OGM? Una volta li chiamavamo incroci

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Nella nota intitolata: “L’alfabetizzazione scientifica: ovvero, “come ti erudisco il pupo””(20 marzo 2001), ci siamo occupati dell’intenzione formulata dalla cosiddetta “comunità scientifica” di varare una vasta campagna “autopromozionale”.
Ebbene, Il Sole 24 ore, nel suo supplemento domenicale (3 giugno 2001), pubblica uno stralcio dell’intervento introduttivo di Edoardo Boncinelli al prossimo numero (in uscita il 7 giugno) della rivista Kos (dedicato agli Organismi geneticamente modificati). Tale stralcio così si conclude: “Se è vero che la gente è preoccupata o ha decisamente paura, nessuno può far finta di niente. Se si dovessero prendere in considerazione solo chi protesta violentemente, probabilmente varrebbe la pena di essere secchi e perentori, ma nella misura in cui si rileva una diffusa preoccupazione nella società non ci si può limitare ad affermazioni teoriche. Occorre fare qualcosa. Per esempio, procedere con cautela nell’immissione di elementi di novità, predisporre e rafforzare tutti i tipi di controlli sui prodotti messi sul mercato, transgenici e non transgenici, e contemporaneamente fare uno sforzo per informare la gente su che cosa significhi veramente tutto ciò”.
La campagna “autopromozionale” è dunque cominciata. Si stia però attenti – raccomanda Boncinelli – a non essere “secchi” e “perentori” (vale a dire, autoritari), poiché questo, stante la diffusa “preoccupazione” o “paura”, potrebbe rivelarsi controproducente. Occorre – consiglia ad esempio – “procedere con cautela nell’immissione di elementi di novità, predisporre e rafforzare tutti i tipi di controllo sui prodotti messi sul mercato, transgenici e non transgenici e contemporaneamente fare uno sforzo per informare la gente su che cosa significhi veramente tutto ciò”. Dal che è lecito evincere che, ove la gente non fosse preoccupata e impaurita, si potrebbe fare a meno di “procedere con cautela”, di “predisporre e rafforzare” i controlli e di sforzarsi “per informarla”.
Dal momento, tuttavia, che la preoccupazione e la paura ci sono, ecco allora che Boncinelli comincia a informarci “su che cosa veramente significhi tutto ciò”, e scrive: “L’uomo ha manipolato e modificato da sempre gli enti di natura che lo interessavano. Negli ultimi 12000 – 13000 anni ha prodotto il grano, i piselli, il pomodoro, il cane, il cavallo e la gallina. L’abilità di allevatori e coltivatori nel produrre varietà e specie animali e vegetali sempre più rispondenti alle loro necessità, applicando vari metodi di selezione artificiale degli individui delle varie specie, è sempre stata sorprendente e impressionò anche Darwin e gli ispirò la teoria della selezione naturale secondo la quale la natura si comporterebbe come un giardiniere che migliora e perfeziona in perpetuo i suoi incroci e i suoi innesti”.
“L’uomo – dice dunque – ha manipolato e modificato da sempre gli enti di natura che lo interessavano”. E’ vero, il problema non è infatti (come quasi sempre si tende a far credere) se si debba o non si debba farlo, ma il come si debba o non si debba farlo. E Boncinelli, come già si capisce dal titolo del pezzo (“Ogm? Una volta li chiamavamo incroci”), vorrebbe darci a intendere che le attuali “manipolazioni genetiche” equivalgano in tutto e per tutto ai tradizionali “incroci” o “innesti”. Ma non è vero. “A differenza di quanto avviene nell’incrocio sessuale, – osserva infatti Sergio Maria Francardo – dove l’infinitamente complesso codice genetico delle cellule dei genitori si mescola, in modo non orientabile, creando un’infinita serie di possibilità, l’ingegneria genetica può drasticamente ridurre le variabili orientando in modo deciso le scelte. L’ingegneria genetica mette insieme geni che la natura ha separato. Sappiamo che la natura autorizza e favorisce la mescolanza dei geni solo tra individui di una stessa specie o di specie molto vicine. Gli ibridi si ottengono da varietà affini. Per comprendere appieno che cosa significhi oltrepassare la barriera della specie, ricordiamo il significato del termine “specie”: insieme di individui con un elevato numero di caratteri simili, in grado di accoppiarsi e dare vita a prole feconda. E sottolineiamo “feconda”, cioè capace a sua volta di generare individui simili. Quindi, se due individui appartenenti a specie diverse si accoppiano, essi generano prole non feconda, oppure non danno vita ad alcuna prole. Nell’esempio costantemente riportato da alcuni biotecnologi dell’incrocio tra cavalla e asino da cui nasce il mulo, non viene ricordato che il mulo non potrà trasmettere quel genoma perché il mulo è sterile. L’esempio del mulo mostra come la natura abbia difeso strenuamente la barriera tra le specie, anche non molto lontane come il cavallo e l’asino. La natura concede la fecondità solo dove essa crea ricchezza, solo dove possono sorgere possibilità adeguate di evoluzione” (I semi del futuro – Edilibri, Milano 2001, pp.57-58).
Orbene, dire – come fa Francardo – che “la natura autorizza e favorisce la mescolanza dei geni solo tra individui di una stessa specie o di specie molto vicine”, equivale a dire che la natura autorizza e favorisce la mescolanza delle parti (i geni) solo tra insiemi (individui) di uno stesso Insieme (la specie) o di Insiemi molto vicini. Una cosa, dunque, è consentire che due insiemi, grazie a degli incroci o a degli innesti, mescolino organicamente le loro parti, altra è togliere delle parti a un insieme (per esempio, a un pollo) e inserirle meccanicamente in uno diverso e non affine (per esempio, in una patata).
“I cibi transgenici – dice Boncinelli – sono alimenti derivati da piante transgeniche. Nel genoma di queste è stato inserito un gene che non c’era o è stato modificato uno che già c’era. Questa limitatissima modificazione del patrimonio genetico di una pianta la fa apparire agli occhi di qualcuno come una creatura nuova, innaturale e pericolosa. Queste piante hanno un gene in più, e talvolta un gene in meno, nel loro genoma, costituito di decine di migliaia di geni. Perché un gene fra centomila dovrebbe essere dannoso e perché non si è mai ritenuto dannoso il prodotto di due piante quando il numero dei geni implicati in quest’operazione era molto superiore? Quella dei cibi transgenici è al momento una paura immaginaria”.
Si stenta invero a credere che a seguire una simile logica sia un biologo e non un meccanico. Solo in un aggregato, infatti (e non quindi in un organismo), l’addizione o la sottrazione di qualche sua parte non influisce minimamente sulla natura dell’insieme. Si provi a pensare, tanto per fare un esempio, a un organismo come a un recipiente pieno d’acqua: ossia, come a una realtà liquida e non solida. Ebbene, non è sufficiente versarvi anche una sola goccia d’inchiostro per osservare che tutta l’acqua cambia colore? “Nel genoma delle piante transgeniche – dice Boncinelli – è stato inserito un gene che non c’era o è stato modificato uno che già c’era”. Bene, proviamo allora a compiere la stessa operazione con le parole. La parola – ricorda infatti il Dizionario – è un “insieme organico di suoni o di segni grafici con cui l’uomo riesce, parlando o scrivendo, a comunicare dei contenuti mentali”. Paragoniamo dunque la parola, quale appunto “insieme organico”, a un “ente di natura” e le vocali e le consonanti che la compongono ai geni. Prendiamo, ad esempio, la parola “carpa” (Cyprinus carpa) e inseriamovi la consonante “s”: ovvero, “un gene che non c’era”. Cosa accadrà? Accadrà che non avremo più a che fare con un “pesce commestibile d’acqua dolce dei Ciprinidi”, cui il gene aggiunto si limita a conferire qualche ulteriore e nuova proprietà, bensì avremo a che fare con qualcosa di totalmente diverso: magari, con una “scarpa”. La medesima cosa accadrà se, invece di inserire nella stessa parola “un gene che non c’era”, ne modifichiamo “uno che già c’era”. Ove modificassimo, ad esempio, la seconda delle due “a” in una “o”, non avremmo più a che fare infatti con una “carpa”, ma con il “carpo”: ossia, con quella parte del polso compresa tra l’avambraccio e il metacarpo. Ci si guardi dal giudicare inappropriati o bizzarri questi esempi, poiché lo stesso Boncinelli, in altra sede, così scrive: “La vita è una proprietà di un intero organismo e non ha senso riferirla alle sue singole molecole e l’intelligenza, la volontà e l’interesse sono proprietà della mente, mentre non ha senso attribuirle alle singole cellule nervose. Su un piano diverso l’essere vera o falsa è una proprietà di una frase, mentre non ha senso se riferita a singole parole o singole lettere dell’alfabeto” (Il cervello, la mente e l’anima – Mondadori, Milano 2000, p.21). Qual è dunque il problema? Il problema è che Boncinelli, pur rendendosi conto della preminenza degli insiemi (dell'”intero organismo”, della “mente” o della “frase”) sulle parti (sulle “singole molecole”, sulle “singole cellule nervose”, sulle “singole parole” o sulle “singole lettere dell’alfabeto”), non sa però pensare i primi (extrasensibili) nello stesso modo realistico in cui sa pensare invece le seconde (sensibili).
Chiede sempre Boncinelli: “Perché un gene fra centomila dovrebbe essere dannoso e perché non si è mai ritenuto dannoso il prodotto di due piante quando il numero dei geni implicati in quest’operazione era molto superiore”? Ma per la semplice ragione – possiamo rispondergli – che la “logica” che governa le operazioni della natura vivente è diversa da quella che governa la “mente computazionale” o quell’intelletto che sa solamente “far di conto”. Sarebbe doveroso ricordare, infatti, che, negli incroci o negli innesti, l’uomo propone e la natura dispone, mentre, nella manipolazione genetica, l’uomo propone e dispone. Non “dispone”, però, in quanto ha fatto sua la “logica” qualitativa e vivente della natura, bensì in quanto presume di poter surrogare tale “logica” con quella quantitativa e morta del proprio intelletto.
La natura – dice Francardo – ha “difeso strenuamente la barriera tra le specie”. Orbene, le attuali manipolazioni genetiche infrangono tali barriere, senza aver prima infranto, però, quella che divide la logica (analitica) dell’intelletto che le guida da quelle (sintetiche) della vita e della qualità. Boncinelli, perciò, in tanto può dire che “quella dei cibi transgenici è al momento una paura immaginaria”, in quanto non immagina, al momento, quali profondi e complessi problemi di pensiero implichi la questione. Né immagina, a maggior ragione, quanti e quali orrori pratici possano scaturire dagli errori teoretici. “L’umanità – osserva in proposito Hans Magnus Enzensberger – non si è mai congedata liberamente dalle proprie fantasie di onnipotenza. Solo quando la hybris (prevaricazione dell’uomo nei confronti degli altri uomini, della natura, degli dei, ndr) avrà iniziato il proprio cammino, il comprendere i propri limiti prenderà – per necessità – il sopravvento, probabilmente a un prezzo catastrofico” (Corriere della Sera, 4 giugno 2001).

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Di Francesco Giorgi
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