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Per chiarire la differenza tra l’uso “fisiologico” e quello “patologico” del denaro, ricorreremo di nuovo a un esempio.
Immaginiamo che Tizio, avendo lavorato per qualche tempo alle dipendenze di Caio e avendo racimolato un certo gruzzolo (avendo cioè accumulato un determinato capitale), decida d’investirlo, intraprendendo un’attività autonoma. Per far questo dovrà impiegare una parte del suo capitale (detta “costante”) per l’acquisto dei cosiddetti “mezzi di produzione” e un’altra (detta “variabile”) per pagare i propri dipendenti. È in queste due parti che si divide quel capitale produttivo che crea lavoro, beni e servizi (valori reali). Dall’investimento produttivo del proprio capitale, Tizio spera anche di ricavare un legittimo vantaggio o profitto (“non esiste un punto del processo economico – osserva Steiner – in cui non si debba parlare di profitto, di vantaggio. E tale vantaggio non è solo qualcosa di astratto; ad esso tendono gli immediati appetiti economici dell’uomo e devono tendervi. Che si tratti di compratore o venditore, l’aspirazione economica mira al profitto, al proprio vantaggio ed è questa aspirazione che provoca tutto il processo economico, che costituisce la sua forza. È l’equivalente della massa nel processo del lavoro in fisica”) (31). Immaginiamo dunque che Tizio, grazie al concorso di circostanze fortunate, riesca, in un tempo relativamente breve, a raddoppiare il proprio capitale e si trovi così a dover decidere se investirlo in un’altra impresa, tesaurizzarlo o impiegarlo in qualche attività speculativa.
Nel primo caso, reinvestirà il capitale nel lavoro (vuoi per trasformare i beni naturali, vuoi per trasformare il lavoro stesso), utilizzandolo così in modo “transitivo” e socialmente fertile; nel secondo, lo investirà nei cosiddetti “beni-rifugio” (la proprietà immobiliare o fondiaria, l’oro, le pietre preziose, le opere d’arte, ecc.), utilizzandolo così in modo “transitivo”, ma socialmente sterile; nel terzo, lo investirà in attività speculative, utilizzandolo così in modo “intransitivo” e socialmente dannoso.
Si ha “la vittoria della speculazione”, scrive Argo Villella, quando si hanno “enormi masse finanziarie che si riversano sulle valute a più alto tasso d’interesse” (32).
Benché sia improbabile che il capitale accumulato da Tizio costituisca una “enorme massa finanziaria”, resta il fatto che gli sarebbe sufficiente, al fine di incrementarlo, acquistare oggi un certo numero di azioni al costo x e rivenderle domani al costo x + y.
Scrive ancora Villella: “Si rifletta sul fatto che senza aver prodotto niente di utile, una quantità di moneta mille diventa milleduecento per aver cambiato la dizione di un conto da marchi in dollari o per aver comprato ieri una certa quantità d’oro e averla rivenduta oggi. Certo queste operazioni comportano un rischio ma si consideri invece quanti sforzi occorrano in inventiva, spirito organizzativo, senso commerciale, capacità esecutiva per aumentare le vendite di una qualsiasi industria del dieci per cento!” (33).
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“Si dice – afferma Steiner – che il denaro debba poter avere piccole dimensioni, ma per la sua rarità anche in piccolo formato un valore elevato. Ora questo è il sistema migliore per tesaurizzare il denaro; (già lo aveva osservato Licurgo che introdusse un tipo di denaro più voluminoso come rimedio contro l’arricchimento illecito). Questa qualità è precisamente quella che rende il denaro più atto a essere conservato con facilità e che quindi costituisce un relativo stimolo alla tesaurizzazione; se i pezzi da 100 lire fossero infatti grandi come una tavola, sarebbe certo più difficile tesaurizzarli; l’arricchirsi sarebbe meno agevole che non sia oggi, e darebbe più nell’occhio” (34). (Simmel contempla, tra le proprietà del denaro, anche quella della “nascondibilità”.)
L’uso improprio del denaro, che comincia con la tesaurizzazione e raggiunge il culmine con la speculazione, va giudicato “improprio” non per moralismo, ma perché risulta di fatto “non-economico” o “anti-economico”. Arrestando o pervertendo il movimento (la circolazione) del denaro, la tesaurizzazione e la speculazione, arrestano o pervertono la vita e l’anima dell’economia. La prima, arrestandone il movimento, trasforma il denaro in una realtà “immobile”; la seconda, invertendone il movimento, lo fa regredire, alla stessa stregua della libido freudiana, dal piano “oggettuale” dell’investimento produttivo (“fertile”) al piano “narcisistico” dell’investimento improduttivo (“sterile”). In quanto “autoinvestito” (autoreferenziale), il denaro comincia (come dice Fini) ad “autoalimentarsi” in modo ossessivo e insaziabile, estraniandosi così sempre più dalla sana vita economica e sociale.
E’ vero che “l’aspirazione economica mira al profitto” o al “proprio vantaggio”, ma è anche vero che tale interesse “particulare” potrebbe essere ridimensionato e armonizzato con quello generale, ove la guida del processo economico fosse affidata a delle libere associazioni di produttori, commercianti e consumatori: ovvero, a delle associazioni in cui fosse dato modo ai diversi interessi di incontrarsi o scontrarsi tra loro e di potersi così liberamente contemperare.
“Non appena il sistema associativo s’inserisca nel processo economico – dice appunto Steiner – l’interesse personale diretto verrà messo da parte e si attiverà invece la visione generale del processo stesso; nella formazione del giudizio economico sarà presente anche l’interesse degli altri. Senza di ciò un vero giudizio economico non può formarsi; sicché dai processi economici veniamo spinti alla reciprocità tra uomo e uomo e a ciò che si sviluppa in seguito da tale reciprocità, vale a dire all’obiettivo senso della comunità che opera nelle associazioni” (35).
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Se il denaro ha un corpo, un’anima e uno spirito, qual è allora quello spirito che ne anima la funzione socialmente negativa, e quale quello che ne anima la funzione socialmente positiva?
In tanto il denaro riesce a costituirsi come fine in quanto viene meno al compito di servire, come mezzo, lo spirito umano (l’Io). Ciò significa che quando non è lo spirito dell’uomo ad animarlo, lo anima allora uno spirito che, perseguendo fini non umani (in-umani o dis-umani), ne stravolge la funzione economica e sociale.
Quanti conoscono la scienza dello spirito di Rudolf Steiner non avranno difficoltà a riconoscere in tale spirito un’“entità arimanica”: ossia, un demone senz’anima che riduce ogni qualità alla quantità. Il denaro – dice appunto Fini – “è un essere senza qualità. Tranne una. La sua qualità è la quantità” (36).
Quale valore veicolerebbe invece il denaro se fosse gestito coscientemente dall’uomo, e non inconsciamente da Arimane?
Per rispondere a questa domanda, basta ascoltare quanto dice qui Simmel: “Alla complessità e crescita abnorme della vita moderna contribuisce soprattutto la nostra divisione del lavoro che allo stadio dello scambio in natura non si poté evidentemente sviluppare oltre i suoi insufficienti inizi. Come era possibile misurare i reciproci valori dei singoli prodotti se non esisteva un termine di misura comune a tutte le più diverse cose e qualità? Come poteva aver luogo lo scambio senza incontrare ostacoli e difficoltà, se non c’era un mezzo che livellasse ogni differenza, in cui si potesse convertire ogni prodotto e che potesse a sua volta convertirsi in ogni prodotto? Rendendo possibile la divisione della produzione, il denaro lega immancabilmente gli uomini gli uni agli altri, perché ognuno adesso lavora per l’altro, e solo il lavoro di tutti crea l’unità economica complessiva che integra la prestazione parziale dell’individuo” (37).
Rendendo “possibile la divisione della produzione” e permettendo così agli uomini di “lavorare gli uni per gli altri”, il denaro, se gestito coscientemente dall’uomo, sarebbe il veicolo (economico) della fraternità. Proprio per questo Arimane mira a impadronirsene e a porlo al servizio non della fraternità, bensì dell’egoismo (vale a dire, della coscienza corporea, spaziale o “borghese” dell’Io).
In tanto insomma, il denaro è lo “sterco del demonio” (come recita il titolo del libro di Fini) in quanto il demonio stesso restituisce in forma di fine quel che anche lui non può assumere che in forma di mezzo.
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Simmel coltiva l’illusione che la moderna “malattia” del denaro possa andare incontro a una sorta di “guarigione spontanea”. Nulla impedisce, dice infatti, che “l’economia monetaria, come tutte le grandi forze della storia, possa essere paragonata al mitico giavellotto in grado di guarire da solo le stesse ferite che infligge” (38).
Simmel confida quindi nel “miracolo”, mentre Fini, convinto com’è che il denaro nasca malato, e che gli uomini ne “potrebbero benissimo fare a meno” (39), non si pone il problema di una sua terapia, ma si limita a rimarcare il fatto che con la crescita del volume o della quantità del denaro circolante cresce pure la malattia di cui lo ritiene portatore.
Quanti sono convinti (al pari di Fini) che la “malattia” del denaro sia “congenita” non possono in effetti far altro che auspicare una sua pietosa eliminazione (una sorta di eutanasia), mentre quanti sono convinti (al pari di Simmel) che tale “malattia” è “acquisita”, si sentono chiamati a trovare un rimedio atto a guarirla: atto a evitare, cioè, che il volume dei valori nominali circolanti superi, in modo abnorme, quello dei valori reali esistenti.
(Diciamo “in modo abnorme” perché, qualunque sia il rimedio in grado di eliminare dal circuito economico i valori nominali eccedenti, si dovrà comunque provvedere a far salva quella quota-parte degli stessi che serve, in forma di “capitale”, a intraprendere nuove iniziative.)
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L’alterazione del rapporto fisiologico tra la quantità dei valori nominali e quella dei valori reali è dovuta a diversi fattori. Tra i più importanti c’è quello del credito. Dal momento che “oltre il novanta per cento della moneta di un paese industrializzato progredito – afferma Krylienko – è creato nella forma di prestiti bancari allo Stato o ai settori industriale e commerciale” (40), succede che “mentre le banche creano “moneta”, tale creazione non monetizza l’interesse che viene addebitato, cioè non fornisce per esso copertura monetaria […] Vi è, a farla breve, uno squilibrio permanente tra la quantità di moneta dovuta alle banche e la quantità di moneta in circolazione con cui effettuare il rimborso” (41). Per rimediare a questa anomalia, Krylienko vorrebbe che “la responsabilità di creare ed emettere la moneta delle comunità, che dovrebbe essere un pubblico servizio senza scopo di lucro” non venisse “lasciata nelle mani delle banche, un’industria privata organizzata allo scopo di fare profitti”. L’attività delle banche, dice infatti, dovrebbe essere confinata “al finanziamento dell’industria e del commercio non con moneta creata da loro, ma con denaro effettivamente in loro possesso” (42): ossia, con “il loro capitale netto o i loro depositi vincolati” (43).
In ogni caso, l’attuale sistema economico prevede, sia un credito alla produzione, sia un credito al consumo. Ciò significa (fermi restando i rilievi di Krylienko) che se con il primo il denaro viene prestato oggi nella fiducia che si trasformerà domani in beni concreti, con il secondo, viceversa, vengono prestati oggi beni concreti nella fiducia che si trasformeranno domani in denaro (come avviene, ad esempio, con le vendite rateali). Il credito al consumo si basa dunque sul denaro virtuale. Se per acquistare, mettiamo, un frigorifero si firma una cambiale che scade dopo un anno dalla data di acquisto, si mette in circolazione un denaro che attualmente non c’è, ma che si ha fiducia che ci sarà. Chi ha scambiato il frigorifero con la cambiale può però, girandola, farla circolare al pari del denaro reale. È in questo modo che alla quantità dei valori nominali creati dall’Istituto di emissione viene ad aggiungersi una quantità di valori virtuali “emessi”, per così dire, da tutti i creditori.
(Scrive Roberto Bencivenga: “La tecnologia sposata ai nuovi prodotti finanziari ha decuplicato la quantità potenziale di denaro in circolazione. Secondo uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, i nuovi strumenti di finanza virtuale (swap, future, option call, option put, forward, cap, floor, swaption, per citare solo i più noti fra i circa duemila esistenti) hanno creato una bolla finanziaria di oltre 40.000 miliardi di dollari (al cambio di 1700, circa 68 milioni di miliardi di lire) […] L’informatica, creando moneta virtuale, è diventata di fatto una banca di emissione che favorisce le speculazioni finanziarie” [44]. I dati riportati sono del 1995.)
Il vero problema (il vero controsenso) è costituito però dal desiderio di disporre di un denaro il cui valore nominale sia duraturo nel tempo e insieme coperto da valori reali deperibili nel tempo.