Lo spirito critico e il contar storie

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Così s’intitola l’articolo con il quale Diego Marconi presenta, su Il Sole 24 Ore (27 maggio 2001), il libro di Ermanno Bencivenga: I passi falsi della scienza (Garzanti, Milano 2001). Scrive Marconi: “Secondo Bencivenga si deve rispettare la professionalità degli scienziati, ma “senza dimenticare lo spirito critico”. Ora, come non rendere omaggio allo spirito critico? E tuttavia, nel caso del dibattito scientifico, le sole critiche sensate sono quelle competenti: chi oppone a un’opinione scientifica una contestazione disinformata non dà prova di spirito critico, ma soltanto di arroganza”.
Come si vede, Marconi, dopo aver reso un doveroso quanto sbrigativo omaggio allo “spirito critico”, propone di distinguere le critiche “sensate” dei competenti da quelle insensate (o arroganti) degli incompetenti. Non considera affatto, perciò, che anche lo “spirito critico” prevede una specifica competenza e che questa concerne l’attività del pensare, e non i suoi oggetti (i pensati). Non è difficile trovare infatti degli scienziati che raccolgono “competentemente” i dati delle proprie ricerche (e dei quali sono quindi “informati”), ma li mettono poi incompetentemente in rapporto tra loro, ricavandone così delle teorie (o delle conclusioni) insensate. Pur essendo competenti, tanto per fare un esempio, del modo in cui è fatta una radio, si potrebbe essere convinti, al contempo, che questa crei o produca voci e suoni, e non che semplicemente li trasmetta. Basta infatti rimuovere un qualche suo componente per ridurla al silenzio. Ebbene, si procede forse diversamente quando ci si dice convinti che sia il cervello a pensare, sentire e volere? E coloro che, sapendo com’è fatto il cervello, fanno di queste affermazioni, sanno forse, avendoli osservati con lo stesso rigore con cui osservano i fenomeni fisici, come sono fatti il pensare, il sentire e il volere? O non cercano, piuttosto, di spiegare, mediante ciò di cui sono competenti, ciò di cui sono viceversa incompetenti? Fatto si è che Marconi crede che lo “spirito critico”, o – come preferiva dire Paolo Sarpi – “l’arte di ben pensare”, sia una capacità naturale e che non abbisogni quindi di alcuna specifica, severa e faticosa educazione. E’ sicuramente vero che i filosofi, curando unilateralmente lo sviluppo di tale “spirito” finiscono quasi sempre col perdere di vista i fatti, ma non meno è vero che gli scienziati, curandolo insufficientemente o non curandolo affatto, finiscono quasi sempre col perdersi, altrettanto unilateralmente, tra i fatti.
La principale preoccupazione di Bencivenga – scrive ancora Marconi – è “che la gente creda “troppo” agli scienziati”; e aggiunge: “si tratta di una preoccupazione davvero singolare, nella patria del dottor Di Bella, dove si è svolto il recente “dibattito” sugli organismi geneticamente modificati. Il problema sembrerebbe piuttosto l’opposto: Che, in Italia almeno, la “gente” a tutti crede meno che agli scienziati”.
Questa, sì, ch’è arroganza! Se fosse vero, infatti (come in parte è vero), che la gente, almeno in Italia, “a tutti crede meno che agli scienziati”, perché questo dovrebbe essere colpa della gente, e non degli scienziati? Nel suo libro, Bencivenga cita, tra gli altri, il caso dello “pneumotorace”. “Non c’erano veri e propri argomenti, – ammette a tale proposito Marconi – ma solo vaghe analogie, per sostenere che insufflando aria tra le due pleure si potessero guarire i polmoni tubercolotici, né ci furono mai effettivi controlli dell’efficacia dell’intervento”; tanto che non mancarono – ricorda – “effetti devastanti, come i non pochi morti fatti dallo pneumotorace”. Orbene, per quale ragione la gente (e in particolare i parenti, gli amici e i conoscenti dei “non pochi morti”) dovrebbe continuare a credere a questi scienziati? E per quale ragione dovrebbe pensare che, nei confronti della clonazione o degli organismi geneticamente modificati, non si stia oggi procedendo con la medesima faciloneria con cui si è ieri proceduto nei confronti dello pneumotorace?
“Quattro anni dopo la pecora Dolly, – leggiamo su Il Giornale (26 marzo 2001) – gli scienziati hanno crescenti perplessità sugli effetti a distanza della clonazione, il cui processo pare creare errori casuali che possono condurre a complicazioni non prevedibili. In questo scenario – per gli addetti ai lavori – pensare di clonare l’uomo è una follia. Secondo un’inchiesta del New York Times, i meccanismi che si innescano dopo la clonazione sono in gran parte un mistero. E’ il caso delle mucche clonate, che hanno cuori più grandi del normale e polmoni non completamente sviluppati”. Il processo della clonazione crea dunque degli “errori casuali che possono condurre a complicazioni non prevedibili”.
Ma non dovrebbe essere propria della “scienza” una qualche capacità di “previsione”? Ed è ancora “scienza”, allora, quella che sa solo prendere atto, a-posteriori, dei danni o dei disastri provocati dal suo operare?

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Di Francesco Giorgi
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