Freud, Jung, Steiner (4)

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Archetipi in sé e immagini archetipiche

Messa in luce l’attività creatrice dell’anima, Jung modifica la teoria freudiana della Libido e dei suoi “investimenti”.
Dal momento che si era attenuto alla dimensione personale o rappresentativa, Freud si era venuto a trovare nella necessità di spiegare come mai delle inerti rappresentazioni fossero in grado di agire quali agenti patogeni. Cosciente del fatto che le rappresentazioni, in quanto riflessi della realtà esterna, non possiedono alcuna energia, pensò allora di farle vivificare dall’“esterno”, ricorrendo all’idea dell’investimento libidico (connessa a quella della sessualità infantile).
Due, a suo dire, erano le forze in grado di vivificarle o virulentarle: la Libido, espressione dell’Eros, e la Destrudo, espressione del Thanatos.
Secondo Jung, invece, la Libido è una, ed è la vita o la forza stessa dei simboli o delle immagini.
Quella della Grande-Madre, ad esempio, è un’immagine vivente, e per ciò stesso un vettore energetico dotato di autonomia e di uno specifico potenziale. Prova di tale autonomia sarebbe data dal fatto che tali immagini si presentano (nei sogni) in regolare successione e in modo gerarchicamente ordinato.
Scrive Carl Alfred Meier: “Jung non fece soltanto l’osservazione summenzionata (cioè che determinate rappresentazioni coincidono esattamente con motivi conosciuti dagli studi comparativi delle favole, della mitologia e delle religioninda), ma osservò anche un fenomeno sorprendente. Ed era che tali figure e motivi apparivano in successione regolare. Nel corso di una più lunga, più profonda e completa analisi fu possibile delineare una gerarchia delle figure. Fu evidente che quando una figura appariva, un’altra figura o motivo l’avevano preceduta (…) Così, dopo che il motivo della figura A è stato sufficientemente trattato, il motivo della figura B comincia a farsi più frequente nei sogni. E quando questi elementi sono stati integrati nel sistema cosciente e trattati in modo completo, le figure e i motivi della classe C cominceranno ad essere più frequenti” (40).
Steiner, in proposito, dice: “Dovete anzitutto concentrare la vostra attenzione sul fatto che le rappresentazioni sono qualcosa che svolge nella vita animica dell’uomo un’esistenza propria, una vita propria (…) Le rappresentazioni sono come dei parassiti, come degli esseri viventi interiori dell’essere animico, che esplicano un’esistenza propria nella vita dell’anima”; e aggiunge: è un tale “padrone interiore” a determinare ad esempio il fatto che “al settimo anno si abbia una vita animica diversa da quella del ventesimo, del trentacinquesimo anno di vita o anche dell’età più tarda” (41).
Nella teoria junghiana, resta tuttavia irrisolto il problema del contenuto o dell’essenza delle “figure” di cui parla Meier. C’è infatti da chiedersi: se le rappresentazioni nascono, come spiega Steiner, dall’incontro tra la percezione (sensibile) e il concetto (42), da quale incontro nascono le “immagini archetipiche” di Jung?
Le immagini non possono poggiare su se stesse, giacché sono manifestazione di contenuti o di essenze che le trascendono. Cosciente di questo, Jung diede a tali contenuti il nome di “archetipi in sé”. Ma anche qui c’è da chiedersi: qual è la natura di queste entità e a quale mondo appartengono? A questo interrogativo Jung non ha mai convincentemente risposto.
Prima di provare a farlo noi (alla luce, s’intende, della scienza dello spirito), occorre riflettere su un particolare.
Si potrebbe paragonare l’anima a un essere che, disponendo di due “tentacoli”, ne protenda uno verso il proprio confine sensibile (verso il confine dei sensi) per afferrare gli stimoli provenienti dal mondo esterno e renderli coscienti in forma di rappresentazioni, e l’altro nella direzione opposta per afferrare gli stimoli provenienti dalla sua interiorità più profonda e mutarli, in modo per lo più incosciente, in immagini.
Jung, ricorda Jolande Jacobi, “ha insistito sulla necessità di distinguere tra l’archetipo in sé, ossia l’archetipo non percepibile e solo potenzialmente presente, e l’archetipo percepibile, attualizzato, “rappresentato” (…) Solo quando, espresso dal materiale psichico individuale, l’archetipo ha preso forma, esso diventa “psichico” ed entra nell’area della coscienza” (43).
Questo vuol dire che il mondo degli “archetipi in sé” in tanto può “prendere” forma, “diventare” psichico ed “entrare” nell’area della coscienza in quanto è, di per sé, “esterno” all’anima o “non-psichico”.
Esiste dunque, oltre a quello sensibile, un altro confine dell’anima? Certo che esiste (ma Jung non lo dice): è il suo confine spirituale.
Come quello sensibile si dà quale mondo “esterno”, e come quello animico si dà quale mondo “interno”, così quello dei “contenuti animici”, degli “archetipi in sé”, degli “enti” o delle “essenze” (sul quale ci si può affacciare soltanto da quello “interno” dell’anima), si dà quale mondo “esterno dell’interno”.
(Sarà compito di una coscienza ancora più evoluta di quella immaginativa scoprire che tale mondo “esterno dell’interno” altro non è che il mondo “interno dell’esterno”: ovvero, l’essenza sovrasensibile del mondo sensibile).
Tale realtà, a un tempo immanente e trascendente, trans-soggettiva e trans-oggettiva, è la realtà spirituale.
L’uomo si rivela dunque costituito, come insegna Steiner, di corpo, anima e spirito, e l’anima è deputata a mediare tra i due opposti regni della materia e dello spirito.
L’immagine junghiana dell’anima-guida (“psicopompa”), non avrebbe d’altronde senso se, al di là dell’anima, non vi fosse un altro e più elevato regno da raggiungere.
Jung, al riguardo, è stato però reticente e contraddittorio; si ha la netta impressione che abbia avuto (lucifericamente) paura dello spirito, così come Freud, a suo tempo, aveva avuto (arimanicamente) paura dell’anima.
(Della reticenza e contraddittorietà di Jung circa la natura dell’“archetipo in sé” ha fatto in seguito tesoro James Hillman. Scrive infatti: “Con la parola “archetipo” non posso che riferirmi all’archetipo fenomenico, ciò che si manifesta in immagini. L’archetipo noumenico in sé non può per definizione essere descritto, sicché su di esso non si può postulare assolutamente nulla. Anzi, qualunque cosa si dica sull’archetipo in sé è una congettura già in partenza governata da qualche immagine archetipica. Il che significa che l’immagine archetipica precede e determina l’ipotesi metafisica di archetipo noumenico. Decidiamoci dunque ad applicare al noumeno kantiano il rasoio di Occam. Sfrondando la nozione junghiana di archetipo da questo superfluo ingombro teoretico, restituiamo pieno valore all’immagine archetipica” [44]. Di ben altro tenore è quanto scrive invece Pavel Florenskij: “Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo” [45].)
Dal punto di vista gnoseologico, Freud non si discosta dal realismo ingenuo, mentre Jung non si discosta, per un verso, da Kant (il Sé come “noumeno” e gli archetipi come “categorie” o “forme a-priori”) e, per l’altro, da Schopenhauer o da Eduard von Hartmann (la Libido quale “energia” o “forza vitale” in sé inconoscibile): non si discosta, cioè, dai due principali rappresentanti di quel realismo detto, da Steiner, “metafisico” (se ne vedrà poi il perché).
In virtù di una sua innata sensibilità, Jung è riuscito dunque a distinguere il simbolo (l’immagine) dal segno (dalla rappresentazione) e a prendere perciò le distanze dal naturalismo freudiano. Vuoi, però, perché tale sensibilità era “spuria” (in quanto accompagnata da una qualche propensione per la medianità) (46), vuoi perché gli sono del tutto mancati gli apporti della coscienza ispirata e di quella intuitiva, non è riuscito a trarre, dalla sua scoperta delle realtà dell’“inconscio collettivo”, delle ”immagini archetipiche” e degli “archetipi in sé”, tutto ciò che sarebbe stato possibile, se non “doveroso”, ricavarne: ovvero, la coscienza, nell’ordine, delle realtà del “mondo spirituale”, delle “immaginazioni”, dei “concetti” o delle “idee”.
Jung, insomma, non è stato all’altezza delle sue scoperte. Gli “archetipi in sé”, dopo averli scoperti, li ha subito infatti “ricoperti” con il velo di una fantomatica realtà “psicoidea”.
Non solo, ma come Freud aveva ritenuto, ai tempi della dottrina del fatto traumatico, di poter vedere nelle immagini dei ricordi personali (ontogenetici), così Jung ha ritenuto di poter collocare le immagini archetipiche nella sfera di una non meno illusoria memoria “collettiva” (filogenetica).
Questi tentativi di spiegare le immagini mediante la memoria (ontogenetica o filogenetica) altro non sono, in realtà, che dei tentativi di spiegare qualcosa d’ignoto mediante qualcosa di ancora più ignoto (scrive Edoardo Boncinelli: “Purtroppo dal punto di vista scientifico c’è ben poco da dire sulla natura e le proprietà di questa facoltà [la memoria]: alcune distinzioni, una mole di aneddoti, un paio di meccanismi abbastanza ben studiati e niente più”) (47).
Fatto sta che un conto è il ricordo in sé (l’“engramma” o la “traccia mnestica”), che appartiene al passato, altro la sua rappresentazione, che appartiene al presente.
Spiega Steiner: “Il processo della rappresentazione, l’attività del rappresentare, è in sostanza qualcosa che nella vita dell’anima avviene soltanto nel momento in cui si svolge. Una rappresentazione come tale non sprofonda mai in non si sa quale subconscio, come non avviene per un’immagine riflessa in uno specchio quando si è passati davanti ad esso; l’immagine non ricompare, non si è nascosta in qualche modo per poter in seguito ricomparire quando si ripassi davanti allo specchio una seconda volta. Il sorgere di una rappresentazione è un evento che inizia e termina svolgendosi nel presente” (48).
Se questa è la natura della rappresentazione del ricordo (dell’immagine mnemonica), qual è allora la natura del ricordo in sé? E quale rapporto c’è tra il ricordo in sé e l’“archetipo in sé”? E’ il primo a costituire l’essenza del secondo, o viceversa? E’ cioè l’archetipo ad avere la natura del ricordo in sé o è il ricordo in sé ad avere quella dell’archetipo?
Come si vede, è impossibile spiegare la natura degli archetipi con la memoria.
Steiner spiega ancora che il ricordo “consiste in una percezione interiore” (49), che con il ricordo “si tocca un’importante zona di confine fra la psicologia e la fisiologia” (50), e osserva: “Nascono qui i primi consistenti errori, perché alla base di quella che si chiama psicologia analitica viene posta la teoria di un errato processo del ricordo e viene applicata nella pratica. Quando si comprenda il vero processo del ricordo, il problema non è più la ricerca di ricordi vaganti che si presentano nell’anima del paziente considerato malato dall’analista, ma di vedere come il paziente sia in connessione con un vero mondo obiettivo di processi spirituali che egli registra soltanto in modo abnorme” (corsivo nostro) (51).
In un Dizionario di psicologia analitica, alla voce “archetipo”, si legge: “La parte ereditaria della psiche; modelli strutturanti di prestazioni psicologiche, collegati all’istinto; un’entità ipotetica, non rappresentabile in se stessa ed evidente soltanto attraverso le sue manifestazioni (…) L’archetipo è un concetto psicosomatico, che collega il corpo e la psiche” (52).
Dire, come fa Steiner, che con il ricordo “si tocca un’importante zona di confine fra la psicologia e la fisiologia” è cosa però ben diversa dal dire, come fa il Dizionario, che l’archetipo “è un concetto psicosomatico, che collega il corpo e la psiche”: un conto, infatti, è parlare del ricordo, intendendo per “zona di confine fra la psicologia e la fisiologia” il corpo vitale (eterico), che media tra il corpo psichico (astrale) e quello fisico, altro parlare dell’archetipo, definendolo, in modo generico, “un concetto psicosomatico che collega il corpo e la psiche”, intendendo per “corpo” il corpo fisico.
L’archetipo è stato anche detto, da Jung, un “autoritratto dell’istinto” (53). Il che lascia nuovamente perplessi. Valendo l’autoritratto (in quanto immagine) quale sinonimo di “immagine archetipica”, non si capisce più, infatti, se questa debba essere intesa quale espressione dell’istinto o quale espressione dell’“archetipo in sé”. Si noti che Jung dice proprio che l’archetipo è un “autoritratto” dell’istinto, e non, magari, che l’immagine archetipica è il “ritratto” dell’istinto eseguito dall’“archetipo in sé”. L’istinto dipingerebbe quindi da solo l’immagine che si considera archetipica e suo “autoritratto”.
Ma qui, delle due, l’una: o si ritiene che le immagini archetipiche siano “forme di rappresentazione” degli istinti, e non si vede allora a che cosa serva la nozione dell’“archetipo in sé” (pur considerata, da Jung, della massima importanza); o si ritiene che le immagini archetipiche siano “forme di rappresentazione” degli “archetipi in sé”, e ci si ritrova allora di fronte al problema che si credeva di aver risolto, giacché resta insoluto quello del rapporto tra gli “archetipi in sé” e gli istinti.
E’ pur vero, d’altro canto, che se tutto dovesse ridursi in ultima analisi all’istinto (al bios o al “chimismo”) l’originalità dell’edificio innalzato prenderebbe a vacillare e le grossolanità naturalistiche della psicoanalisi freudiana rischierebbero una tardiva quanto imbarazzante riabilitazione.
Non ci si rende conto che una siffatta paura dello spirito (una siffatta “misologia”, direbbe Hegel) infirma la stessa ragion d’essere della psicologia junghiana. Questa, dopo aver sciolto l’uomo dai vincoli naturalistici freudiani, si rivela essere infatti una timida “psicopompa” che abbandona in mezzo al guado quanti le si affidano.
Non sorprende, perciò, che qualcuno le abbia volto le spalle, per tornare magari a trafficare con “la cosa freudiana” (Lacan), dal momento che questa, “uscendo” dall’anima in modo riduttivo o regressivo (vale a dire, difensivo), fornisce un contenuto oggettivo e materiale alle immagini, infondendo nel ricercatore, per quanto ingenua e grossolana, una qualche (benché illusoria) sicurezza.
Dice lo Zen: “Per l’uomo comune, le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi; per un discepolo, le montagne non sono montagne e gli alberi non sono alberi; per un maestro, le montagne sono montagne e gli alberi sono alberi”.
Ebbene, come il punto di vista dell’“uomo comune” coincide con quello freudiano, così quello del “discepolo” coincide con quello junghiano. Si tratta di un punto di vista intermedio che avrebbe valore se costituisse una fase provvisoria del cammino che conduce dalla ingenua forma mentis dell’“uomo comune” a quella illuminata del “maestro” (dal realismo delle cose al realismo dei concetti o delle idee). La psicologia junghiana è stata però sedotta e “incantata” dal mondo immaginativo o simbolico evocato, e vi è rimasta perciò “fissata”.
Sarebbe necessario capire che l’oggettività si dà “fuori” della psiche (del mondo “interno”), sia come oggettività materiale (come mondo “esterno”), sia come oggettività spirituale (come mondo “esterno dell’interno”). Chiunque sia incapace di “uscire” dalla psiche (dal “labirinto”) in tutti e due i sensi si condanna per ciò stesso a uno stato di sterile e perenne soggettivismo.
Sul piano storico ed evolutivo, la nascita della scienza della natura (galileiana) ha segnato il momento in cui la coscienza umana ha trasceso la soggettività nella direzione del mondo sensibile; qualche secolo dopo, la nascita della scienza dell’anima avrebbe dovuto permettere alla coscienza di trascendere la soggettività nella direzione del mondo spirituale.
Jung non lo ha capito, non avendo capito la differenza tra la coscienza e l’autocoscienza. Scrive infatti: “Secondo il nostro modo di pensare, la possibilità di una successione di tappe nello sviluppo della coscienza, è da escludere. Il solo pensiero che esista un’enorme differenza psicologica tra la coscienza dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto rasenta una sottigliezza che molto difficilmente potrà trovare una qualche rispondenza” (54).
E’ comunque tutta l’odierna psicologia, e non solo Jung, a non averlo capito e a trovarsi perciò ben lontana dal compito che dovrebbe assolvere. Nei casi ormai sempre più rari in cui riesce a conservare memoria di sé, l’anima rimane pertanto prigioniera (arimanicamente) del corpo o (lucifericamente) di se stessa (della psiche).

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Di Lucio Russo
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