
(Si noti l’omissione dell’Io: nel Vecchio Testamento, Dio dice: “Io sono colui che sono”, e non soltanto: “Sono”.)
Tutto ciò è talmente astruso (in quanto frutto – direbbe sempre Paolo – di “vane elucubrazioni” – Rm 1,21) che lo stesso Longo, verso la fine del libro, dice: “Siamo andati troppo avanti col pensiero, nella nostra mente c’è del marcio: pensatori astenici, deboli, smarriti, cerchiamo di nasconderci dietro l’illusione tenace della Verità, ma a tratti il mondo illumina questo repositorio e ci contorciamo bianchicci sotto il raggio abbagliante della sua lanterna: dobbiamo ammettere che siamo solo interpreti” (27).
Se però si amasse il “reale”, e non il “virtuale”, e si avesse perciò il coraggio di rimuovere la foglia di fico dell’informazione, si scoprirebbe che l’idea non è “algoritmica” né parte di un “Iperuranio computazionale”, bensì una “forma” (un’entità spirituale che è forma, ma non ha forma) che modella o per l’appunto “informa” la realtà.
Prescindendo dall’“Io sono” (dal Logos che ne è il fondamento), la vera “triade primordiale” è pertanto costituita dal pensiero (dalle idee), dall’energia e dalla materia (dall’astrale, dall’eterico e dal fisico).

I bit “sono l’elemento primo e unico che sostanzia tutto l’esistente. Il bit è il principio e l’essenza delle cose. Il bit è l’arché, come lo erano l’aria per Anassimene o gli atomi per Democrito: c’è un ritorno, in apparenza inatteso ma in effetti ovvio, della filosofia presocratica” (28); “Il termine “bit” ha due significati. Esso può denotare sia l’unità di misura della quantità d’informazione (binary unit), sia (ed è l’accezione più frequente) la cifra binaria 0 o 1 (binary digit)” (29).
Come si possa considerare una “unità di misura” o una “cifra binaria” un “arché”, e porla a fondamento (per giunta “monistico”) della realtà (“In principio – dichiara Seth Lloyd – era il bit”) (30), costituirebbe un mistero se non ci ricordassimo, vuoi di queste parole di Steiner: Arimane “vorrebbe vedere il mondo attuale interamente trasformato in un cosmo di essenza intellettuale (…) L’intellettualità emana da Arimane come un cosmico impulso gelido, senz’anima” (31), vuoi del fatto, rivelato sempre da Steiner, che c’è stata una incarnazione terrena di Lucifero nel 3000 a.C. e che ce ne sarà una di Arimane nel 3000 d.C..
Tanti e tali sono oggi i segni della preparazione di questo evento che anche Longo e Vaccaro ne hanno (a loro modo) un qualche presagio. Scrivono infatti: “La nascita, fosse anche di una filosofia, è inevitabilmente accompagnata da qualche travaglio. Nel caso della filosofia digitale è come se una nuova “creatura culturale” stesse scalciando per erompere sulla scena di questo mondo e “scegliesse” qualche oracolo per annunciare l’evento” (32).
Ma tale “creatura culturale” può fare dei rappresentanti della filosofia digitale i suoi “oracoli” in quanto questi, non avendo appreso a “discernere gli spiriti”, non sono in grado di distinguere il grano dal loglio: cioè a dire, l’“umano” da quel “disumano” che chiamano ingenuamente “postumano disincarnato o postumano in codice” (33).
Dice in proposito Longo: “Nella prospettiva del postumano in codice sembra attuarsi l’affrancamento da quell’ingombrante fardello che è il corpo: l’eliminazione di questo greve residuo di un’umanità primitiva e limitata è sempre stato il lucido sogno razionalistico della nostra civiltà. Con la sua riottosa propensione al peccato, con la sua imbarazzante capacità seduttiva, con la sua scandalosa attività copulatoria, con la sua miserabile caducità, il corpo si è sempre opposto all’aspirazione filosofica e scientifica di costruire un mondo puro, asettico, durevole, aspirazione che tocca il suo culmine nella seconda metà del Novecento con l’impresa dell’intelligenza artificiale funzionalistica” (34).
Non era questo il sogno (algidamente ascetico) di Goethe, che si doleva del fatto che fossero pochi “quelli che hanno il senso e il gusto del reale” (35), non lo era di Novalis, che considerava il corpo umano l’unico “tempio” esistente sulla terra, e tanto meno lo era di Steiner, che diceva: “Che cosa sia il “percepire” conoscente può essere sperimentato solo nel conoscere il mondo dei sensi. Se lo si è sperimentato, lo si può formare anche per il percepire spirituale. Ritraendosi da questo modo di percepire, ci si priva del tutto dell’esperienza percettiva e ci si riporta su un gradino dell’esperienza animica che è meno reale della percezione dei sensi” (36).

Arimane, come insegna la scienza dello spirito, è il demone ultra-intelligente della menzogna, dell’inganno o della simulazione. E’ proprio alla simulazione, però, che si affidano i filosofi digitali. “Dopo l’organon aristotelico della logica deduttiva e il novum organum baconiano dell’induzione”, è ora “la volta di un tertium organum: la simulazione” (37).
Osserva Vaccaro: “I filosofi digitali dimostrano di essere ben consapevoli della differenza che intercorre tra la realtà naturale e le varie attività simulate all’interno del computer. Il punto su cui i filosofi digitali tuttavia insistono concerne piuttosto il fatto che alla base sia della realtà naturale sia di quella simulata stia un unico e medesimo elemento: l’informazione, appunto” (38).
Si tratta dunque di filosofi che non s’impegnano a colmare la “differenza che intercorre tra la realtà naturale e le varie attività simulate all’interno del computer” sviluppando delle logiche che superino quella (binaria) del computer, bensì riducono la logica della vita (operante nel regno vegetale) e la logica dell’anima o della qualità (operante nel regno animale) a quella minerale (inorganica): ovvero, alla sola che conoscono e capiscono.
(Sia chiaro, a scanso di equivoci, che stiamo qui discutendo del valore conoscitivo della simulazione [del “tertium organum”], e non dell’utilità pratica dei cosiddetti “simulatori”.)

Il libro si chiude con queste parole: “Si potrebbe aggiungere al pensiero il sentimento, anzi il sentimento viene prima della ragione (…) scegliere la razionalità non è un atto razionale, viene prima (…) Ma la filosofia digitale può spiegare il sentimento?” (39).
Ricordiamo allora, per concludere, ciò che Goethe disse un giorno a Eckermann: “Io onoro la matematica, come la sublime e la utilissima delle scienze; purché però la si impieghi a proposito: e non sopporto che si voglia abusarla in campi, che non le appartengono, e dove quella nobile scienza apparisce come un assurdo. Come se non esistesse altro che quello che si può dimostrare matematicamente! E’ come se uno potesse esser tanto pazzo da non credere all’amore della sua bella, soltanto perché essa non è in grado di dimostrarglielo matematicamente! Matematicamente potrà dimostrargli la sua dote, non il suo amore” (40).

Note:

1) G.W.F.Hegel: Lezioni sulla storia della filosofia – La Nuova Italia, Firenze 1981, vol. 3,II, p. 231;
2) G.O.Longo-A.Vaccaro: Bit Bang. La nascita della filosofia digitale – Apogeo education – Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN) 2013;
3) il titolo completo è: A dialogue Concerning Two World Systems: info-computational vs Mechanicistic (G.Dodig-Cnrkovic-V.Müller);
4) G.O.Longo-A.Vaccaro: op.cit., p. 99;
5) ibid., p.47;
6) ibid., p.76;
7) ibid., p. VII;
8) ibid., p. 37;
9) ibid., p. 81;
10) ibid., p. VIII;
11) cfr. Massime antroposofiche 183/184/185 – 1°, 9 marzo 2014;
12) cfr. Massime antroposofiche 180/181/182 – 2°, 17 febbraio 2014;
13) G.O.Longo-A.Vaccaro: op.cit., p. 141;
14) ibid., p. 38;
15) ibid., p. XV;
16) ibid., p. 108;
17) ibid., p. 109;
18) ibid., p. 54;
19) ibid., p. 153;
20) cfr. Il pensare e i pensieri, 11 novembre 2013;
21) G.W.F.Hegel: Estetica – Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 107;
22) G.O.Longo-A.Vaccaro: op.cit., p. 60;
23) ibid., p. 25;
24) ibid., pp. 51-52;
25) ibid., p. 62;
26) ibid., p. 101;
27) ibid., pp. 184-185;
28) ibid., p. XII;
29) ibid., pp. 184-185;
30) ibid., p. 91;
31) R.Steiner: Massime antroposofiche – Antroposofica, Milano 1969, pp. 99 e 103;
32) G.O.Longo-A.Vaccaro: op.cit., p. 45;
33) ibid., p. 165;
34) ibid., pp. 165-166;
35) G.P.Eckermann: Colloqui col Goethe – Laterza, Bari 1912, vol. I, p. 168;
36) R.Steiner: Enigmi dell’essere umano – Antroposofica, Milano 2006, p. 124;
37) G.O.Longo-A.Vaccaro: op.cit., p. 28;
38) ibid., p. 159;
39) ibid., p. 198;
40) G.P. Eckermann: op. cit., pp. 192-193.

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Di Lucio Russo
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