Il denaro “sterco del demonio” (4)

I

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Scrive Fini: “Il denaro, checché ne pensasse ingenuamente Ezra Pound, è deperibile” (45): deperisce “più o meno lentamente a causa dell’inflazione, che è un fenomeno costante che lo accompagna dalla nascita, o della svalutazione” (46).
L’istituzione di una scadenza del valore economico della moneta (proposta da Pound) sarebbe dunque superflua, giacché a farlo “deperire” provvederebbero l’inflazione e la svalutazione.
Un conto, tuttavia, è il “valore economico” della moneta, altro la sua “quantità”. Quando si afferma (come fa ad esempio Krylienko) che “il rapporto numerico tra il volume dei beni e servizi scambiati in una comunità e il volume della moneta mediante la quale questi vengono scambiati dovrebbe essere costante”, si pone un problema di quantità, non di valore: lo stesso posto da Fini allorché richiama l’attenzione sul fatto che il denaro, essendo cresciuto come un “tumore”, farà crollare il “sistema” nel momento stesso in cui il suo “colossale volume” (“o una parte consistente di esso”) verrà presentato “all’incasso per essere convertito in beni, servizi e lavoro”.
La quantità e il valore economico della moneta, pur se strettamente correlati (un aumento della prima può produrre una diminuzione del secondo, e viceversa), restano distinti.
Ove si consideri, inoltre, che alla quantità delle monete ufficiali (nominali) viene ad aggiungersi, come abbiamo visto, quella delle monete ufficiose o virtuali, si fa chiaro che il deperimento “strisciante”, “vivace” o “galoppante” del valore economico della moneta determinato dall’inflazione, non è sufficiente a risolvere la questione.
Fatto si è che l’inflazione e la svalutazione diminuiscono il valore economico della moneta, ma non la sua quantità, mentre la scadenza della moneta sarebbe in grado di risolvere, sia il problema del suo valore economico, sia quello della sua quantità.
Su quale piano dovrebbe intervenire tale scadenza?
Non sul piano, ovviamente, del denaro-sostanza: per far scadere una moneta basta infatti distruggerla.
Su quello allora del denaro-valore? Nemmeno. Il denaro-valore (il denaro-idea) si può infatti trasformare (nelle sue manifestazioni), ma non distruggere (nella sua essenza).
La scadenza del denaro può intervenire, di fatto, solo sul piano del denaro-funzione: ossia su un piano che è tanto dinamico quanto giuridico (è il valore legale della moneta a garantire il suo valore economico).
Istituire una scadenza del denaro significherebbe dunque intervenire sul piano giuridico (del denaro-funzione) in modo tale che la quantità dei valori nominali circolanti venga periodicamente regolata in base a quella dei valori reali.
(Se si paragonasse la quantità dei valori reali all’“ora solare media” e quella dei valori nominali all’ora segnata dall’orologio, non si tratterebbe che di regolare, di quando in quando, questa in base a quella.)
La “malattia” che affligge il valore economico del denaro-sostanza, rendendolo deperibile e instabile, è cosa dunque diversa dalla “morte” del denaro-funzione. Solo questa è in grado infatti di azzerare tanto il valore economico della moneta quanto la sua quantità.
(Non riponendo evidentemente piena fiducia nella deperibilità dovuta all’inflazione e alla svalutazione, Fini auspica un’“abolizione” del denaro. Non è chiaro, tuttavia, il perché ritenga questa idea meno “ingenua” di quella della scadenza avanzata da Pound.)
Steiner riconosce, come Fini, la deperibilità del denaro, ma riconosce pure, come Pound, l’esigenza di una sua periodica scadenza.
Si può peraltro ipotizzare che l’inflazione eserciti a-posteriori un’azione logorante sul valore della moneta, proprio perché non vi è nulla che eserciti a-priori un’incisiva azione sulla sua quantità.

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Fini non si preoccupa di studiare il modo in cui possa venire esercitato un fisiologico controllo della quantità dei valori nominali circolanti (così da poterla diminuire o aumentare conformemente all’andamento della quantità dei valori reali) anche perché il denaro, a suo dire, è un “nulla” (Storia di un’affascinante scommessa sul nulla: questo il sottotitolo del suo lavoro).
Scrive: “Il denaro, che va distinto dalla moneta in cui si incarna, così come lo Spirito nell’ostia consacrata, anche se insieme formano un corpo mistico, è un concetto, un’idea, una logica, un’astrazione, che però, come ognuno di noi sperimenta nella pratica quotidiana, ha un sua inevitabile concretezza. Alfred Sohn-Rethel, con efficace ossimoro, lo ha definito “un’astrazione reale”” (47).
Nella “pratica quotidiana” dell’economia si sperimenta, sì, la “concretezza” del denaro-sostanza, ma si sperimenta ancor più la “forza” di quel denaro-valore che, mutandosi da mezzo in fine, acquisisce il potere di farsi, da “servo”, “padrone”.
Ma quale forza, al di là di quella legale conferitagli dal diritto, è in grado di utilizzare un’“astrazione reale” per elevarla (arbitrariamente) a fine?
Dice Fini: “In quanto promessa e credito basati sulla fiducia il denaro si lega al tempo, a quel tempo particolare che è il futuro. La fiducia nel denaro è fiducia nel futuro. Il denaro è, attraverso la fiducia, il trait d’union fra presente e futuro. E qui sta il nocciolo duro dell’intera questione-denaro. È questo aggancio col futuro che dà al denaro la sua forza, la sua devastante capacità di attrazione e di azione. Perché l’uomo, soprattutto l’uomo moderno, è un essere che si progetta, si proietta, coltiva illusioni. Per contro, da questo legame col futuro, dal suo essere futuro, il denaro deriva anche l’inafferrabilità, l’indefinibilità, il carattere sfuggente, la natura metafisica. Perché il futuro è solo una rappresentazione della mente: è un tempo inesistente” (48).
Sarebbe dunque il futuro (l’“aggancio col futuro”) a conferire “al denaro la sua forza”. Ma se il futuro non è, come dice, che una “rappresentazione della mente”, quindi un “tempo inesistente”, com’è possibile che una tale astrazione o un tale nulla possieda una “devastante capacità di attrazione e di azione”?
Delle due, l’una: o il denaro-valore e il futuro sono idee reali (“astrazioni reali”), e la loro forza è allora quella delle idee o dello spirito (“sia pure il denaro – dice Steiner – una pessima cosa, in una prospettiva etica o religiosa, in senso economico esso è lo spirito che opera nell’organismo economico, null’altro”) (49); o il denaro-valore e il futuro sono delle idee astratte (delle “astrazioni astratte”), e la loro forza è allora quella dell’“illusione reale”.
In questo caso, rimarrebbe però da spiegare donde tragga la sua forza una “illusione reale”.

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Fini descrive la nascita del denaro (avvenuta, come pare, in Lidia, tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C.), con queste parole: “E finalmente lo spirito del denaro decise di scendere sulla Terra, di incarnarsi e di palesarsi agli uomini, che ancora ignoravano la sua esistenza anche se la presentivano” (50).
Di certo non immagina di aver colto, così dicendo, una verità (“lo spirito del denaro” è infatti l’idea del denaro o il denaro-valore).
Osservata dal punto di vista della scienza dello spirito, la nascita del denaro avviene nello stesso periodo in cui avviene, nell’uomo, il passaggio dall’anima “senziente” (mitologica) a quella “razionale” (filosofica). “Insieme al denaro – ricorda appunto Fini – nacque il suo fratello gemello, il mercato. E contemporaneamente fecero la loro apparizione la filosofia, la scienza, l’economia, la polis, la democrazia, la personalità, il lavoro individuale, la povertà individuale e la solitudine dell’uomo” (51).
Il denaro sorge dunque in concomitanza di quella coscienza dell’Io che, per giungere a una prima maturazione, dovrà attendere la nascita dell’anima “cosciente” (la metà circa del XV secolo). Infatti, ricorda ancora Fini, “per arrivare alla banconota, emessa da un istituto di credito autorizzato dallo Stato, con valore legale su tutto il territorio nazionale, bisognerà aspettare il 1694 e la Banca d’Inghilterra” (52). Si dovrà ancora attendere, però, la “rivoluzione industriale” per poter davvero parlare di “economia monetaria” e di “imprenditoria”. “Se fra il XVII e il XVIII secolo – dice sempre Fini – l’economia si pone al centro della vita dell’uomo, sottomettendola alle sue esigenze, nel XIX è il denaro che si mette al centro dell’economia, finendo in breve tempo per assoggettarla” (53).
In questo modo si passa – per dirla con Werner Sombart – “dalla ricchezza basata sul potere al potere basato sulla ricchezza” (54).
L’avvento dell’anima “razionale” segna il trapasso dal potere teocratico (fondato sullo spirito) a quello nomocratico (fondato sul diritto); l’avvento dell’anima “cosciente” segna invece il trapasso dal potere nomocratico a quello plutocratico (fondato sulla ricchezza e sul denaro).
E’ l’evoluzione dell’anima, checché ne pensino i materialisti, a determinare il cambiamento della relazione dell’uomo con il mondo, e quindi con il tempo e con lo spazio.
Scrive Fini: “Fino al XVI secolo, più o meno, la stragrande maggioranza degli uomini aveva vissuto nel presente. Le civiltà classiche, sia greca che romana, le antiche civiltà mediorientali e orientali, ma anche quella medievale e feudale, erano sostanzialmente astoriche. Il tempo era quello ciclico della natura, della terra, delle stagioni, che sempre si ripete, immutabile, in una sorta di niciano eterno ritorno dell’eguale. Se in alcune civiltà, sotto la spinta della predicazione ebraica e poi cristiana, si pensava al futuro, era un futuro metafisico, religioso, posto al di là e al di fuori del tempo storico e quindi delle vicende umane. Intorno al XVII secolo la percezione del tempo comincia a cambiare. Accanto e poi, in un crescendo, al posto del quieto presente fa irruzione il dinamico futuro inteso non più come un al di là metafisico e religioso ma come un al di qua concreto, alla portata dell’uomo e in funzione del quale si deve vivere” (55).
Fini è dunque convinto che la chiave del rapporto dell’uomo con il denaro risieda nel rapporto dell’uomo con il tempo.
(In un’intervista rilasciata in occasione della pubblicazione del suo libro, alla domanda: “Ma dove sta il punto di rottura fra l’equilibrio preindustriale e gli squilibri odierni?”, ha risposto: “Sta nel concetto del tempo” [56].)
Non si chiede, però, per quale ragione la percezione del tempo cominci a cambiare intorno al XVII secolo, ma si limita a constatare, con evidente rammarico, che da quella data in poi la percezione del tempo quale futuro ha preso un sempre più netto e pernicioso sopravvento su quella anteriore del tempo quale presente.
Questa sua nostalgia della percezione del tempo quale presente non è però, a ben vedere, che una nostalgia del passato, e quindi il sintomo di una disposizione interiore attratta più dall’idea dell’essere che non da quella del divenire. Il suo rigetto del futuro è per l’appunto il rigetto del divenire e della modernità.

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