Freud, Jung, Steiner (2)

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Metodo ipnotico, metodo catartico e psicoanalisi

Nel 1885, conseguito il titolo di “libero docente” (Privatdozent) in neuropatologia, Sigmund Freud (1856-1939) si recò a Parigi, presso la clinica psichiatrica della Salpetrière, per perfezionarsi alla scuola di Jean Martin Charcot (1825-1893).
All’epoca – ricorda Ernst Jones – “Charcot era all’apice della sua fama. Nessun altro, né prima né dopo, ha dominato come lui il mondo della neurologia, e l’essere stato suo allievo costituiva una distinzione permanente” (1).
Charcot svolgeva ricerche ed esperimenti sull’ipnosi e tentava l’applicazione di questo metodo alla terapia dell’isteria.
Scrive Cesare Musatti: “L’esecuzione di esperienze di ipnosi con nevrotici ed il confronto che ne risultava, dei fenomeni ottenuti in ipnosi con le spontanee manifestazioni di quei nevrotici ed in particolare degli isterici, condusse Charcot a constatazioni assai notevoli: l’azione esercitata nella ipnosi poteva creare nei soggetti paralisi parziali, contrazioni, anestesie, ed in genere molti altri fenomeni del tutto corrispondenti ai sintomi presentati spontaneamente nei loro attacchi da questi ammalati. E quella stessa azione, come poteva far scomparire tali manifestazioni dopo averle provocate, poteva pure far scomparire quei fenomeni quando si producevano spontaneamente in questi soggetti ammalati” (2).
Va ricordato che al lavoro di Charcot avevano aperto la strada, sia l’opera di Anton Mesmer (1734-1815), sia quella dei più importanti rappresentanti del cosiddetto “magnetismo animale”; si deve a costoro la scoperta e l’applicazione di quel “sonnambulismo artificiale” che venne detto in seguito “ipnotismo” (da James Braid, nel 1843).
“Occupandosi permanentemente del sonnambulismo, – scrive Pierre Janet (1851-1947) – i magnetisti finirono per interessarsi di tutte le complicazioni nervose e mentali che si avvicinavano al sonnambulismo. I magnetisti sono stati i primi a conoscere bene tutti i disturbi neuropatici e tutte le forme di crisi nervose” (3); da qui la sua convinzione che “il magnetismo animale abbia svolto un ruolo di intermediario tra i trattamenti religiosi e magici e le terapie psicologiche” (4).
Primo merito di Charcot fu quello di rendere accetto agli ambienti scientifici e accademici dell’epoca, prevalentemente orientati in senso positivistico, il metodo ipnotico dei magnetisti quale trattamento puramente psicologico o – come si diceva allora – “morale”.
Janet – osserva Giovanni Pietro Lombardo – attribuisce altresì al magnetismo “la scoperta di uno degli elementi fondamentali della pratica psicologica: senza l’utilizzazione di farmaci è possibile indurre sperimentalmente in un’altra persona una modificazione psicologica profonda e successivamente riportare questa persona al suo stato normale” (5). Grazie a Charcot, prosegue, “con il riconoscimento ufficiale del metodo ipnotico vengono poste all’attenzione della scienza ufficiale le concezioni fondamentali della prima psichiatria dinamica: l’ipnotismo come strumento privilegiato per avere accesso all’inconscio; la dualità dei processi psichici consci ed inconsci come modello della psiche umana; l’introduzione del concetto di energia psichica (in sostituzione del concetto di fluido magnetico) nella patogenesi delle malattie mentali; l’importanza del rapporto tra paziente e ipnotizzatore nella psicoterapia” (6).
Proveremo qui a esaminare e discutere, senza alcuna pretesa di sistematicità, queste “concezioni fondamentali”.
Per quanto riguarda quella dell’energia psichica, si può affermare che si è verificata, da allora, una netta regressione.
Il passaggio che ci fu, in quegli anni, dall’idea del “fluido magnetico” a quella dell’“energia psichica” avrebbe potuto infatti costituire il presupposto di un definitivo abbandono della concezione naturalistica dell’anima. All’interno dello stesso magnetismo, ad esempio, i cosiddetti “animisti” si erano opposti ai “fluidisti” sostenendo – come afferma Janet – che “l’azione del magnetizzatore era un’azione morale che cambiava i pensieri e questo cambiamento morale determinava tutto il resto” (7). Alcuni di loro – afferma ancora – parlavano addirittura di “un pensiero differente dal pensiero normale” che “non poteva essere che un pensiero potentissimo liberato da tutte le limitazioni che le dure necessità dei nostri sensi, le leggi del tempo e dello spazio impongono al nostro spirito” (8).
James Braid (1795?-1860), Hippolyte Bernheim (1840-1919), Joseph Breuer (1842-1925) e Pierre Janet, pur non potendo essere annoverati a pieno titolo tra gli animisti, si mostrano comunque più spregiudicati, quantomeno nel linguaggio, dei loro odierni successori. Il primo, ad esempio, parla di “immaginazione”; il secondo parla di “ideodinamismo” e sottolinea la necessità di non trascurare lo “spirito”; il terzo si domanda se sia lecito o meno definire “ideogeni” i sintomi isterici (9); il quarto (allievo di Charcot) ragiona in termini di “idee fisse subconscie” e di “trattamenti morali”.
Limitiamoci tuttavia a constatare che in virtù di queste esperienze, comprovanti l’efficacia del trattamento psichico o morale, cominciò ad affermarsi l’idea della psicogenesi delle nevrosi.
La terapia ipnotica presentava però dei limiti. Non solo la sua applicabilità si rivelava ristretta, dal momento che non tutti i pazienti erano in grado di portarsi al grado di ipnosi richiesto, ma anche la sua efficacia si dimostrava precaria, giacché i sintomi, una volta scomparsi, spesso riapparivano (magari in forma diversa), costringendo così il terapeuta ad applicazioni sempre più frequenti del trattamento. Sul piano teorico, lasciava poi irrisolto, in quanto terapia sintomatica, il problema della etiologia delle psiconevrosi.
Freud, dopo aver trascorso circa cinque mesi a Parigi ed essere andato anche a Nancy (nell’estate del 1889) per assistere agli esperimenti di Bernheim (la cui scuola era in contrasto con quella della Salpetrière), deluso dal metodo ipnotico, riprese a collaborare (a Vienna) con Breuer, interessandosi in particolare a un caso che questi aveva seguito dal dicembre del 1880 al giugno del 1882 e che si era sviluppato e risolto in modo insolito e sorprendente.
(La collaborazione tra Freud e Breuer durò all’incirca dal 1882 al 1894 e non è chiaro, a tutt’oggi, il motivo per cui s’interruppe. “E’ auspicabile – scrive con ironia Paul Roazen – che Josef Breuer, uno dei primi collaboratori di Freud, abbia avuto qualcosa di interessante da dire dato che il suo materiale su Freud resterà inaccessibile fino al 2102” (10). Rudolf Steiner [1861-1925], nella conferenza tenuta a Zurigo il 10 novembre del 1917 [citata nella nostra introduzione del 1996] si disse convinto che la ricerca psicoterapeutica avrebbe avuto tutt’altro esito se fosse stata portata avanti soprattutto da Breuer).
Racconta Jones: “Freud fu molto attratto dal famoso caso di Anna O., di cui venne a conoscenza poco dopo la sua conclusione avvenuta nel giugno 1882: per essere esatti, il 18 novembre. Esso usciva talmente dalla sua esperienza che gli fece una profonda impressione, e ne discusse i dettagli con Breuer infinite volte” (11).
Ripresero dunque il caso cercando di sviscerarne, approfondirne e svilupparne le implicazioni di ordine teorico e pratico.
Questo (un’autentica “pietra miliare” della storia della psicoanalisi) riguardava una giovane afflitta da numerosi e gravi sintomi isterici.
(La paziente si chiamava Bertha Pappenheim. Divenne in seguito esponente del “movimento femminile ebraico di emancipazione” e morì suicida a New York, circa sessant’anni più tardi.)
Qualche tempo dopo l’inizio del trattamento, Breuer constatò che la paziente, una volta portatasi in uno stato crepuscolare o ipnotico, cominciava a produrre una serie di comunicazioni verbali di carattere allucinatorio. Queste si presentarono dapprima in forma di fiabe, il cui motivo ricorrente era quello di una giovane addolorata e in ansia al capezzale di un malato, poi assunsero le sembianze di ricordi o rievocazioni di eventi sperimentati nel passato.
Breuer si avvide, con sorpresa, che al riemergere di un ricordo associato a uno dei sintomi corrispondeva la scomparsa del sintomo stesso.
Racconta Musatti: “In un certo periodo si era manifestata improvvisamente nella paziente la ripugnanza, ed anzi la assoluta impossibilità di bere qualsiasi liquido, malgrado la forte sete; ciò durava già da due settimane, quando la paziente raccontò, nella ipnosi serale, manifestando insieme un profondo senso di schifo, di avere un giorno sorpreso, entrando nella stanza della sua dama di compagnia, che il cagnolino di questa beveva da un bicchiere, e di essersi trattenuta dal fare osservazioni, per puro riguardo verso questa persona. Dopo aver fatto questo racconto – accompagnato come dicemmo da espressioni di schifo – la paziente chiese da bere; e bevve, senza difficoltà alcuna, molta acqua. Da allora in poi la inibizione a bere scomparve stabilmente anche allo stato vigile” (12).
Incoraggiato da questa esperienza, Breuer cercò allora di facilitare, mediante un’ipnosi indotta, il riaffiorare dei ricordi. Alcuni si confermavano privilegiati: il loro riemergere – come era successo la prima volta – suscitava nella paziente una reazione emotiva che annullava i sintomi corrispondenti.
Alla fine, riemerse il ricordo di un evento molto particolare che Breuer ritenne decisivo per l’insorgenza della malattia.
“Come episodio iniziale della malattia – racconta ancora Musatti – poté considerarsi il fatto seguente, raccontato come gli altri durante la ipnosi e del tutto dimenticato allo stato vigile. Una notte essa era sola al letto del padre, in condizioni di spirito particolarmente depresse per l’attesa dell’imminente arrivo di un chirurgo che doveva procedere a un atto operatorio. Nel dormiveglia, occupato da fantasie, le parve di vedere sulla parete una serpe nera che si avvicinava all’ammalato per morderlo. Volle allontanare l’animale, ma si trovò col braccio destro – che poggiava sulla spalliera della sedia – “addormentato”, e non poté muoverlo; guardando le dita della mano destra le parve di vederle trasformate esse pure in serpentelli, terminanti con un teschio” (13).
Il lavoro di Freud e Breuer (ma soprattutto di Freud) si rivelò assai proficuo: ne scaturirono, sia un nuovo metodo terapeutico, detto “catartico”, sia una prima sistemazione teorica del problema etiologico, che prese il nome di “dottrina del fatto traumatico”.
(“Non è vero – sostiene Luciano Mecacci – che Breuer curò Bertha basandosi sul metodo catartico, ovvero sulla rievocazione e verbalizzazione del passato e sulla liberazione dai contenuti psichici negativi, causa dei sintomi isterici: si limitò invece alla sola ipnosi e prescrisse forti dosi di cloralio e morfina” (14). E’ vero, ma questo dipende dal fatto che il metodo catartico, nato da una postuma riflessione sul caso di Bertha, non poteva ovviamente preesistergli. Il termine “psicoanalisi” nacque comunque più tardi. Come ricorda Jones, fu usato “per la prima volta in un lavoro pubblicato in francese il 30 Marzo 1896, mentre in tedesco lo si trova la prima volta il 15 Maggio 1896” [15].)
Dal punto di vista pratico, la terapia catartica risultava migliore di quella ipnotica: consentiva un’applicazione più vasta (giacché non era necessaria un’ipnosi profonda per far riemergere i ricordi) e i suoi risultati si mostravano più duraturi.
Dal punto di vista teorico, le nuove esperienze non facevano però che confermare il rapporto patogeno tra le immagini interiori e i sintomi messo in luce da Charcot.
Freud si rese allora conto che il problema della etiologia delle psiconevrosi si traduceva in quello dell’origine e della natura delle immagini morbose. Affrontò quindi questo problema, ma non riuscì a risolverlo – come vedremo – in modo appropriato.
La sua prima ipotesi fu la seguente: le immagini morbose dovevano essere considerate dei ricordi, ossia delle ri-produzioni mentali di specifici e concreti fatti traumatici verificatisi durante l’infanzia. Dal momento, però, che i sintomi nevrotici, a differenza di quanto accade nelle “nevrosi traumatiche”, mostravano d’insorgere anche a lunga distanza di tempo dall’evento patogeno, Freud considerò responsabile delle psiconevrosi non solo il fatto originario, ma anche la sua ri-attivazione dovuta a un secondo fatto più recente e associabile in qualche modo al primo.
A realizzare una psiconevrosi dovevano dunque concorrere, per Freud, due concreti eventi: l’uno (infantile, traumatico e rimosso) deputato a immergere nell’inconscio l’immagine con la sua carica emotiva; l’altro (attuale e scatenante) deputato a riportare a galla la carica emotiva, ma non l’immagine, provocando così una reazione abnorme o patologica.
Come si vede, le immagini interiori non potevano essere, per Freud, che ri-produzioni di immagini percettive: ovvero, rappresentazioni di eventi verificatisi nel mondo esterno. Egli osservava infatti il fenomeno dal punto di vista di quel realismo che viene detto “ingenuo” proprio perché ignaro (inconscio) dei ruoli esercitati, nella realizzazione della “cognizione sensibile”, dal soggetto (dall’Io), dal concetto, dall’attività giudicante e dall’immaginazione. Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu: sposata di fatto questa prospettiva, non sorprende che Freud abbia collocato la rappresentazione, che si dà in intellectu, in mezzo a due eventi che si danno invece in sensu.
Avendo scoperto nell’inconscio rappresentazioni di natura molto particolare, si mise dunque alla ricerca di eventi altrettanto particolari di cui queste non potevano essere che il ricordo o la ri-produzione.
Questi, una volta rintracciati, mostrarono di consistere in aggressioni sessuali patite o perpetrate durante l’infanzia. Freud li definì per questo “traumatici”, giungendo a precisare che la psiche si predisponeva, nel primo caso, all’isteria e, nel secondo, all’ossessività.
Tale dottrina può essere riassunta così: 1) il fatto traumatico primario suscita una forte reazione emotiva; 2) la rappresentazione del fatto e la connessa carica emotiva vengono non solo rimosse, ma anche disgiunte; 3) in occasione di un nuovo fatto, associabile in qualche modo a quello primario, la carica emotiva, resasi indipendente dalla rappresentazione originaria, viene alla luce e si manifesta come reazione impropria o abnorme (come “sintomo”). Nell’isteria, tale carica si converte somaticamente (si “scarica” sul corpo); nella nevrosi ossessiva, investe invece altre rappresentazioni (“fissa” le idee).
Si trattava di una dottrina lineare e apparentemente ineccepibile. Proprio quando ogni cosa sembrava aver trovato finalmente il suo posto, Freud fece però una scoperta che invalidava l’intera teoria messa a punto.
Musatti così descrive l’accaduto: “Nel momento stesso in cui la dottrina dell’etiologia traumatica delle psiconevrosi veniva sviluppata da Freud in una forma integrale, con la determinazione di una specificità del trauma per le due distinte psiconevrosi, venivano preparandosi le condizioni per un abbandono di quella dottrina. La applicazione della teoria a nuovi casi clinici, doveva infatti riservare a Freud una sorpresa: mentre con alcuni soggetti prove indirette (costituite da testimonianze di familiari, o dalle concordanti affermazioni di più nevrotici appartenenti alla stessa famiglia, intorno a questi episodi infantili a cui avrebbero partecipato) erano venute a suffragare la veridicità dei ricordi riattivati dai pazienti, con altri soggetti prove indirette dello stesso genere rivelarono a Freud la completa irrealtà dei fatti che i pazienti dicevano di ricordare. Tutta la interpretazione teoretica costruita da Freud sembra crollare di fronte a questa precisa smentita. Se i fatti che avrebbero dovuto agire traumaticamente non sono reali, viene meno il punto di appoggio di tutta la concezione che abbiamo esposta” (16).
Questo, per la storia della psicoanalisi e dei suoi successivi sviluppi, fu un momento davvero decisivo.
Venuto meno il nesso tra l’immagine e il fatto, ma conservatosi quello tra l’immagine e il sintomo, Freud si venne a trovare di fronte a questa alternativa: o rinunciare al realismo ingenuo (la psiche quale tabula rasa) e concedere autonomia alle immagini interiori, ricercandone l’origine nella più profonda interiorità dell’anima; o conservare tale realismo e insistere nella direzione intrapresa, sperando di scoprire altri “fatti” in grado di rimpiazzare quelli caduti.
Superato lo smarrimento iniziale, Freud scelse la seconda via, abbandonando così i propositi in un primo momento formulati.
(Nel 1914, disse: “Quando questa etiologia cadde per la sua improbabilità e per la sua incompatibilità con circostanze esattamente precisabili, mi trovai sulle prime disperatamente disorientato. L’analisi mi aveva condotto, attraverso un cammino corretto, fino a quei traumi sessuali, e ora si scopriva che non erano veri (…) Perseverai forse solo perché non avevo scelta e non potevo ricominciare in nessun altro campo. Infine pensai che, dopo tutto, non si ha diritto di protestare perché si è stati delusi nelle proprie aspettative: bisogna piuttosto rivederle. Se gli isterici riportano i loro sintomi a traumi inesistenti, questo fatto nuovo significa che essi creano simili scene nella fantasia, e che la realtà psichica deve essere presa in considerazione accanto alla realtà effettiva” [17].)
Per meglio chiarire quanto avvenne, ci serviremo di un esempio. S’immagini una giovane che, al momento di avere un rapporto sessuale, venga colta da angoscia e paura. Alla luce della dottrina del fatto traumatico, il caso lo si spiegherebbe così: la giovane si trova attualmente di fronte a un compito; nei confronti di questo, manifesta una reazione impropria che risulta effetto, all’indagine, di un’inconscia immagine di aggressione sessuale; dal momento che questa può essere soltanto un ricordo (una “immagine mnemonica”), la paziente deve avere allora subìto durante l’infanzia un’aggressione sessuale; il fatto non lo ricorda perché lo ha rimosso; la reazione emotiva connessa al fatto, ma poi separatasene, si è oggi risvegliata, poiché il compito attuale rievoca la sua esperienza infantile.
Ebbene, domandiamoci: una volta venuta meno la possibilità di far leva sul fatto traumatico infantile, quanto si salva di un siffatto ragionamento? Solo due cose: la manifesta reazione impropria (il sintomo) di fronte al compito attuale e il suo nesso con una inconscia immagine di aggressione sessuale.
Musatti cita la prima, ma tace la seconda. Scrive infatti: “E’ possibile mantenere pressoché inalterata la interpretazione del processo morboso essenziale per le psiconevrosi, sacrificando il concetto del trauma sessuale infantile specifico. Abbiamo veduto che Freud aveva concepito l’azione di quel trauma specifico come un’azione indiretta: soltanto il ricordo di quell’episodio infantile – ricordo obliato, ma suscettibile tuttavia di venire in certo modo risvegliato da situazioni successive ed attuali – genererebbe nei soggetti la tendenza ad animare di fronte a queste situazioni più recenti e attuali, quel particolare comportamento che è stato precisato come “reazione impropria di difesa”. Eliminando il fatto infantile, permane questa reazione impropria…” (18).
Non è così: oltre alla “reazione impropria di difesa” permane infatti il nesso tra questa e quello che si credeva essere un “ricordo”, ma che si è adesso scoperto essere invece una “scena” creata – come dice Freud – “nella fantasia”, e quindi un’immagine di origine sconosciuta. Tornando al nostro esempio, una cosa sola è certa: l’attuale reazione patologica della giovane di fronte al proprio compito è l’effetto prodotto, sul piano cosciente, da una inconscia immagine di aggressione sessuale.
Benché avesse in un primo momento ammesso “che la realtà psichica deve essere presa in considerazione accanto alla realtà effettiva”, Freud non fu però disposto a concedere autonomia all’immagine. Volendo salvare (più o meno deliberatamente) l’assioma del realismo ingenuo, non poté ammettere che si dessero in intellectu dei contenuti che non fossero stati prima in sensu: non poté ammettere, cioè, che le immagini, anche quando servono a impiantare delle “scene nella fantasia”, venissero svincolate dalla realtà sensibile, e distinte per ciò stesso dalle rappresentazioni.
Essendosi i primi fatti dimostrati inesistenti, prese dunque a cercarne degli altri. Dove andò questa volta a scovarli, lo spiega di nuovo Musatti: “La reazione impropria non può più essere concepita semplicemente come una reazione di difesa specificamente rivolta alla spiacevolezza di un ricordo, ma può comprendersi come un generico comportamento verso tutta una determinata sfera di fatti e attività: la sfera dei fatti e delle attività sessuali” (19).
I fatti ambientali (socio-culturali) furono dunque sostituiti da fatti biologici (fisico-chimici).
(Scrive Freud: “L’ipotesi secondo cui l’eccitazione sessuale avrebbe una base chimica concorda perfettamente con le concezioni che ci siamo formate per aiutarci a comprendere e a dominare le manifestazioni psichiche della vita sessuale (…) Quando distinguiamo l’energia della “libido” da qualunque altra energia psichica, supponiamo che i processi sessuali dell’individuo si differenzino dalle funzioni della nutrizione per un particolare chimismo” (20); e aggiunge: “Se però si diluisce, con C.G.Jung, la nozione di “libido” identificandola con quella dell’energia psichica in generale, si rinunzia a tutto quanto ci hanno portato le osservazioni psicanalitiche fatte sino ad oggi. La discriminazione delle tendenze sessuali da ogni altra tendenza e la limitazione della nozione di “libido” alle tendenze sessuali, trovano il loro appoggio più potente nell’ipotesi che abbiamo più sopra formulata, relativa a un chimismo particolare della funzione sessuale” [21].)
Le immagini interiori non andavano pertanto considerate dei ricordi, delle ri-produzioni di specifici eventi verificatisi nel mondo esterno, ma delle rappresentazioni di “fatti e attività” che si verificano e svolgono nel corpo e, in specie, in quelle regioni in cui si esplicherebbe e svilupperebbe – a detta di Freud – la funzione sessuale (orale, anale, uretrale e genitale).
La soluzione fu a tal punto “brillante” che le immagini, che erano in intellectu, potevano continuare a stare, in qualche modo, tra due fatti: tra quello sessuale interno, che se non era propriamente in sensu era comunque in corpore, e quello ambientale esterno che era propriamente in sensu. Dall’interazione di queste due realtà venne addirittura fatta nascere, in qualità di epifenomeno, l’intera psiche.
La psiche non è infatti, per Freud, che l’effimero risultato dell’incontro o dello scontro tra le istanze biologico-genetiche (ereditarie) e quelle socio-culturali.
(Otto Fenichel, nel suo noto Trattato di psicoanalisi, dichiara esplicitamente che se alla spinta del bios non venissero opposte delle “contro-cariche” di carattere socio-culturale si potrebbe parlare di “riflessi”, ma non di “psiche”. “Lo studio di tali forze inibitrici, – scrive – della loro origine e dei loro effetti sulla tendenza di scarico, è il primo oggetto degli studi psicologici” [22].)
Il pericolo di nuove smentite appariva così scongiurato: la specifica “reazione impropria di difesa” si era trasformata in un generico “comportamento” improprio, e lo specifico “fatto traumatico” si era trasformato in una non meno generica “sfera dei fatti e delle attività sessuali”.
A questo punto, Freud approntò una teoria della sessualità infantile (i Tre saggi sulla teoria della sessualità sono del 1905, ma se ne trovano accenni già nel 1898). Alla luce di quanto detto, tale teoria non poteva nascere, però, che ipotecata e distorta: doveva infatti ereditare dal vecchio fatto dei tratti traumatici o quanto meno spiacevoli.
Fatto si è che la caduta del fatto traumatico aveva sottratto a Frud la tessera più importante del suo mosaico dottrinario. Voler mantenere “pressoché inalterata – come dice Musatti – la interpretazione del processo morboso essenziale per le psiconevrosi, sacrificando il concetto del trauma sessuale infantile specifico”, significava quindi mantenere “pressoché inalterato” il mosaico nonostante ne fosse andata persa la tessera principale. A tal fine, si rese necessario modellare la tessera deputata a colmare il “vuoto” (la sessualità infantile) sul modello o sulla falsariga di quella precedente (il fatto traumatico).
Non è dunque – come probabilmente si crede – dalla obiettiva osservazione della sessualità infantile che è nata la teoria “del processo morboso essenziale per le psiconevrosi”, bensì è quest’ultima che per mantenersi “pressoché inalterata” si è trovata nella necessità di formulare una particolare teoria della sessualità infantile.
E’ questa, piaccia o meno, la genesi della ormai nota e affermata teoria freudiana della sessualità infantile. Carl Gustav Jung (1875-1961) l’ha non a caso rigettata, scoprendo, laddove Freud vedeva un essere “pervertito-polimorfo”, un bambino che sta semplicemente attraversando lo “stadio presessuale” del proprio sviluppo (23).
Chi dubitasse della validità della presente ricostruzione dei fatti farebbe bene a riflettere sul seguente episodio, riferito da Jung nell’autobiografia: “Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità infantile. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo”. Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: “E promettimi solo questo, figlio mio, che andrai in chiesa tutte le domeniche!”. Con una certa sorpresa gli chiesi: “Un baluardo, contro che cosa?”. Al che replicò: “Contro la nera marea di fango” e qui esitò un momento, poi aggiunse “dell’occultismo”” (24).
Solo la presente ricostruzione può dar ragione di una gaffe scientifica di tale portata (commenta Jung: “Innanzi tutto erano le parole “baluardo” e “dogma” che mi avevano allarmato; perché un dogma, e cioè un’incrollabile dichiarazione di fede, si stabilisce solo quando si ha lo scopo di soffocare dubbi una volta per sempre. E questo non ha nulla a che fare col giudizio scientifico”) (25).
Non è difficile in effetti immaginare che se fosse caduta, dopo quella del fatto traumatico, anche la teoria della sessualità infantile, sarebbe quasi certamente caduto l’ultimo “baluardo” posto dal materialismo contro il riconoscimento della “realtà dell’anima” (così s’intitola una raccolta di saggi di Jung) (26): realtà che fa capolino dietro quella che Freud addita come la “nera marea di fango dell’occultismo”.

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Di Lucio Russo
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